Tag: polizia

  • Le rivolte in Francia sono una questione di classe

    Queste riflessioni sono state pubblicate anche su Napoli Monitor.

    Il figlio che non è abbracciato dal villaggio
    lo brucerà per sentirne il calore
    (proverbio)

    L’ennesima esecuzione razzista da parte della polizia francese ha innescato una rivolta per certi versi molto più esplosiva di quella del 2005. Le reazioni del governo, della borghesia, di una parte della sinistra, sono di una cecità agghiacciante, lontana anni luce dalla comprensione dell’origine sociale dello scoppio di tale rivolta. All’Onu, che chiede alla Francia di rivedere i metodi della propria polizia e di assicurarsi di prevenire e punire ogni comportamento discriminatorio, il governo di Macron risponde che nella polizia francese non esiste alcun razzismo. Al raro giornalismo ancora lucido che fa notare che la legge votata nel 2017 dall’attuale ministro dell’interno Darmanin ha portato alla quintuplicazione del numero di morti ammazzati dalla polizia, il ministro semplicemente nega che tale aumento sia mai avvenuto, in barba alle statistiche e ai documenti ufficiali.

    Invece di parlare di ciò che ha condotto all’omicidio di Nahel, si evoca la sua morte solo come presunto “pretesto” per bruciare tutto. Se l’omicidio di Nahel è un pretesto, qual è il vero motivo? Secondo Macron sono i videogiochi. Per alcuni osservatori, anche in Italia, incapaci di dissimulare il razzismo, il motivo è semplicemente la provenienza della popolazione in rivolta: irrazionale e presa da una furia immotivata, sarebbe costantemente in attesa di una qualunque scusa per bruciare tutto senza un perché.

    La vera questione neanche si tocca: l’origine di gran parte della popolazione in rivolta è coloniale. Il trattamento che questa popolazione riceve quotidianamente da parte delle istituzioni è coloniale. La gestione politica razzista è coloniale. Le rivolte delle “banlieues” a cui si assiste ciclicamente sono solo un’infinitesima parte della violenza coloniale su cui da secoli si basa la società francese.

    La scarsa conoscenza della questione coloniale francese rischia però di essere letta in maniera limitata da un pubblico italiano. Il colonialismo è ben più del “semplice” razzismo, che ne costituisce il lato culturale: resta il piano economico. Riducendo tutto al razzismo, l’aspetto economico strutturale rischia di passare inosservato. Il colonialismo è stato ed è innanzitutto un sistema che gerarchizza gli esseri umani per colore, nazionalità, origine, statuto amministrativo, e opera su questa base per estrarre ricchezza e distribuirla in maniera socialmente iniqua. Storicamente, il colonialismo ha consentito in maniera sostanziale l’accumulazione originaria, l’appropriazione di risorse e lavoro da parte degli uomini d’affari europei, e ha contribuito allo sviluppo del capitalismo. Oggi, la gestione coloniale della popolazione povera e di origine straniera è ancora la più forte forma di disciplinamento che tiene in piedi il sistema di sfruttamento.

    Le rivolte di questi giorni esprimono ampiamente una rabbia contro questo sistema. Poco importa che non ci siano rivendicazioni politiche ufficiali. La stragrande maggioranza degli oltre mille incendi di edifici ha colpito particolari obiettivi: commissariati, stazioni di polizia, caserme, municipi. La rivendicazione è sotto gli occhi di tutti: basta volerla vedere.

    Inizialmente sono stati attaccati i luoghi del potere poliziesco e delle istituzioni. In un secondo tempo è stato appiccato il fuoco anche ad altri luoghi del servizio pubblico, come scuole e biblioteche. Molta gente, pur comprendendo la rabbia per il razzismo e l’omicidio di Nahel, ha interpretato questi atti come puramente criminali, senza alcun contenuto politico, dimenticando che scuole e biblioteche, per quanto possa dispiacere, sono di fatto strumenti di esclusione sociale. Nonostante il suo valore emancipatore ideale, la scuola è per molti giovani la prima istituzione in cui le disuguaglianze sociali si trasformano in disuguaglianze scolastiche, in cui si subiscono discriminazioni razziste e disciplinamento poliziesco: addirittura, alcuni presidi collaborano direttamente con la polizia segnalando gli allievi più “vivaci”. In questo senso, la scuola non è che un’estensione del sistema poliziesco. In molte biblioteche di quartieri in cui la maggior parte delle famiglie a casa non parla francese, è difficile trovare materiale in lingue diverse. Anche in questo caso, un encomiabile intento emancipatore assume le sembianze concrete di uno strumento di esclusione o di imposizione culturale. L’attacco a questi luoghi è da leggersi come un attacco al sistema di esclusione sociale che opera quotidianamente nei quartieri. Non è un attacco ai “simboli” di tale sistema, ma proprio ai luoghi in cui materialmente esso prende forme visibili.

    In risposta a chi sostiene che la rivolta non abbia rivendicazioni concrete, è ancora più significativo il fatto che rapidamente si siano diffusi a macchia d’olio i saccheggi di negozi di ogni tipo fino ad arrivare al cuore dei quartieri ricchi delle maggiori città – qualcosa che non era mai avvenuto in contesti simili. Come spiegare questa evoluzione? Numerose scene dai quartieri in rivolta testimoniano del dispiegarsi di un momento di apertura, in cui tutto sembra possibile. Cadono i freni inibitori sociali, guardiani del desiderio, e la gente pare voler fare tutto ciò che normalmente è vietato. In questa disinibizione, in questo slancio desiderante, immediatamente emerge il bisogno-volontà di redistribuzione della ricchezza: quella ricchezza da cui il sistema capitalista-coloniale esclude socialmente.

    In questa dinamica di apertura è storicamente normale che capiti un po’ di tutto, e spiace dover fare l’avvocato del diavolo, perché significa che c’è qualcuno che in questa dinamica vede, appunto il diavolo, trasformandola in una questione morale. Perché ci si indigna per delle macchine ribaltate e bruciate e non per le migliaia di ingiustizie quotidiane considerate normali? Il sistema capitalista-coloniale fa in modo che certe categorie di persone abbiano meno possibilità di accedere agli studi; se vi accedono, hanno meno possibilità di concluderli; se li concludono, hanno meno possibilità di trovare un lavoro; se lavorano, hanno meno possibilità di essere ben pagati. Si tratta di una questione prettamente sociale, e sollevarla è squisitamente politico, che lo si faccia scrivendo comunicati ben impaginati o saccheggiando centri commerciali.

    Come mostra il caso di scuole e biblioteche, si potrebbe trovare una motivazione praticamente per ogni edificio dato alle fiamme nell’ultima settimana; a prescindere dalla sua funzione teorica e ideale ci si accorge che si tratta sempre di luoghi in cui si manifestano le disuguaglianze. Perché il sistema di oppressione e di esclusione dalla ricchezza è ovunque, e quando la rivolta esplode riesce a rendere visibile la sua presenza. Per dirla con Brecht, “tutti vedono la violenza del fiume in piena, ma nessuno quella degli argini che lo costringono”.

    Le rivolte in Francia sono una questione sociale. Davanti all’esacerbarsi sempre più intenso della questione delle disuguaglianze, lo stato francese si trova a un bivio: da una parte, l’emancipazione e la redistribuzione sociale della ricchezza, ovvero la costruzione di una società più inclusiva, egalitaria ed emancipatrice; dall’altra, il pugno di ferro per ristabilire l’ordine che produce e perpetua tali disuguaglianze, la violenza nuda e cruda a difesa degli interessi del potere capitalista razzista e coloniale, ovvero la strada del fascismo. In linea con la tendenza degli ultimi anni, acceleratasi vistosamente negli ultimi sei mesi e precipitata apertamente la settimana scorsa, il governo francese ha scelto il fascismo. (monsieur en rouge)

  • La possibilità dell’ecofascismo

    Una versione ridotta di questo post, dal titolo Spettri di ecofascismo pandemico, è comparsa il 25 aprile 2020 su D Zine, in occasione della giornata di Resistenza antifascista, quando lo spettro di nuove forme di fascismo aleggia sulle vite di miliardi di persone ingabbiate nel dispositivo della quarantena.

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    Di tutti gli innumerevoli aspetti dell’attuale crisi epidemica mondiale, solo alcuni sono stati sviscerati ampiamente. Altri, meno ovvi, meno urgenti, meno utili, ma non per questo meno necessari o profondi, restano confinati nel campo del sottinteso, dell’inconscio o del non ancora immaginato. Uno in particolare, non approfondito altrove, sarà preso in considerazione qui di seguito, e riguarda ciò che le reazioni alla pandemia ci dicono riguardo ai possibili scenari futuri plasmati dalla crisi.

    La mattina di domenica 15 marzo, i cittadini e le cittadine francesi hanno ricevuto un annuncio dal Ministero della Transizione Ecologica: i trasporti a lunga distanza via rotaia e ruota e gli spostamenti aerei saranno progressivamente ridotti nei giorni a venire.

    L’annuncio, vista l’emergenza sanitaria dovuta alla propagazione del COVID-19, non ha niente di strano, è anzi atteso da diversi giorni, in cui la Francia sembra molto meno reattiva e preoccupata rispetto a molti altri Stati europei e si muove timidamente e in ritardo per il contenimento del contagio, con misure blande e molto meno restrittive, di certo poco incisive.

    Nulla di strano neanche nel fatto che ad annunciare le misure intraprese per il contenimento di una potenziale emergenza sanitaria sia il Ministero deputato ai trasporti, e non quello deputato alla salute: le particolari misure riguardano gli spostamenti con mezzi pubblici o accessibili al pubblico ed è logico che ciò rientri nelle competenze del ministero che gestisce le infrastrutture.

    L’elemento interessante per chi non fosse avvezzo alle istituzioni francesi è invece che tale Ministero prende il nome ufficiale di Ministère de la Transition Ecologique et Solidaire (in italiano: Ministero della Transizione Ecologica e Solidale, denominazione di amara ironia pensando allo scempio neoliberista da esso avallato sistematicamente, che di ecologico e solidale non ha avuto che la retorica di facciata per indorare le pillole dei sacrifici in nome dell’austerità), che colloca il settore dei trasporti in un campo di azione pubblica molto più esteso: il concetto di transizione ecologica investe la sfera ambientale, socio-economica, culturale, ed è consapevolmente entro tale visione globale che il Ministero avrebbe vocazione di includere le infrastrutture e i trasporti. Che questo poi avvenga o meno nei fatti è adesso di scarsa importanza, piuttosto è interessante soffermarsi su ciò che tale nome evoca, e riflettere partendo da questo spunto.

    Della servità (comprensibilmente) volontaria

    Stiamo tutti vivendo, in questi giorni, qualcosa di inedito: in diversi paesi su tutti i continenti, gli spostamenti non essenziali sono vietati, le frontiere sono chiuse fino a diventare impermeabili, la produzione e la distribuzione sono fortemente limitate, i meccanismi di controllo e sorveglianza sono utilizzati in maniera abnorme, sono proibiti gli assembramenti di persone e annullate la maggior parte delle attività, si adottano misure draconiane per ridurre al minimo il contatto fisico tra le persone, determinando un brutale arresto del normale funzionamento della società, in maniera del tutto imprevedibile e inimmaginabile fino ad appena due mesi fa.

    Tutto questo è motivato dall’esigenza di contenere un’epidemia, quella del COVID-19 causata dal nuovo coronavirus SARS-CoV2, che si diffonde con rapidità a livello globale e mette in difficoltà anche i sistemi sanitari più preparati ed efficienti, così le varie misure adottate mirano a ridurre la probabilità di contagio per arginare il rischio di sovraccarico degli ospedali, limitando il numero di morti in attesa di un vaccino.

    Questo scenario dettato da un’innegabile emergenza sanitaria, saranno d’accordo in molti, è ai limiti dell’apocalittico e tale natura si riscontra anche nei suoi aspetti sociali, fosse anche solo per il fatto che centinaia di milioni di persone sono in questo momento rinchiuse in casa senza una prospettiva certa riguardo all’immediato futuro, controllate nelle loro attività, i loro spostamenti e le loro vite, e le loro libertà sono limitatissime. La quarantena e lo stato di emergenza imposte dalle autorità (e comprensibilmente accettate dalla stragrande maggioranza della popolazione) sta mettendo in luce conflitti e contraddizioni e producendo effetti molteplici (già egregiamente descritti altrove) con conseguenze che stanno solo cominciando ad emergere ma che si prospettano profonde e probabilmente durature.

    Foto di Alberto Pizzoli, AFP.
    Foto di Alberto Pizzoli, AFP.

    Facciamo ora un esperimento mentale. Immaginiamo che le stesse misure fossero prese nell’ambito della lotta al cambiamento climatico, anch’essa un’emergenza di cui sarebbe da criminali irresponsabili rinviare ulteriormente la risoluzione. Di fronte al rischio (o alla certezza) di una catastrofe planetaria dovuta, tra le altre cose, alle emissioni di gas serra, gli Stati potrebbero prendere severi provvedimenti per sanzionare qualsiasi spostamento ingiustificato e qualsiasi attività all’origine di emissioni: interi paesi sarebbero bloccati in una quarantena animata dalle migliori intenzioni, in attesa di un calo dell’inquinamento e un rientro dei livelli di gas serra a valori compatibili con gli equilibri ecologici globali.

    Così, in nome della Transizione Ecologica, lo Stato stilerebbe una lista di buone norme che tutti sarebbero tenuti a rispettare: i bravi cittadini con encomiabile sensibilità ecologica denuncerebbero chi prende un treno per andare a trovare un amico, chi l’automobile per andare in montagna o, peggio ancora, l’aereo per far visita al figlio che vive lontano. Se vi viene difficile immaginare situazioni del genere, provate a pensare se vi sarebbe venuto facile, qualche settimana fa, immaginare persone normalissime e sane di mente impegnate nella delazione di concittadini impegnati a passeggiare in spiaggia, a correre al parco o a prendere in prestito un libro da un conoscente.

    Qualcuno farà notare che la situazione di emergenza climatica non è comparabile con l’epidemia, perché nel particolare caso dell’epidemia ciascuno, mosso dalla paura per la propria incolumità, accetta misure che non considererebbe accettabili in altre condizioni, o, per dirla con Benasayag, “un’epidemia è il sogno del tiranno: tutti diventano obbedienti per propria volontà”. Si potrebbe obiettare dunque che la popolazione non accetterebbe mai misure tanto drastiche in assenza di motivi estremi come il rischio sostanziale per la propria salute, ma questa osservazione non prende in considerazione la possibilità che le misure adottate per far fronte all’emergenza sanitaria non siano tutte necessariamente giustificabili in termini sanitari (qui, qui, qui e qui qualche spunto di riflessione in merito). La facilità con cui la gente sta confondendo la reale tutela della salute e ciò che è decretato in suo nome è allarmante: cosa succederebbe se, una volta visto che tali misure sono possibili e che sono tollerate, si decidesse di attuarle per altri motivi?

    La popolazione sta dimostrando obbedienza alle regole. Certo lo fa credendo, molto spesso non a torto, di proteggere la salute propria e altrui. Ma sebbene molti dei comportamenti dettati dall’attenzione per le regole si sovrappongano parzialmente a quelli dettati dall’attenzione per la salute, le due cose non coincidono: non tutte le misure di controllo sono misure di sicurezza, e non tutte le misure di sicurezza sono misure di controllo. In questo caso è complicato separare i due aspetti, perché la legge è giustificata dalla tutela della salute… ma ciò significa che qualunque misura fosse motivata da obiettivi moralmente accettabili non troverebbe grandi ostacoli: dipende molto da come si costruisce la narrazione delle misure e degli obiettivi, da che linguaggio si usa per giustificarla, dalla cornice del discorso in cui viene inquadrata.

    Come società, stiamo già tollerando l’imposizione di norme che non hanno sostanziale legame con l’obiettivo in nome del quale sono prese, ma per le quali tale legame è socialmente costruito a livello del discorso politico. La popolazione sta già accettando, qui ed ora, misure di controllo che non hanno a che vedere con la reale tutela della salute, e che però sono decretate in suo nome. Tali norme non hanno necessariamente una giustificazione in termini di salute, ma si accettano perché si crede che la abbiano. E qualcos’altro si può raccontare in modo da far credere allo stesso modo. Come ogni credenza che si rispetti, l’arsenale di norme attuali è accompagnato a livello collettivo dall’elaborazione di rituali e linguaggi comuni, e sta in questi giorni prendendo forma una sorta di mitologia, atta a razionalizzare un nuovo tempo collettivo scandito dagli sviluppi dell’epidemia: numeri sui contagi e i decessi nel mondo completamente decontestualizzati ma sciorinati e aggiornati minuto per minuto, su tutti gli schermi indicazioni che collocano la registrazione dei programmi prima o dopo l’entrata in vigore dello stato di crisi, avvisi che ricordano le regole per essere considerati cittadini modello, ingresso del discorso epidemico praticamente in ogni argomento possibile e immaginabile. Tutto ciò plasma le forme di vita all’interno dello stato di crisi, norma i comportamenti e definisce nuove relazioni spaziali e temporali tra le persone, concepite puntualmente come necessarie, senza accettare critiche di alcuna sorta.

    Un esempio valga per tutti: si sta vietando, o scoraggiando, di “uscire di casa” con l’obiettivo di ridurre i contatti tra le persone e limitare così il contagio, ma quest’obiettivo di natura sanitaria è rapidamente messo da parte e sostituito nella prassi dall’accanimento contro chiunque esca di casa, a prescindere dal rischio che ciò potrebbe costituire. Così, benché uscire di casa non significhi necessariamente assembrarsi e avere contatti che mettono a rischio la salute propria e altrui, e benché, dunque, si possa benissimo essere responsabili pure uscendo di casa, siccome l’autorità ha deciso di raccontare la questione dicendo che “uscire di casa” mette a rischio la salute di tutti, allora non si distinguono più le cose e non si vede l’ora di denunciare comportamenti innocui. Questo è possibile perché il discorso politico che è stato costruito sulla necessità di restare a casa fa saltare l’obiettivo sanitario, e lo utilizza per legittimarsi.

    Torniamo quindi allo scenario immaginario in cui, per far fronte a un’emergenza di portata planetaria e che mette a repentaglio la salute dell’ecosistema e dunque di tutti, il potere usi la forza coercitiva per il controllo e la sorveglianza, riduca gli spostamenti al minimo e imponga la chiusura di ogni attività non essenziale. Se continuate ad avere difficoltà ad immaginare una situazione del genere, potrebbe esservi sfuggito che queste misure, adottate già in molti paesi, hanno sortito effetti sorprendenti dal punto di vista delle emissioni di gas serra e dell’inquinamento atmosferico, laddove questi parametri siano stati registrati e analizzati, e non deve stupire che già diversi giornali abbiano indirettamente ventilato se non direttamente alimentato questa ipotesi, e si tratta di giornali di squisitissima tradizione liberale.

    Immaginiamo allora sia questa la soluzione proposta dalle autorità per ridurre l’impatto sul clima: uno stato di polizia in nome della lotta all’inquinamento. La proposta non sarebbe campata completamente per aria, giacché l’inquinamento è già adesso responsabile di milioni di morti all’anno, e l’emergenza sanitaria è reale quanto quella del COVID-19. Se oggi la maggioranza delle persone non percepisce ancora l’inquinamento come una minaccia concreta e materiale alla propria incolumità, è perché il problema è affrontato da più parti come un rischio astratto, e la percezione del rischio non è mai totalmente razionale ma contiene sempre una componente di irrazionalità che può essere socialmente costruita (qui il principio è spiegato in merito al COVID-19 ma è di validità generale). Se, per qualche ragione, si smettesse di avere interesse nel minimizzare i rischi dovuti all’inquinamento e cominciassero campagne martellanti e ansiogene sulla sua pericolosità, la popolazione sarebbe propensa ad accettare l’iniziativa autoritaria e coercitiva di un eventuale potere protettore. Come già detto: molto dipende dalla narrazione che si costruisce e dal linguaggio che si usa nella gestione del problema.

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    In Cina è stata osservata una riduzione fino al 30% delle emissioni di biossido di azoto, a causa del crollo nei consumi di carbone e petrolio nelle prime settimane del 2020 (dati NASA).

    La legittimazione di uno scenario simile è in effetti cominciata: nel mondo dell’economia sta circolando l’idea che la crisi sanitaria, con le sue conseguenze economiche ed ecologiche, potrebbe essere un passo decisivo per l’affermazione di un nuovo modello economico “meno inquinante”. In risposta all’epidemia si sospende ogni attività non strettamente necessaria, si annullano fiere, conferenze, concerti, manifestazioni, eventi collettivi di ogni tipo, si intensificano abnormemente controllo sociale e sorveglianza, si crea una condizione di panico e paranoia che allenta la solidarietà e si dice: “Vedete? Fa bene all’ambiente!” ed ecco finalmente trovata una via allettante (per alcuni) alla sostenibilità ecologica.

    Esiste poi una correlazione interessante (inizialmente proposta, ma non studiata scientificamente) tra la qualità dell’aria e la mortalità associata alla malattia: sia in Italia che in Cina, le regioni più colpite sembrano corrispondere alle aree geografiche con inquinamento atmosferico più elevato, rappresentato da alti livelli di particolato PM10. Ad oggi, l’effetto dell’inquinamento sulla suscettibilità alla malattia non è stato analizzato, ma un primo studio scientifico in materia ha riportato una correlazione tra i livelli di particolato atmosferico PM10 e il tasso di contagi: gli autori della ricerca ipotizzano che il particolato faccia da vettore del contagio. Questi dati stabiliscono un legame tra l’epidemia di COVID-19 e l’inquinamento. Se l’ipotesi di una suscettibilità maggiore nelle zone più inquinate si dovesse rivelare fondata, il legame tra malattia, inquinamento e cambiamento climatico uscirebbe ulteriormente rafforzato nel discorso pubblico, e definirebbe una cornice del discorso più ampia.

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    Confronto tra i livelli di biossido di azoto registrati a metà febbraio e quelli registrati a metà marzo, due settimane dopo l’istituzione della zona rossa in Nord Italia, poi estesa a tutta la penisola (dati ESA).

    Un salto dal virus al clima

    Non è del tutto sorprendente che il cambiamento climatico compaia in un discorso formulato partendo da riflessioni su un’epidemia: entrambi i fenomeni, il cambiamento climatico e l’epidemia virale, hanno a che fare con il rapporto tra la specie umana e l’ambiente naturale, il presunto dominio che la prima avrebbe sul secondo, e derivano dal fallimento di tale dominio con conseguente perdita di controllo. Ma la somiglianza tra i due fenomeni non è solo concettuale, indotta dal paragone che viene proposto: il loro legame è più profondo, prettamente materiale, e affonda le sue radici nella biologia e nell’ecologia.

    Le zoonosi sono malattie che si trasmettono dall’animale all’uomo tramite un evento detto spillover o salto di specie. Non si tratta di un fenomeno insolito: si stima che questo meccanismo sia stato all’origine di circa due terzi dei virus in circolazione nelle popolazioni umane, attualmente o in passato.
    Tuttavia, negli ultimi trent’anni, la frequenza di nuove zoonosi emergenti è aumentata, e tra le cause ci sono anche lo stravolgimento diretto operato dall’uomo sugli ambienti e la crisi climatica. Per esempio, temperature più alte o una loro distribuzione anomala può favorire il ciclo vitale di animali che trasmettono le zoonosi all’uomo, come zanzare, zecche e probabilmente molti altri animali vettori inconsapevoli. O ancora, i processi di deforestazione e urbanizzazione, riducendo lo spazio vitale delle specie selvatiche, le spingono a contatti più ravvicinati con l’uomo. E così via, esiste una lunga serie di squilibri ecologici causati o favoriti dalle attività umane che possono contribuire alla diffusione involontaria di nuove malattie (come spiegato molto chiaramente qui e qui).

    Da parecchio tempo è già noto il rischio che il cambiamento climatico, comportando lo scioglimento delle calotte polari, scongeli agenti patogeni rimasti incastonati e surgelati nel ghiaccio per decine di migliaia di anni e a cui la nostra specie, come molte altre, non è mai stata esposta. Tali agenti patogeni potrebbero essere associati ad una mortalità molto elevata, per mancanza di immunità specifica.

    Alla luce di tutto ciò, tornando ancora una volta al nostro scenario ipotetico, allargandosi la portata del problema si allargherebbe anche la quantità e la natura dei motivi validi per misure di emergenza coercitive per la popolazione.

    Dopo il trauma collettivo che la popolazione mondiale sta vivendo a causa della pandemia, non sarebbe difficile far accettare, preventivamente e più o meno stabilmente, misure di contenimento di malattie contagiose ed associate a un alto potenziale epidemico non ancora in circolazione ma che potrebbero esserlo da un momento all’altro a causa degli effetti nefasti che le attività umane hanno sulla natura. Considerato poi che il COVID-19 potrebbe diventare una malattia stagionale, misure di tipo simile potrebbero continuare ad esser prese per evitare che l’inquinamento peggiori la situazione ogni volta che il rischio epidemico si ripresenti.

    Una volta stabilito un legame tra epidemia e cambiamento climatico (che è reale e scientificamente vero), si legittimerebbe quello tra emergenza sanitaria ed emergenza climatica (che è costruito politicamente), che potrebbero essere raccontate più agevolmente come facce della stessa crisi, da gestire con misure simili. Si assisterebbe così all’affermazione di un linguaggio codificato per affrontare una comune emergenza planetaria, nel nome dell’interesse di tutti.

    Un incendio ad Altamira, nello stato brasiliano di Par
    Un incendio ad Altamira, nello stato brasiliano di Pará. Nel 2019 sono stati registrati 74 000 incendi nella foresta amazzonica, corrispondenti a un aumento di oltre l’80% rispetto al 2018. All’aumento degli incendi contribuiscono significativamente le attività umane, in maniera diretta o indiretta.

    Si potrebbe obiettare che da provvedimenti del genere deriverebbero ingenti perdite economiche, che nessun governante potrebbe permettersi di vedere associate al proprio nome e che nessuna potenza economica potrebbe sopportare a lungo, come ovvio e come mostrato dalle enormi difficoltà economiche e finanziarie che il mondo intero sta affrontando in questo momento. Ciò è vero, ma solo se diamo per scontato che il potere e l’economia continuino a funzionare a tutela degli interessi degli stessi gruppi di potere, senza sconvolgimenti radicali negli attuali assetti che reggono il sistema economico. Non è impossibile immaginare un periodo di transizione (già, ancora quella parola…) in cui nascono nuovi poteri e se ne rafforzano alcuni già esistenti, con l’affermazione capillare di nuovi strumenti estrattivi basati sulla tecnologia del controllo e della sorveglianza, generando uno scenario in cui la produzione materiale cessa definitivamente di essere fulcro del sistema economico e comincia ad esserlo la sorveglianza, in modo da rendere sostenibile un modello differente, magari basato su produzione e distribuzione robotizzate per limitare al massimo il numero delle persone coinvolte e il contatto fisico tra di esse. Se è vero che tutto questo sembra fantascienza, è anche vero che fino al 9 marzo ci sarebbe sembrato fantascienza il 10 marzo. Difficile da immaginare adesso, ma non impossibile. Giganti come Google e Amazon (altre info qui, qui e qui) o servizi online di consegna di cibo a domicilio stanno già traendo profitto dall’attuale situazione di stallo di gran parte della produzione industriale non socialmente indispensabile, e un perdurare di queste misure darebbe loro un potere enorme, molto più grande di quello che già hanno, ridefinendo così gli assetti del potere economico nel capitalismo globale.

    Il pericolo di una continuità tra crisi sanitaria e crisi economica

    Il cambiamento climatico non è l’unica cornice in cui sarebbe possibile giustificare il prolungamento indeterminato e la normalizzazione dello stato di cose attuale. Come già accennato, diversi economisti hanno già cominciato a parlare dell’emergenza sanitaria come di uno spartiacque che segna il possibile inizio di un nuovo modello economico. Nel frattempo, però, incombe la crisi: la sospensione della normale vita economica messa in atto in risposta alla crisi sanitaria avrà infatti conseguenze disastrose e potrebbe provocare, accelerare o approfondire una recessione economica mondiale che si prevedeva comunque già da anni, di proporzioni maggiori di quella del 2008.

    Il ruolo cardine della Cina nelle relazioni di interdipendenza che connettono i centri dell’economia globale sta mostrando tutta la sua cruciale importanza dopo la dichiarazione dello stato di crisi e l’arresto della produzione, della distribuzione, degli spostamenti e dunque sia delle importazioni che delle esportazioni.

    Secondo il Financial Times, gli effetti economici della crisi sanitaria in Italia starebbero addirittura mettendo a rischio la tenuta dell’eurozona.

    Di fronte a queste prospettive, passata la crisi sanitaria i governi e le istituzioni di governance saranno chiamati a prevenire o attutire i danni economici. Il rischio è che si verifichi, come sta già parzialmente avvenendo, che la crisi economica venga raccontata come una crisi all’interno di quella sanitaria (nonostante sia piuttosto vero il contrario, alla luce di quanto detto sopra): ventilare una continuità tra l’attuale crisi sanitaria e la prossima crisi economica senza inquadrare veramente la prima all’interno della seconda e la seconda all’interno della questione ecologica è la premessa per il mantenimento, almeno in parte, delle misure messe in atto nell’ambito della crisi sanitaria. Se il sistema tenterà di socializzare le perdite e di privatizzare eventuali profitti, come c’è da aspettarsi, si assisterà a politiche di austerità draconiane senza precedenti. Con, in più, la sospensione a tempo indeterminato del diritto di sciopero, di tutte le manifestazioni e gli assembramenti, la messa ai domiciliari praticamente di tutta la popolazione, il controllo di ogni spostamento e la sorveglianza generalizzata in nome di norme di prevenzione sanitaria. La paura dell’epidemia (che, va ripetuto, è un rischio reale) continuerà ad essere agitata minacciosamente per molto tempo, e non senza fondamento giacché il sistema economico crea continuamente le condizioni per la sua nascita, propagazione e articolazione a vari livelli: ciò costituisce il preludio dell’ecofascismo.

    Scattata a Wuhan il 25 gennaio 2020. Foto: AFP.
    Foto scattata a Wuhan il 25 gennaio 2020. AFP.

    Prima di concludere, occorre fare una precisazione: di certo nessuno dotato di senno potrebbe pensare adesso che lo stato attuale, adottato in via del tutto eccezionale e in una situazione di emergenza, possa essere prolungato tale e quale più di tanto né diventare una condizione di normalità, ma le crisi aprono sempre delle possibilità non immaginabili nel paradigma precedente e in questo spazio di possibilità si possono produrre nuove prassi, regole, forme di vita che poi restano anche a crisi finita. Come dice Agamben, che peccando di eccessiva leggerezza e scarsa precisione scientifica è stato fortemente criticato per altre sue uscite precedenti a questa, “così come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare”.

    Può anche darsi che queste considerazioni siano esagerate e dettate da eccessiva paranoia, ma se lo sono è per controbilanciare la narrazione velleitariamente scientista e sostanzialmente totalitaria dell’epidemia, che vorrebbe dare tutto in gestione ai tecnici e che non tollera la messa in questione di alcuna decisione (viene in mente niente?). L’importanza dell’attuale emergenza sanitaria è reale, la forma che questa importanza assume e il modo in cui essa si articola nella società sono costruite e determinate dai rapporti sociali e da scelte politiche.

    In molti hanno salutato (sicuramente controvoglia e non certo col sorriso, ma si deve pur fare buon viso a cattivo gioco) queste settimane di quarantena come un’occasione per fermarsi a riflettere e interrogarsi sulla vita che conduciamo, in quello che è stato definito “il più grande esperimento sociale nella storia”.

    Bene, è riflettendo all’interno di questo esperimento sociale che è nato l’esperimento mentale qui condotto. Si tratta quindi di un esperimento mentale che prende le mosse dalla realtà delle misure prese, e che permette di immaginare la possibilità dell’ecofascismo: un potere autoritario che tragga la propria forza dalla necessità di far fronte agli squilibri ecologici (ma che di tali squilibri avrebbe incessante bisogno). La crisi da COVID-19 mostra quali forme potrebbe assumere un siffatto potere e si configura come precedente per l’affermazione di una prassi collaudata per affrontare emergenze planetarie: oggi è il COVID-19, domani potrebbe essere altro. In questo colossale esperimento sociale, si sta mostrando come la popolazione si comporta in determinate condizioni. Posta dinnanzi a condizioni simili o raccontate in maniera simile, la reazione potrebbe essere simile.

  • Se duemila fermi arbitrari vi sembran pochi

    Si parta da una constatazione: da anni non si assisteva ad una giornata di repressione preventiva tanto massiccia come quella di ieri in occasione delle proteste per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma. Dopo settimane di allarmismo e montature ad arte, in cui è stato alimentato un clima di tensione ingiustificato portando una buona parte dell’opinione pubblica a indignarsi per fatti mai accaduti e del tutto ipotetici (come sa chi si è arrischiato a fare un giro della rete trovandola piena di insulti ai «black bloc figli di papà»), accostando i movimenti sociali al terrorismo e adottando una retorica apocalittica secondo cui Roma sarebbe stata colpita da attentati e devastata nella sua interezza, né gli attentati né gli scontri auspicati dalla stampa hanno avuto luogo (e notizia è diventata la loro assenza). Con la diffusione di notizie infondate, la stampa ha contribuito a costruire una verità sociale che non corrisponde alla verità fattuale, in barba alla tanto decantata guerra dei mezzi d’informazione ufficiali alle fake news e a quella che chiamano post verità, a loro dire responsabile della crescita dei movimenti di estrema destra, del populismo euroscettico, dell’elezione di Trump e dell’esito del referendum britannico sulla permanenza nell’Unione Europea.

    Secondo La Repubblica «i timori della vigilia per la presenza di black bloc si sono fortunatamente rivelati infondati». Forse sarebbe il caso di interrogarsi sull’affidabilità delle fonti? Se i timori che la stampa, con scarsissima þrofessionalità e mancanza di correttezza, ha alimentato, si sono rivelati infondati non sarebbe un’occasione per rivedere e mettere in discussione i propri sistemi di raccolta e valutazione delle fonti? Se giornali come il Corriere della Sera e La Repubblica avessero a cuore, come sostengono, la questione della correttezza dell’informazione e della lotta alle bufale e alle narrazioni basate su fonti inattendibili, se si stracciano le vesti in nome del buon giornalismo, potrebbero almeno dire per trasparenza su quali fonti infondate avevano costruito le proprie congetture?

    Sembra impossibile che ancora nessun giornalista stia incalzando e bastonando il ministro Minniti per la gestione dell’ordine pubblico di ieri a Roma, eppure si respira una certa compiacenza. Il Corriere della Sera descrive la giornata di ieri come «una giornata allegra». Forse si riferisce all’allegria di centinaia di fermi tra manifestanti pacifici e una pioggia di fogli di via di durata pluriennale motivati da ragioni pretestuose come l’essere in possesso di un sospetto capo di abbigliamento nero? Certo, i precedenti dello hijab islamico ma soprattutto del burkini la scorsa estate avevano già mostrato che anche nel cuore dell’Europa, i cui miti fondanti sono la libertà di espressione e la società aperta, possono essere vietati degli indumenti perché contrari ai valori morali socialmente accettati, ma il fermo con conseguente foglio di via per il possesso di felpe a causa del colore nero di queste ultime non erano ancora mai stati applicati a tappeto come procedura repressiva, come è successo ieri a Roma. Questo denota un inquietante abbassamento della soglia di tolleranza dei meccanismi repressivi: se una volta era vietato manifestare armati, l’interpretazione pratica di questa norma si è estesa passando a considerare come armi gli scudi e i caschi, arrivando oggi a considerare arma una sciarpa o un indumento nero. Ripetiamo che ci troviamo di fronte a casi di totale assenza di reato.

    Nella notte precedente la giornata di mobilitazione, le forze di polizia hanno fermato e identificato non meno di 1500 persone che in moltissimi casi sono state trattenute in questura anche il giorno successivo “per accertamenti”, in assenza di reato e senza che venisse fornita alcuna giustificazione, come se gli arresti di massa fossero una cosa normale in uno Stato di diritto. La stampa ha riportato la notizia di centinaia di arresti arbitrari preventivi senza batter ciglio. Nel corso della mattinata del 25 marzo, sono stati segnalati decine di casi di fermi senza valido motivo, di perquisizioni da parte della polizia degli autobus partiti per Roma dalle Marche, dalla Val Susa, dal Veneto, da Bologna, trattenuti per ore senza uno straccio di motivazione che potesse essere presa sul serio (per esempio, nel caso del bus dei valsusini il fermo dell’intero autobus e dei suoi passeggeri è stato ordinato dopo aver trovato un sessantenne in possesso di un pericolosissimo coltellino da formaggio) e scortati fino a centri d’identificazione (e di espulsione, se vogliamo; o pensavamo che la libertà di movimento fosse solo un problema dei migranti?) a Tor Cervara, all’ingresso della città, pare allestiti per l’occasione, impedendo a centinaia di persone di prendere parte alle manifestazioni. Anche questo non dovrebbe stupire: per celebrare l’Unione Europea senza alcuno spirito critico si affermano i valori europei, cioè anche quelle procedure politiche e sociali che si sono configurate come tali nella gestione dei flussi migratori: la limitazione della libertà di movimento e il reato di solidarietà. E anche il fatto che, come qualcuno ha fatto notare, il Questore di una città possa decidere a propria discrezione chi può entrare e chi meno, senza fornire motivazioni plausibili, sa più di Far West che di Stato di diritto, non dovrebbe stupire: i valori che si celebravano sono parole vuote.

    In questo clima che sarà onere del lettore definire, mentre i giornali riportavano acriticamente i declami deliranti delle forze dell’ordine che affermava di aver rinvenuto un gran numero di «sassi abbandonati» lungo il percorso previsto dei cortei e la polizia tentava di spezzare in maniera violenta e del tutto gratuita e provocatoria la coda del corteo pacifico e autorizzato, che saggiamente non ha reagito come avrebbero forse sperato gli agenti accecati dall’adrenalina o bavosi in preda ad un istinto primitivo, alcuni hanno cominciato a complimentarsi con il ministero dell’Interno per i metodi utilizzati per prevenire i disordini previsti (che erano previsti, tuttavia, solo nella testa dei giornalisti e della polizia), dunque a giustificare gli arresti di massa preventivi, i fermi e i fogli di via, tutto in assenza di reato e a discrezione ed arbitrio esclusivo del Questore di Roma.

    Il quale Questore ha rassicurato, in conferenza stampa trasmessa in diretta su RaiNews24: «Abbiamo verificato l’orientamento ideologico delle persone fermate». Rileggete questa frase. Ancora. Ancora. Sì, l’ha detto. Bravo il questore di Roma, difende i nostri valori™ europei™ reprimendo libertà di pensiero e limitando libertà di movimento e di espressione. Se non fosse chiaro: l’Italia è un paese in cui la polizia può trattenere migliaia di persone a caso per accertarne l’orientamento ideologico e provvedere a piogge di fermi e fogli di via se l’orientamento ideologico in questione non è gradito (se individuale o collettivo non è dato sapere, né è dato sapere come effettivamente si possa accertare o cosa non sia ammesso come orientamento). Bisognerebbe ricordare che l’unico orientamento ideologico che è costituzionalmente possibile discriminare è quello fascista, che la libertà di espressione è formalmente garantita e che uno dei ruoli della polizia in uno Stato di diritto sarebbe quello di assicurarla. Eppure l’apparato repressivo, tanto democratico con i razzisti che «hanno anche loro diritto di parola», non accetta nessun tipo di orientamento che sia difforme dalla norma politicamente definita (a quanto pare i razzisti sono conformi e possono parlare, manifestare, lasciare dichiarazioni alla stampa, partecipare a dibattiti televisivi, avere spazio e agibilità politica). La concezione di ordine pubblico del ministro Minniti non ha niente di diverso dall’ordine pubblico della Lega. A Bologna, come a Roma, come ovunque.

    Come scrive Rita Cantalino, la cosa più preoccupante è la generale noncuranza per una tale gestione dell’ordine pubblico, che si configura come una violazione del diritto a manifestare, una limitazione della libertà di espressione e di movimento. La gravissima frase del Questore di Roma sulla discriminazione su base squisitamente ideologica è passata piuttosto inosservata. Gli arresti di massa in assenza di reato sono il dovere della polizia di uno stato dittatoriale, non di diritto. Davvero in così pochi percepiscono quanto sia pericoloso farsi scivolare addosso giornate come questa?

  • Abusi in divisa: chi li rende possibili?

    Quando vai in piazza a fare il culo ai ragazzini delle superiori, lo stai facendo per un ente morale superiore. Quando durante un arresto dai un paio di calci nelle costole a un tossico di merda, lo fai perché è un momento necessario della sua rieducazione. Quando minacci le ragazze di stuprarle con il manganello d’ordinanza, lo fai perché deve essere chiaro chi è che comanda. Quando fai finta di non guardare il collega che riempie di botte il poverocristo in cella, lo fai perché non sei un infame. Quando sputi in faccia al negro di merda che hai preso con due canne in tasca, lo fai per lavarlo. Quando strappi il piercing dalle orecchie della zecca che hai di fronte, lo fai per dargli un contegno.

    Quelle riportate sono alcune frasi sfuse da un breve articolo. Non è così che sembrano ragionare molti esponenti delle forze dell’ordine? Non si ritengono, giustamente, preposti alla difesa dell’ordine costituito, che non è solo un ordine sociale e politico ma prima ancora un ordine morale, che di quello sociale e poitico è espressione e legittimazione teorica?

    Perché ragionano così? Sono semplicemente degli stronzi (il che in un certo numero di casi non è da escludere, soprattutto considerando che gli stronzi abbondano ed emergono nelle categorie a cui è garantita l’impunità) o esiste anche una influenza non indifferente proveniente dall’ambiente lavorativo e dai vertici che attraverso il proprio potere decisionale plasmano tale ambiente lavorativo?

    Come ha ricordato di recente Aldo Giannuli, «le cause sono nella storia stessa dei nostri corpi repressivi, mai veramente disintossicati dal ventennio fascista che, a sua volta, aveva trovato il precedente dell’epoca liberale che di liberale ebbe assai poco. E poi, anche la feroce rivalità fra carabinieri e polizia agisce da moltiplicatore di questa propensione alla violenza». I responsabili sono da ricercarsi nei politici che «danno carta bianca al loro braccio armato», nei vertici della polizia che «usano cinicamente i propri uomini per rafforzare il loro potere contrattuale nei confronti dei politici», nei quadri intermedi della polizia «che aizzano gli agenti, che li formano nello spirito del mazzieraggio irresponsabile, che li educano al disprezzo del cittadino», nei magistrati che «non hanno mai il coraggio di fare luce anche sui casi più gravi e che mandano regolarmente assolti poliziotti a carabinieri anche nel caso di omicidi, per la collusione fra le due corporazioni», nei giornalisti che «non sono capaci di una inchiesta sistematica su quello che accade nella polizia».

    Un’ulteriore considerazione si deve fare rispetto alle condizioni che addirittura precedono l’ingresso nei reparti delle forze dell’ordine. In particolare, in una dettagliata analisi sul fenomeno della violenza poliziesca in Italia con attenzione soprattutto per la Polizia di Stato, Salvatore Palidda fa notare, tra le altre cose, come la selezione, l’educazione e l’addestramento degli agenti non possono essere trascurati quando si cerca di indagare la natura di una tale propensione alla violenza. In primo luogo, «da circa 15 anni il reclutamento del personale nelle polizie italiane privilegia per legge i volontari che hanno svolto servizio militare nelle missioni all’estero, cioè nei diversi teatri di guerra», a dimostrazione del processo di militarizzazione delle polizie. In secondo luogo, in occasioni di gestione dell’ordine pubblico la frammentazione dei corpi di polizia produce scivolamenti verso un’estremizzazione della violenza, come già puntualizzato da Giannuli, ed un apparente disordine per cui «il personale di ogni unità segue sempre gli ordini del proprio capo che non sempre segue quelli del comandante della piazza», con conseguenze disastrose (e il G8 di Genova è solo un esempio).

    Per quanto riguarda la formazione professionale delle polizie, essa «è improntata soprattutto a una sorta di infarinatura giuridica del tutto superficiale, a qualche apprendimento tecnico e poi sempre all’apprendimento per “affiancamento” a chi ha più esperienza». Non c’è da stupirsi se questo genere di formazione generi un ambiente che «esaspera la tensione, l’aggressività, il rambismo se non addirittura il cameratismo fascista». E ancora, «perché il personale di polizia non è formato nelle scuole e università pubbliche insieme ai loro coetanei? Non sarebbe questo un momento di socializzazione forse più democratizzante di quanto lo siano i corsi nelle scuole di polizia che come raccontano tanti pare siano tenuti solo da docenti spesso di dubbia qualità accademica?»

    Anche se questo discorso potrebbe continuare a lungo, quanto detto finora è già sufficiente a rispondere alla domanda iniziale: gli abusi in divisa avvengono perché alcuni tutori dell’ordine sono semplicemente degli stronzi o esistono altri responsabili che generano situazioni in cui gli abusi sono incoraggiati (e non parlo degli incentivi diretti come le promozioni ottenute dai picchiatori in divisa, né della quasi certa impunità di cui godono le forze dell’ordine)? In altre parole: un tale ambiente è dovuto alla sola presenza di mele marce o alla struttura stessa della cesta che contiene tutte le mele?

    Per non andare troppo indietro nel tempo cercando i responsabili della mancata defascistizzazione dei corpi di polizia, basti sapere che la rivalità tra Carabinieri e Polizia che conduce alla progressione militare e “durista” è stata accentuata notevolmente dalla riforma dell’Arma dei Carabinieri (legge 78/2000) che le ha concesso più poteri e autonomia; che l’intoccabilità della struttura delle polizie esiste a causa di un gioco di favori tra politica e forze dell’ordine in cui la politica tutta ha sempre adottato riverenza e corteggiamento nei confronti delle gerarchie delle polizie; che l’impunità è dovuta in buona parte all’atteggiamento generale della magistratura; che le regole per la selezione e la formazione professionale sono stabilite per legge; che le strategie di addestramento sono una prassi che non viene messa in discussione; che le politiche repressive e securitarie riducono le questioni sociali essenzialmente a problemi di ordine pubblico, contribuendo a rafforzare il “potere contrattuale” delle polizie nell’interfacciarsi al cittadino e aumentando di conseguenza il rischio di abusi; che solidarizzare con le forze di polizia «senza se e senza ma» ogniqualvolta sia possibile, non mancare mai di esprimere incondizionato rispetto nei loro confronti, mai astenersi dal rivolger loro un plauso per il loro operato salvifico aumenta in tutti (anche tra i reparti) la convinzione che davvero «quando vai in piazza a fare il culo ai ragazzini delle superiori, lo stai facendo per un ente morale superiore».

    Insomma, rispondetevi da soli, senza farvi accecare da chi si lascia andare ad esternazioni di vuota solidarietà.

    Il problema non è soltanto che c’è chi utilizza la divisa come una seduta di psicoterapia andata male.

  • Mele marce un cazzo

    Al congresso del Sindacato autonomo di polizia (Sap), gli assassini di Federico Aldrovandi sono stati accolti da una platea già euforica e «caricata», stando alle parole di Massimo Montebove, portavoce del Sap, a causa dei discorsi che avevano preceduto il loro ingresso trionfale: si era parlato di poliziotti uccisi dalla mafia, di poliziotti condannati ingiustamente, di vittime del terrorismo e della criminalità.

    Questo spiega, a detta di alcuni, il lungo applauso che ha salutato l’arrivo in sala di Paolo Forlani, Luca Pollastri e Enzo Pontani, tre dei quattro agenti condannati dalla Corte di cassazione il 21 giugno del 2012 per l’omicidio di Federico Aldrovandi a tre anni e sei mesi (tre anni dei quali coperti dall’indulto). Chi spiega così l’accorato sostegno ai tre assassini, specifica che in ogni caso si è trattato di un applauso e di un apprezzamento che intendevano essere un gesto di solidarietà umana nei confronti di «persone che hanno avuto dei problemi».

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come il 12 aprile, quando il povero «cretino da sanzionare» (parole del capo della polizia Alessandro Pansa) ha calpestato deliberatamente una manifestante inerme già malmenata e distesa sull’asfalto, forse «per dare una mano ai suoi colleghi» o per «frenesia e frustrazione», come suggerisce il prefetto di Roma. La tesi del “cretino isolato” è veicolata non solo direttamente dagli uomini delle istituzioni e dagli uomini dell’ordine pubblico, ma anche indirettamente dal montaggio di certi video (esempio) da parte di quelle trasmissioni che intenderebbero denunciare le violenze (finendo spesso per alimentare il consumo di dissenso). Che senso ha zoomare e mostrare alla moviola il piede di un agente che calpesta una manifestante quando tutto intorno si assiste alla violenza gratuita dei manganelli che infieriscono sui corpi aggrovigliati di persone indifese? Che senso ha, se non condannare selettivamente lo scarpone legittimando implicitamente il manganello?

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come qualche giorno dopo, quando gli agenti in assetto anti-sommossa hanno sgomberato 200 famiglie in occupazione abitativa alla Montagnola a Roma (vedi), caricando, entrando negli appartamenti per gettare a terra i malcapitati e manganellarli, lasciandosi dietro feriti, bambini piangenti e nuclei familiari senza più un tetto (vedi). Anche di loro è stato detto fossero «frustrati» e dunque, poveretti, in qualche modo giustificati.

    Descrivere queste azioni come spinte da una frustrazione eccezionale in contrapposizione ad un equilibrio ordinario significa muoversi all’interno di una narrazione che ne addossa al singolo poliziotto, o qualunque altro membro delle forze dell’ordine a seconda del caso, tutta la responsabilità (si tratta della ben nota narrazione delle “mele marce”). Eppure, se si è capaci di giustificare le teste calde e le mele marce in quanto «persone che hanno avuto problemi» e che sono «frustrate» a causa della situazione personale o familiare che li circonda, questo tipo di retorica non riesce a fare altrettanto riguardo all’influenza che può esercitare l’ambiente lavorativo, perché ciò significherebbe ammettere che ad essere marce non sono le mele, bensì l’intera cesta.

    Il Sap vanta circa 20 mila aderenti a fronte di un numero complessivo dei membri della polizia di Stato pari a 105.000 unità effettive. Ciò significa che circa un poliziotto su cinque vi è iscritto (non solo vicino, proprio iscritto), e un numero indefinito di altri costituisce quell’area rosa costituita da simpatizzanti non aderenti, tipica di ogni organizzazione strutturata. Dunque, almeno un poliziotto su cinque si riconosce in un’organizzazione che ha attaccato personalmente (vi ricordate?) la madre di Federico Aldrovandi esponendo sotto il suo ufficio uno striscione in solidarietà agli assassini del figlio. Coloro che innumerevoli volte hanno parlato della necessità di «isolare i violenti», coi violenti solidarizzano.

    In quell’occasione, l’allora ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri osservò che «chi ha manifestato non rappresenta la maggioranza dei poliziotti» (li rappresentava invece lei che li mandava in anti-sommossa a reprimere le proteste degli studenti) e l’allora capo della Polizia Gianni De Gennaro definì l’azione un «fatto da condannare» (lui che di fatti da condannare se ne intende).

    Questa volta ancora un’unanime condanna morale da prima pagina: il presidente del consiglio Matteo Renzi , il ministro dell’Interno Angelino Alfano e il capo della Polizia Alessandro Pansa rivolgono i propri sentimenti di vicinanza e di solidarietà ai genitori di Federico, indignati e agghiacciati dall’accaduto. A tali manifestazioni di solidarietà si accodano una serie di voci provenienti soprattutto dal PD e da SEL. Chi, come Cecilia Strada, presidente di Emergency, invita i «poliziotti democratici» a «dire qualcosa» aspettandosi nette prese di posizione, ottiene timide e ambigue esternazioni da parte di altre organizzazioni di polizia, come quelle di Ruggero Strano (segretario generale Autonomi di polizia) secondo cui «gli applausi di oggi sono una cosa vergognosa» ma non bisogna dimenticare che «questa vicenda ha mietuto solo vittime, da una parte e dall’altra», ad ulteriore dimostrazione di quanto poco peso e voce in capitolo i poliziotti “democratici” abbiano tra i reparti della Polizia di Stato.

    Matteo Renzi si dice solidale con la madre di Federico Aldrovandi, sia a titolo personale sia a nome di tutto il governo. Ma se Renzi volesse essere solidale più che a parole (perché la solidarietà è tale solo se si fa carne) potrebbe cominciare a pensare di fare qualcosa in suo potere. Potrebbe pensare di invertire la rotta di chi lo ha preceduto, riformando il sistema di selezione e addestramento delle forze di polizia; riformando il sistema carcerario affinché non esistano mai, in nessun posto, celle zero e spazi in cui si assiste ad una sospensione dello stato di diritto; introducendo il reato di tortura; arginando le derive autoritarie e le politiche repressive; ponendo le basi per la costruzione di un ambiente in cui gli abusi in divisa non si verifichino; garantendo che eventuali abusi in divisa vengano puniti integralmente e con la rimozione degli incarichi di chi insabbia, copre e spalleggia assassini, torturatori e corruttori. Finora, chi doveva essere punito non è stato mai trovato oppure ha ricevuto apprezzamenti, riconoscimenti e promozioni. Se Renzi è solidale deve invertire questa tendenza.

    E invece gli assassini di Federico saranno reintegrati nonostante le vive proteste.

    E invece chi rompe una vetrina sta dentro 12 anni e chi ammazza di percosse gratuite sta dentro qualche mese (se va bene).

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come i tre «sadici», gli aguzzini del carcere di Poggioreale. Come i macellai della Diaz. Come i torturatori di Bolzaneto. Come quelli che dal cavalcavia lanciano sassi sui manifestanti. Come quelli che sparano ad altezza uomo lacrimogeni vietati dalle norme internazionali. Come quelli che infieriscono in strada sui corpi di semplici cittadini fino ad ammazzarli. Come quelli che seviziano i detenuti. Come quelli che sgomberano a manganellate i blocchi di protesta dei migranti. Come quelli che sanno che resteranno impuniti.

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come tutte le altre volte.

    Tutta quella gente applaudiva, in massa all’unisono e col cuore, degli assassini. Mele marce un cazzo.

    congresso sap

  • Manganelli e scuse

    Due giorni fa una notizia è stata ripresa da tutti i maggiori quotidiani: un bambino di dieci anni è stato prelevato di peso dalla polizia di fronte alla sua scuola. La scena è stata registrata dalla zia in presenza anche del nonno, i quali invano hanno provato a impedire la “cattura” violenta del nipote. Insieme alla polizia era presente il padre del bambino, che ha aiutato gli agenti ad ultimare l’operazione, nonostante la resistenza opposta dal figlio. Questo allontanamento dalla madre con contestuale forzato riavvicinamento al padre è stato stabilito dalle autorità giudiziarie come «unica soluzione possibile», come risultato di una richiesta da parte del padre, il quale sostiene di essere stato vittima negli anni di «un processo di esautoramento che si sta pietrificando in un grumo di odio insostenibile per le spalle ancora tenere di Leonardo».

    Mettendo da parte, per mancanza di competenza in materia, un’analisi dell’opportunità di questa scelta, resta comunque un fatto: dal video risulta chiaramente che le forze dell’ordine hanno agito con violenza ingiustificata e gratuita ai danni di un bambino, prendendolo per mani e piedi, maltrattandolo fisicamente, costringendolo drammaticamente, causando un trauma che probabilmente lo segnerà a vita. La giustificazione degli uomini della questura di Padova è stata che «stavano eseguendo un ordine», ma è una scusa che non regge più dai tempi di Norimberga.

    Il questore Montemagno ha sostenuto fin dall’inizio la necessità di un’approfondita indagine interna per verificare se fossero state commesse irregolarità nel corso dell’operazione, in barba all’evidenza costituita dal video, per concludere che «l’operato dei miei uomini è stato cristallino».
    Nessuno che si faccia qualche domanda sui criteri di selezione delle forze dell’ordine, sulla loro preparazione professionale, sul loro addestramento. Tutto normale, solo che stavolta c’era il video.

    Allo stesso tempo la Questura di Padova, il capo della polizia Manganelli, addirittura il governo, si sono affannati a porgere le più sentite scuse ed esprimere profondo rammarico alla famiglia del bambino per i metodi utilizzati nell’applicazione dell’ordine costituito dalla sentenza del Tribunale del minori. Però, che professionalità questa Polizia di Stato italiana: fanno il massacro della Diaz e chiedono scusa, organizzano la più grave sospensione dei diritti umani in un paese occidentale dopo la Seconda Guerra e chiedono scusa, picchiano un ragazzo perché ha la pelle nera e chiedono scusa, maltrattano un bambino e chiedono scusa. Che educati! Peccato che chiedano scusa solo quando c’è un video ad incastrarli, e anche quando c’è, come in questo caso, si mette in dubbio la sua autenticità perché la documentazione «è parziale».

    Inoltre, ora, ad essere sotto denuncia non sono gli agenti violenti ma la zia e il nonno del bambino, accusati di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale oltre che di inosservanza di un provvedimento giudiziario.

    Ma funziona così: bastone e carota. Manganelli e scuse.

  • Giustizia per Aldro

     

    Appello perche ciò che è accaduto a Federico Aldrovandi non succeda mai più.

    Il 21 giugno 2012 la Cassazione si è espressa in modo definitivo sul caso di Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso durante un controllo di Polizia all’alba del 25 settembre del 2005 a Ferrara. La Corte ha confermato la condanna dei quattro poliziotti per eccesso colposo in omicidio colposo riprendendo così le sentenze di primo e secondo grado.

    Alla luce della sentenza, chiediamo:

    – che i quattro poliziotti, condannati ora in via definitiva, vengano estromessi dalla Polizia di Stato, poiché evidentemente non in possesso dell’equilibrio e della particolare perizia necessari per fare parte di questo corpo;

    – che venga stabilito in maniera inequivocabile che le persone condannate in via definitiva, anche per pene inferiori ai 4 anni, siano allontanate dalle Forze dell’Ordine, modificando ove necessario le leggi e i regolamenti attualmente in vigore;

    – che siano stabilite, per legge, modalità di riconoscimento certe degli appartenenti alle Forze dell’Ordine, con un numero identificativo sulla divisa e sui caschi o con qualsivoglia altra modalità adeguata allo scopo;

    – che venga riconosciuto anche in Italia il reato di tortura – così come definita universalmente e identificata dalle Nazioni Unite in termini di diritto internazionale – applicando la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 contro la tortura e le altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, ratificata dall’Italia nel 1988.

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  • Il manganello tecnico

    post correlati: Il manganello facile

    La tecnica ci dice qual è il modo corretto di fare le cose: se non seguiamo i suoi dettami, stiamo tecnicamente sbagliando. Non c’è alternativa tecnica alle soluzioni tecniche dei problemi, quindi addossare a qualcuno la responsabilità di scelte tecniche finalizzate all’attuazione di soluzioni tecniche è non solo scorretto, ma anche stupido. Dal punto di vista di chi sostiene questo paradigma. Se non c’è altra scelta, che colpa ne ha il tecnico?

    Se il tuo computer non si accende, l’esperto di elettronica fa una diagnosi del problema e dice che purtroppo perderai i tuoi dati perché dovrai formattare il disco rigido, non puoi prendertela con il tecnico per la soluzione proposta, perché è l’unica possibile e dunque non è propriamente una scelta.

    Secondo un fronte comune che abbraccia la maggior parte dei giornali, dei politici e dell’opinione pubblica lo stesso vale per un governo tecnico: un tale governo non compie scelte, ma applica rigidamente i dettami imparziali della scienza economica, da cui derivano soluzioni univoche per risolvere i problemi di natura economica.

    Allora la militarizzazione della Val Susa non è più criticabile, perché è una militarizzazione tecnica. Fino alla caduta del governo Berlusconi, alle prime tensioni con le forze dell’ordine si accusava da più parte e a più riprese il governo di non saper intrattenere rapporti con i cittadini che fossero diversi dai lacrimogeni e dai manganelli. Ora, con il governo tecnico, non si parla più di cittadini: le persone coinvolte nelle tensioni e negli scontri sono sempre declassate a “violenti”, una categoria che si merita le botte, perché è composta da “incivili”. Le cariche della polizia, in quanto tecniche, sono giustificate, perché se il governo tecnico, responsabile, sobrio e austero del professor Monti le ordina, significa che non esiste alcun altro modo possibile di gestire la situazione: le cariche non derivano da scelte politiche, solo da “scelte” inevitabili di natura esclusivamente tecnica.

    Come è una scelta puramente tecnica quella di sbarrare la strada, lo scorso febbraio, a manifestanti pacifici di ritorno da un corteo No Tav, a manifestazione conclusa, con la celere in assetto antisommossa, ed è ancor più squisitamente tecnica la gestione delle operazioni da parte di un certo Spartaco Mortola, ex capo della Digos di Genova ai tempi della macelleria messicana, guardacaso assolto per i fatti di Genova «perché il fatto non sussiste» e guardacaso assolto anche dall’accusa di aver istigato alla falsa testimonianza durante il processo per l’irruzione della polizia nella scuola Diaz al G8 del luglio 2001.

    Ma il culmine dell’imparzialità e della sobrietà è stato toccato ieri, con la nomina di Gianni De Gennaro a sottosegretario di Stato da parte di Monti. Forse Monti, dopo il successo del film Diaz, ha pensato bene di manifestare il suo giudizio positivo, tecnico ovviamente, per l’operato ineccepibile, dal punto di vista tecnico ovviamente, durante il mandato di De Gennaro. Sopra, una foto esclusiva del suo curriculum.

  • Il feticismo dei post-it

    Dedico le mie parole a tutti coloro che hanno condannato ciecamente le violenze (ostiniamoci ad etichettarle così, almeno ci capiamo, care anime belle) dello scorso 15 ottobre rivendicando la natura pacifica della manifestazione, anche se in realtà non ho intenzione di parlare direttamente di quei fatti. Ho scelto voi come interlocutori perché ritengo che il movimento (sì, mi ostino anche ad utilizzare questa parola per esprimere qualche cosa che forse in realtà non esiste) italiano debba rivedere le sue strategie per ritrovare la vitalità e l’efficacia che aveva un tempo e che prima del 15 ottobre era riuscito ad esprimere l’ultima volta verso la fine del 2003, quando era già agonizzante: e siccome voi fate parte del movimento tanto quanto me e io credo nella forza del dialogo e nelle armi della democrazia, vi dico da pari come la penso.

    Non mi va di rifare discorsi che sono già stati fatti sulla questione violenza-nonviolenza e che hanno prodotto un’immensa mole di materiale su cui riflettere. Ai fini dell’argomento che mi accingo ad esporre è però necessario rimarcare come la violenza sia da considerarsi, senza esprimere giudizi morali, uno strumento come tanti altri: può essere lo strumento del potere che si difende, del capitale che sfrutta, della mafia che minaccia, dell’autonomo che lancia il sampietrino, e come ogni altro strumento può essere usato bene o male, da intendersi come efficacemente o meno. Per esempio, i fatti dimostrano che la violenza del 15 ottobre è stata poco efficace per il raggiungimento degli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere (a parte quello immediato di alcuni: esprimere un disagio, lanciare un segnale di rabbia e frustrazione).

    Ma sarebbe stata efficace la strategia che auspicavano quei tanti che intendevano recarsi a Roma per esprimere coloratamente o coloritamente la loro “indignazione”? Fa davvero paura al potere un corteo di centinaia di migliaia di persone, anche di un milione di persone, se queste camminano insieme, piantano tende, intonano cori? O fa forse più paura una folla di qualche decina di persone che minaccia di chiudere il proprio conto in banca?

    A chi condanna la violenza a priori vorrei ricordare che quando la violenza l’hanno praticata in Tunisia e in Egitto andava a tutti bene, anche ai giornalisti de La Repubblica che una settimana fa invitavano alla delazione di massa di coloro che potevano aver preso parte al respingimento delle cariche della polizia in piazza San Giovanni. Ma certo, in Egitto sono sporchi e con la pelle scura, in più parlano arabo e sono musulmani, quindi la violenza la possono usare perché sono degli animali, perchè sono violenti: questo è il messaggio implicato nella morale di certa informazione perbenista. Tanto che quando, in primavera, la protesta stava migrando dal mondo arabo alla più civile Europa (prima in Croazia poi in Spagna), i giornali occidentali inizialmente hanno pensato bene di non parlarne.

    A chi si illude di cambiare le cose solo accampandosi in una piazza a oltranza, come al Cairo, ricordo che l’occupazione di piazza Tahrir è stato un evento riuscito e di grande successo, efficace e non solo simbolico, grazie a successive ondate di scioperi che hanno paralizzato l’Egitto per settimane prima e durante la lotta di piazza.

    A chi ripete meccanicamente, come un bambolotto parlante, lo slogan «no alla violenza», vorrei ricordare cos’è la nonviolenza: una pratica attiva di resistenza a leggi o decisioni che si ritengono ingiuste. In altre parole: disobbedienza civile. E vorrei ricordare sempre a costoro che Gandhi, con le cui parole si riempiono la bocca e adornano gli striscioni, in India non ha vinto standosene seduto davanti alle forze di occupazione inglese o prendendo manganellate insieme a migliaia di persone, ma boicottando il sale inglese e permettendo agli autoctoni di riappropriarsi di un bene comune da sottrarre alle grinfie dell’Impero.

    Questo quindi si deve fare: ripartire dai beni comuni, dalla loro socializzazione, dal consumo critico. Ciascuno è importante. Inutile protestare contro la finanza con indosso un paio di scarpe fabbricate da bambini bengalesi, dei jeans scoloriti a costo di compromettere la salute degli operai che li hanno raschiati, una maglietta prodotta da lavoratori cinesi sottopagati, il tutto pubblicizzato attraverso i più infimi sistemi di controllo mentale magari da aziende quotate in borsa, la borsa che tanto si critica. Vano sputare nel piatto da cui si mangia: bisogna imparare a mangiare da un altro piatto. E dopodiché, invitare altri a mangiare dal nostro.

    Sia chiaro che non sto proponendo la ricetta che ci libererà dal male, ma semplicemente un poco di coerenza e un poco di riflessione sul significato della nostra azione politica: il consumo critico è solo un modo per tirarsi fuori dal problema, ma non ancora di far parte della soluzione. Il consumo critico da solo non basta. Neanche gli scioperi da soli bastano. Le acampadas da sole non bastano. Tutti questi eventi devono essere espressione di un’unica Lotta, con la maiuscola, che le unifica tutte (io direi che è quella contro l’Ancien Régime). Senza la coscienza della necessità di tale unificazione, ogni singolo tassello sarà troppo piccolo per formare un’immagine sensata.

    Avete tutti una scelta, a questo punto: o, in virtù del vostro “pacifismo nonviolento” continuate ad aderire ad appelli online, raccolte di firme e petizioni, mandate i vostri post-it a La Repubblica e affiggete i vostri striscioni e le vostre lenzuola per far contenta L’Unità (che poi in fondo, cosa cazzo sperano di ottenere?) oppure vi inventate un altro modo di praticare la nonviolenza. Anzi: la praticate e basta, niente feticismo dei post-it.

  • La violenza degli argini

    Volevo raccontare il 15 ottobre che ho vissuto senza parlare degli scontri, senza condividere o condannare la violenza, senza appoggiare o rifiutare teorie su infiltrati e sui cosiddetti black bloc, senza dover difendere o stigmatizzare il comportamento della polizia italiana o dei manifestanti, senza tirare nessuno per la giacchetta.

    Non so se infine sono riuscito nel mio intento di descrivere con oggettività la giornata (scopo che sempre mi riservo, in tutte le situazioni e nella maggior misura in cui è possibile farlo), ma di certo non sono riuscito mio malgrado ad evitare di parlare di tutte le questioni accennate sopra: avrei preferito non farlo, perché parlare della giornata di ieri come una giornata di violenza o di non violenza significa fare il gioco dei potenti e adottare il linguaggio e la retorica dei loro organi di informazione. Ma leggendo tanti commenti sulla rete e diversi articoli di giornali di aree diverse mi sono reso conto che è necessario mettere in chiaro qualche punto: ecco quindi cosa ho scritto. Sono pensieri sparsi.

    Questione violenza-nonviolenza. Il voler a tutti i costi dividere nettamente il corteo di ieri in due cortei, uno violento e uno pacifico, non solo non aiuta a capire le dinamiche di ieri ma rispecchia poco la realtà dei fatti, come qualsiasi altro tentativo di categorizzare le anime molteplici di un movimento, attribuendo loro nomi e nomignoli stupidi e contrapponendoli (es. indignados, black bloc > indignados VS black bloc). È troppo semplicistico ragionare in codice binario, funziona solo per il benpensante che guarda passivo le immagini dello schermo televisivo passargli sotto gli occhi.

    Che è necessario abbandonare questo frame è stato già detto mille volte ma non fa male ripeterlo. Bisogna prendere atto che in piazza San Giovanni c’erano tante persone diverse, non tutte col casco e armate di spranghe, mazze e molotov, che comunque erano disposte allo scontro: uno scontro non per forza premeditato, uno scontro che può essere stato causato dagli idranti sugli stand che attendevano l’arrivo del grosso del corteo o dai lacrimogeni lanciati in mezzo alla folla su un corteo autorizzato. Non sto parlando degli incappucciati, sto parlando dei tanti altri che sono rimasti coinvolti negli scontri: tra loro immagino ci siano tanti che sono equilibrati in situazioni normali ma che possono, come tutti, perdere il controllo in condizioni anormali e nel mezzo della folla.

    Personalmente trovo strumentali e del tutto fuorvianti i richiami alla Genova del 2001 in riferimento alla presenza di possibili infiltrati, perchè gli infiltrati ci sono in tutte le manifestazioni, anche le più pacifiche, e poi allora si trattava di un movimento e di circostanze completamente diverse: chi, come La Repubblica, scrive «violenze come a Genova» ha dimenticato quanto diverse fossero allora le strategie messe in campo dal black bloc (sì, al singolare) rispetto allo scontro fisico che c’è stato ieri e devia l’attenzione, attraverso analogie e  meccanismi di associazione tra concetti, dal fatto (scontri) alla sua interpretazione (black bloc).

    Il discorso sui possibili infiltrati lo lascio ai complottisti e ai politicanti, perché neanche questo aiuta a comprendere l’accaduto: quelle persone in piazza San Giovanni si sono difese dai lacrimogeni e dai manganelli, e lo avrebbero fatto comunque, con o senza infiltrati. Perciò secondo me la verifica di eventuali infiltrazioni è solo una questione “giuridica”, ma dal punto di vista dell’analisi politica dell’accaduto è irrilevante.

    Mancanza di sintesi. Come scriveva qualcuno, il germe della violenza è insito nella natura stessa di protesta e se a volte rimane potenziale ed altre si fa atto ciò è dovuto alle circostanze; questa volta, per settimane o mesi, fin dall’inizio si è affermata l’intenzione di andare oltre il corteo rituale e la sfilata per il centro di Roma. Su questo si era tutti d’accordo. Però, come conseguenza del campanilismo dei movimenti italiani (che, da quello che mi pare di capire, si è puntualmente manifestato nelle varie assemblee di organizzazione della mobilitazione del 15 ottobre), non ci si era accordati sulle strategie da adottare per superare la tradizionale estetica del conflitto: chi voleva assediare i palazzi governativi, chi occupare il Colosseo e altri monumenti, chi restare nelle strade e nelle piazze a oltranza e, sì, anche chi auspicava una insurrezione popolare. C’è stata una così profonda mancanza di sintesi che, per le differenti strategie, non si è stati capaci neanche di accordarsi sul percorso del corteo, per dirne una, o di organizzare un servizio d’ordine unitario, per dirne un’altra. In particolare, ritengo che quest’ultimo fatto sia stata una delle cause principali dei problemi che la massa ha dovuto fronteggiare. Questa frammentazione era percepibile, bastava farsi un giretto tra i diversi spezzoni del corteo.

    Comportamento della polizia. Tutti, come sempre, hanno fatto a gara a condannare per primi la violenza. Io non esiterei a condannare l’ipocrisia di chi condanna unilateralmente la violenza degli incappucciati o dei manifestanti e allo stesso tempo si dice soddisfatto dell’operato della polizia, che di violenza ne ha usata. Perché la violenza della polizia deve essere giustificata? Qualcuno risponderà che lo scopo della polizia era evitare i disordini. Ma allora il fine giustifica i mezzi? Se è così, la violenza dei manifestanti era altrettanto legittima. Anche perché, quando vedo scene come questa, posso non condividere ma di certo capisco la reazione della piazza.

    Aggiungo un fatto curioso (ma non troppo) sul comportamento delle forze dell’ordine. Il percorso concordato partiva da piazza Repubblica, con destinazione piazza San Giovanni: quest’ultima era la piazza in cui si sarebbero dovute svolgere assemblee parallele e l’eventuale acampada con l’organizzazione di vari stand (poi buttati giù dagli idranti della polizia), che si trovavano là già prima che arrivasse la testa del corteo. Piazza San Giovanni era quindi legalmente riservata ai manifestanti che, secondo me, avrebbero dovuto mantenere il pieno diritto legale di entrarci; dopo l’inizio degli scontri, la polizia ha privato i manifestanti di questo diritto da essa stessa concesso, anzi ha trattato da criminali tutti coloro volessero accedere alla piazza da via Merulana, e giù lacrimogeni e manganelli, quando l’unica colpa che avevano era di seguire il percorso concordato di un corteo autorizzato dalla questura di Roma. Quindi contraddittoria non solo nella sostanza, ma anche nella forma.

    Opinione personale. Personalmente la violenza degli incappucciati non la condivido, ma non condanno la violenza dei manifestanti che si sono difesi da cariche e da lacrimogeni che li cacciavano da una piazza che doveva essere loro.

    La violenza degli incappucciati, io non la condivido non per motivi etici, ma per una questione politica e strategica: semplicemente hanno fatto male al movimento. Poteva essere un’esperienza politica lunga mesi, con piazze occupate e tutto quello che ciò comporta e che in Spagna sono stati capaci di mettere in pratica, invece si è risolto tutto in poche ore fumo nero. Tutti i possibili contenuti del movimento saranno oscurati dalla condanna delle frange estremiste, dalle accuse di infiltrazioni, dalla necessità di dissociarsi dall’uso della violenza e di dimostrare che i “veri indignati” sono quelli pacifici, dalla denuncia di incapacità di gestione dell’ordine pubblico e da tutti quei discorsi che implicano l’accettazione del frame violenza-nonviolenza e, ove possibile, del frame casta-anticasta che tanto piace a La Repubblica. Nessuno parlerà di speculazione finanziaria, di predominio della finanza sulla politica, di banche armate, di sovranità monetaria, di privatizzazioni, di annullamento del debito pubblico, di tagli alla formazione e alla sanità, di beni comuni e di lavoro.

    In pratica, ora che si è manifestata la violenza del fiume in piena nessuno noterà quella degli argini che lo costringono.