Tag: neoliberismo

  • Il neoliberismo come lo schiavismo

    Che la globalizzazione neoliberista abbia avuto e abbia effetti nefasti sulla vita di miliardi di persone è ormai un fatto acclarato, di un’evidenza tale che neanche le istituzioni che la hanno storicamente sostenuta e alimentata ideologicamente, economicamente e in parte politicamente possono più negarlo: il neoliberismo fa male all’umanità. Ormai è riconosciuto ufficialmente da studi e rapporti promossi e finanziati dagli stessi istituti che negli ultimi quarant’anni non hanno mai smesso di suggerire manovre economiche di scuola neoliberista e di intimare governi e parlamenti di Paesi nominalmente sovrani a varare piani di aggiustamento strutturale ricattandoli tramite il controllo del debito pubblico, anche a prezzo di istaurare dittature illiberali, violente e autoritarie (perché, occorre ricordarlo, l’austerità è incompatibile con la democrazia, non col fascismo).

    Ecco alcune delle illuminate affermazioni di Christine Lagarde sulla globalizzazione, di cui FMI, Banca Mondiale e WTO si accorgono solo adesso e che Lagarde pronuncia quasi con stupore, come se avesse visto la mano invisibile di Adam Smith volteggiare sopra la propria testa in un tiepido pomeriggio d’aprile e come se queste preoccupazioni non fossero state espresse nella forma di certezze vissute sulla propria pelle da milioni di persone negli ultimi trent’anni almeno: «Il commercio ha avuto effetti negativi su alcune tipologie di lavoratori e su alcune comunità»; «la globalizzazione ha contribuito a schiacciare i salari»; «la globalizzazione ha avuto qualche effetto negativo sul primo mondo». Risparmiandosi di commentare, il punto che è da notare è il passo indietro rispetto all’atteggiamento ideologico assunto storicamente che vedeva nella ricetta neoliberista la panacea contro tutti i mali.

    Nel complesso, tuttavia, resta ancora molta cieca ideologia se Jim Wong Kim, presidente della Banca mondiale, coglie l’occasione per sottolineare nelle stesse ore che «la globalizzazione è anche una questione di giustizia sociale: ha tirato fuori milioni di persone dalla povertà». Delle disuguaglianze, in fondo, che importa? Se un sistema riesce a farti uscire dalla povertà assoluta, che male c’è se al contempo ti deruba di parte della ricchezza che produci per arricchire chi possiede già la ricchezza di centinaia di milioni di persone? Il neoliberismo, e il capitalismo in generale, neanche intravedono alcunché di immorale in questo. Come chi, a suo tempo, non vedeva alcunché di immorale nello schiavismo, che in fondo tirò fuori milioni di persone dalla morte per fame.

  • Sui fatti di Parigi

    Di fronte ai fatti parigini, occorre riflettere. Esiste oggi un’organizzazione che attacca popolazioni straniere in nome di una pretesa superiorità morale, che è fermamente convinta di agire nel giusto, è sostenuta da ingenti risorse finanziarie e fa ampio ricorso alla propaganda ideologica per incutere terrore ed ottenere consenso e, all’occorrenza, sottomissione. Questa organizzazione, negli ultimi quindici anni, ha mietuto centinaia di migliaia di vittime e prende il nome di Stati Uniti d’America. Con il supporto morale, economico e militare di altre organizzazioni (Stati alleati, aziende, potentati economici), essa ha assoggettato per decenni le popolazioni del Medio Oriente tramite il finanziamento di regimi dispotici e autoritari, ne ha calpestato il diritto all’autodeterminazione con la costruzione di governi fantoccio al servizio degli interessi neocoloniali, li ha depredati delle risorse dei loro territori, ha distrutto interi ecosistemi o ne ha minacciato l’esistenza mettendo in pericolo di vita innumerevoli comunità umane in ogni parte del globo terrestre.

    Dopo le morti di Parigi, si fa strada in Europa, con una forza di portata paragonabile forse solo a quella dei fatti dell’11 settembre 2001, l’idea che “ormai non ci si può più sentire al sicuro”, e anche se la probabilità di morire per un incidente su un volo di linea o cadendo da un’impalcatura resta ordini di grandezza più alta di quella di morire a causa di un attentato terroristico, forse ciò può esser vero; eppure, nella maggior parte del pianeta, è da parecchio tempo che “non ci si sente più al sicuro”, direttamente o indirettamente a causa di meccanismi appositamente costruiti per garantire che in piccole aree isolate ci si possa ancora sentire al sicuro: regimi repressivi che offrono il proprio apparato poliziesco per arrestare scomodi flussi migratori, governi compiacenti che promuovono legislazioni permissive in materia di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, totalitarismi conniventi che concedono la possibilità di trattare i prezzi del mercato petrolifero mondiale in cambio della facoltà di violare sistematicamente la dignità e i diritti umani, apparati di controllo che schiacciano la libertà di parola, servizi segreti che orchestrano e appoggiano sanguinosi colpi di Stato. L’ISIS in Iraq è nato proprio perché, anche grazie all’intervento statunitense, “non ci si sentiva al sicuro”. L’integralismo religioso ha fatto leva sul sentimento di rivalsa nei confronti dell’Occidente che occupa militarmente, sfrutta economicamente e impone propri modelli culturali, sociali e politici: da questo all’aggressivo espansionismo il passo è breve, dato che ad azione bellica statunitense ha corrisposto una reazione uguale e contraria, altrettanto bellica.

    Scopo di questa riflessione non è, tuttavia, parlare di chi ha organizzato gli attentati di Parigi. Stragi paragonabili per tributo di sangue e morte avvengono con una frequenza altissima, ma finché ci si sente al sicuro al di qua del filo spinato delle frontiere e finché quelle stragi sono patrocinate da un “totalitarismo buono”, lo spettatore non è scosso nella coscienza.Certamente, da spettatori europei non si può non restare allibiti e scossi di fronte a quanto è successo, già solo per una mera questione di più facile immedesimazione: le oltre centoventi persone morte a Parigi sono molto simili a noi, mediamente avranno avuto una giornata e una vita molto simili alle nostre giornate e alle nostre vite. Ma bisogna riconoscere che, aldilà di questo, l’indignazione, lo sconcerto e l’orrore che ci riserviamo di provare in occasioni come questa molto più che in altre sono arbitrari. Anzi, non proprio arbitrari: sono in buona parte indotti, così come in buona parte è sapientemente indotto il terrore che sarebbe significativamente ridimensionato se i giornali si esimessero dal raccontare la tragedia come “scontro di civiltà” (quando, a ben vedere, lo scontro è tra poteri legati da alleanze incrociate).

    Se, come c’è da aspettarsi, il terrore dell’opinione pubblica sarà usato come pretesto per la riduzione delle libertà individuali e collettive e degli spazi di agibilità politica, per la revisione delle politiche migratorie (come sta già accadendo in Polonia, nonostante immigrazione e terrorismo abbiano ben poco a che fare l’uno con l’altra), per favorire interessi geopolitici tramite guerre, violazioni di sovranità e “interventi umanitari” in cui si bombardano ospedali, allora mi dispiace ma tenetevi il terrore. “Al sicuro” devono potercisi sentire tutti, non voglio scegliere tra barbarie per cui parteggiare.

  • Ripulirsi la coscienza con l’accoglienza

    «Chi non vuol parlare di capitalismo, dovrebbe tacere anche sul fascismo»
    Max Horkheimer

    Le lacrime non basterebbero per piangere o ridere di fronte all’ipocrisia con cui i governi europei stanno affrontando la crisi umanitaria sul confine orientale della Fortezza Europa. Dopo il greenwashing e il pinkwashing, oggi secondo la moda del momento all’ordine del giorno nell’opinione pubblica stiamo assistendo adlla comparsa di un’altra forma di lavaggio della coscienza (e del cervello): quello della millantata solidarietà per i profughi, che rende chiunque la decanti e la condivida innocente e nobile d’animo e di cuore. Basta dire che quelle vite hanno un valore per essere circondati di un’aura da benefattore, a prescindere dalle ricadute che poi le strategie di contenimento, respingimento ed espulsione realmente hanno sulle vite dei migranti.

    Così, Renzi, dai microfoni dell’Expo, evento sostenuto dalle peggiori multinazionali del pianeta che cementificano, desertificano, inquinano, sfruttano e devastano risorse e popolazioni in ogni angolo del mondo, ai suoi fan (come altro chiamarli?) può dire che «questa è l’Italia vera solida e solidale», può schierarsi contro la costruzione di muri come quello ungherese voluto da Orban al confine con la Serbia e definire «bestie, non umani» quelli che sono contro l’accoglienza dei profughi, poco dopo aver stretto la mano a Netanyahu, che intende estendere le recinzioni anti-immigrazione su tutto il confine tra Israele e la Giordania, apparentemente senza in questo vedere nessuna contraddizione. Del resto, anche Netanyahu dichiara che «Israele non è indifferente alla tragedia umana dei rifugiati siriani e africani».

    Così l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, già qualche mese fa dopo l’ennesima tragedia di un naufragio nel Mar Mediterraneo, annunciava che «per l’Europa è impe­ra­tivo sal­vare tutti insieme delle vite umane, così come tutti insieme dob­biamo pro­teg­gere i nostri con­fini e com­bat­tere il traf­fico di esseri umani», sorvolando sul fatto che gli scafisti e il traffico di esseri umani esistono proprio perché “noi” proteggiamo i “nostri” confini, apparentemente senza in questo vedere contraddizioni. Chiudere le frontiere, qualunque sia il modo in cui lo si fa, significa favorire il traffico di esseri umani; far finta di non capire questo è essere complici.

    Per non parlare di come si ripuliscono la coscienza la Germania e l’Austria, che improvvisamente diventano “buone” anche agli occhi degli attivisti per i diritti dei migranti in quanto hanno aperto le frontiere per fronteggiare l’ondata di rifugiati giunta dai vicini Balcani, dopo ripetuti episodi di violenza e repressione. Come se Austria e Germania non avessero sistemi di “identificazione ed espulsione” tanto lesivi dei diritti dei migranti quanto lo è la violenza delle forze di confine. E infatti ci sarebbe da chiedere una cosa: un mese o un anno fa migranti non ce n’erano? Le frontiere si aprono, momentaneamente, solo quando ci sono migliaia di persone intrappolate nella stazione di Budapest, con gli occhi del mondo puntati, giusto per fare bella figura rispetto all’Ungheria xenofoba che ha eretto il muro?

    Ma, a proposito di muri, vogliamo parlare di quegli occidentali che nel 1989 esultarono per la caduta del muro di Berlino, in nome della libertà di circolazione, ma oggi sono a favore dei muri attuali? E se non a favore, perlomeno non contrari, e se contrari perlomeno molto timidamente. Forse perché all’epoca la libertà di circolazione era limitata in nome del “comunismo” sovietico mentre oggi lo è dalle frontiere fantoccio del mondo neoliberista? Frontiere, tra l’altro, difese formalmente da organi e istituzioni di fatto esautorati dei propri poteri politici, e  le cui decisioni non sono che ratifiche di decisioni prese altrove: nelle stanze segrete in cui viene stipulato il TTIP, nelle sedi della finanza mondiale, nelle banche  in congressi di figure del tutto estranee al controllo democratico. I confini, di fatto, non esistono più per la finanza e il mercato; continuano ad esistere, invece, per gli esseri umani, in quanto portatori di una particolare merce, la forza-lavoro, la quale, se segregata e resa ricattabile, diventa più facilmente assoggettabile a crescenti forme di sfruttamento.

    Ecco perché chi non vuol parlare di abolizione delle frontiere come strumento di sfruttamento e di limitazione della libertà di circolazione, dovrebbe tacere anche sull’accoglienza.

  • Il PD non è una risposta

    In un suo saggio tagliente e conciso, dal titolo A brief history of neoliberalism, nel 2005 David Harvey spiegava come la globalizzazione neoliberista, portartice di un individualismo sfrenato e del totalitarismo del mercato, non manchi di incontrare resistenze e reazioni alla sua azione plasmatrice e invadente, che si insinua (come solo i rapporti di classe e di produzione sanno fare) in ogni singolo ambito della vita umana. Le resistenze che il neoliberalismo incontra sono molteplici, perché molteplici sono le forme con cui il neoliberalismo si presenta con la funzione di restauratore del dominio di classe. Ci sono reazioni che si contrappongono alla globalizzazione nel solco dell’anticapitalismo, in maniera più o meno radicale, rispondendo all’individualismo con il mutualismo e la solidarietà. Ne esistono altre che rispondono allo sfibramento dei legami sociali richiamandosi ad altre forme di comunità, più identitarie: si va dai gruppi religiosi alle formazioni nazionaliste, alle narrazioni identitarie se non apertamente fasciste.

    Alla luce di questa distinzione (che non è affatto banale), è possibile classificare con una certa facilità le risposte elettorali alla crisi del neoliberismo (che è tuttavia anche una crisi nel neoliberismo) manifestatesi in occasione del voto europeo. La crescita della sinistra nella penisola iberica è un esempio di risposta solidale: in Spagna al 17,98% sommando Izquierda Unida e il neonato movimento Podemos, in Portogallo al 17,24% sommando il Bloco de Esquerda e il Partido Comunista Português. Un’altro esemio di risposta mutualistica e solidale è costituito dall’incredibile vittoria di Syriza in Grecia col 32,5% dei voti, un risultato nato e costruito dalle esperienze di movimento, dalle piazze, dal conflitto, dai laboratori di autogestione e collettivizzazione dal basso. Dall’altro lato, le risposte identitarie, che all’individualismo di mercato si contrappongono costruendo legami sociali sulla base dell’etnia, della tradizione, della nazione ed esprimendoli con il nazionalismo e la xenofobia. Questo è chiaramente il caso di partiti come il Front National (24,85%) in Francia, il UKIP (28%) in Gran Bretagna, l’alleanza di governo tra Fidesz e Jobbik (66,2%) in Ungheria. Ovunque i partiti di governo escono indeboliti, se non additittura desautorati del mandato popolare. Tranne in un paese: l’Italia.

    Un paese che, in un contesto in cui tutti come reazione alla crisi cercano di cambiare qualcosa spostandosi a destra o a sinistra radicalizzando le posizioni di conflitto, è l’unico a non radicalizzare alcun tipo di contrapposizione. Premia il governo, favorisce la stabilità della crisi e nella crisi. Uno sciame di Don Abbondio che, spaventati dall’oppressione, si rifugiano sotto le ali dell’oppressore, trovandole l’unico luogo sicuro. Un’eterno fenomeno italiano che consiste in una tendenza alla diluizione in chiave “moderata” di qualunque cosa.

    Il maggiore partito di governo, cioè il PD (destra) ha superato la soglia psicologica del 40%. Questo non solo è una vittoria interna, in quanto rafforza la posizione del PD nel governo rendendolo meno passibile di ricatti da parte degli altri due partiti alleati, annientati completamente dalla competizione elettorale; è anche una vittoria continentale, poiché il PD in Europa sarà il maggiore azionista del raggruppamento del PSE (32 eurodeputati contro i 23 della Spd tedesca e i 23 della PSOE spagnolo), nonché l’unico in Europa ad aver aumentato i consensi sia in termini percentuali sia in termini assoluti (dagli oltre 8 milioni di voti delle scorse politiche agli oltre 11 milioni di ieri) e l’unico partito di governo del PSE a non uscire indebolito dal voto. In altre parole, il PSE obbedirà più a Renzi che a Schulz, con conseguente spostamento a destra del raggruppamento (come se già non bastasse la brillante carriera dei suoi partiti aderenti, tutto in un modo o nell’altro promotori, nei propri paesi, di politiche di austerity e di rispetto incondizionato delle ricette neoliberiste) e stabilizzazione della governance europea.

    Ora, tornando al discorso iniziale, la domanda è: a quale dei due generi di risposta al neoliberismo appartiene il risultato ottenuto dal PD?

    Classificarlo come risposta mutualistica e solidale sarebbe un’operazione di pura propaganda, che solo un mentecatto o un bugiardo potrebbe compiere. D’altro canto, è vero che il PD, nella sua retorica e nella sua azione, si richiama a concetti come coesione sociale, responsabilità nazionale, superamento degli steccati, ma questi non vengono declinati in un’ottica nemmeno apparantemente di contrapposizione alla globalizzazione. Ci si potrebbe spremere per ore senza trovare la risposta a questa domanda. Perché la domanda è semplicemente sbagliata. Il fatto è, signori, che il PD non è una risposta al neoliberismo. Il PD è il neoliberismo.

     

    E di fronte all’aggressione neoliberista, come reagiscono gli elettori italiani? Con una risposta solidale? Con una risposta nazionalista? No: di fronte all’aggressione neoliberista, gli elettori italiani la acclamano.

  • L’austerità è incompatibile con la democrazia, non col fascismo

    L’incompatibilità tra austerità e democrazia è un concetto negli ultimi anni sostenuto a più riprese dai movimenti sociali: migliaia di manifestazioni, presidi, cortei hanno attraversato i continenti per dire «our democracy against their austerity» rivelando la contrapposizione tra le due, per ricordare ai presunti paladini dello Stato di diritto espressione della sovranità popolare che «o povo é quem mais ordena».

    La modalità di introduzione delle norme che hanno ridefinito il mercato del lavoro per renderlo più “flessibile”, eroso diritti conquistati in decenni o secoli di lotte, aumentato le disuguaglianze sociali, costretto milioni di persone alla precarietà e alla povertà, da alcuni sono state definite “tecnofascismo”. I provvedimenti di privatizzazione dei servizi, smantellamento dello stato sociale, ristrutturazione del debito a suon di tagli, ovvero le famose riforme, in passato imposti ai paesi dell’altra metà del mondo con il nome di “piani di aggiustamento strutturale”, sono stati imposti nei paesi europei scavalcando i parlamenti nazionali, esautorati nelle questioni economiche di primaria importanza dagli organismi finanziari internazionali. Istituzioni non soggette a controllo democratico hanno pesantemente condizionato istituzioni rappresentative: è la “dittatura dei mercati”.

    Dal canto loro, i rappresentanti del potere hanno sempre fatto il possibile perché questa narrazione degli eventi prendesse piede e hanno reagito di volta in volta misurandosi sapientemente con la situazione: provando inizialmente a smorzare i toni per tenere a bada l’opinione pubblica, cercando di ricondurre le soggettività potenzialmente sovversive e le loro simpatie alla “ragionevolezza”, ovvero al riconoscimento dell’inevitabile supremazia del mercato con conseguente genuflessione alla sua volontà trascendente (Papademos quando diceva: «sacrifici o baratro»); quando ciò non era possibile, hanno optato per la via della compiacenza, mostrandosi premurosi e comprensivi, chiarendo che le rivendicazioni dei movimenti erano giuste e le proteste sacrosante, ma questioni tecniche imponevano di rimandare la loro realizzazione (Draghi quando diceva: «li capisco, noi alla loro età non abbiamo dovuto aspettare»); quando il riconoscimento da parte delle masse dell’esistenza, nella società, di interessi contrapposti e inconciliabili si è fatto un rischio elevato a tal punto da far scricchiolare le fondamenta della retorica dei sacrifici, la risposta è divenuta repressiva.

    I momenti di mobilitazione sono stati spesso teatro di pratiche conflittuali che hanno incontrato la repressione del dissenso in nome dell’ordine. Ecco perché i movimenti sociali, nell’interfacciarsi con queste imposizioni, vi riconoscono il fascismo: si tratta di scelte prese da una ristretta minoranza e imposte con la violenza a garanzia dell’ordine sociale ovvero delle disparità.

    È per questo che, durante la campagna elettorale greca dello scorso anno, il tanto sgolarsi dei vertici europei per invitare a non votare Syriza fu motivo di indignazione ma non di sorpresa; lo stesso può dirsi del mancato invito a non votare il partito neonazista greco Alba Dorata: l’austerità è incompatibile con la democrazia, non con il fascismo.

    Quello che non era ancora successo era l’ammissione esplicita dell’incompatibilità tra austerità e antifascismo, avvenuta meno di un mese fa e passata quasi inosservata dai mezzi di informazione. Il 28 maggio, la società finanziaria JPMorgan Chase&Co, con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali, ha pubblicato un documento di analisi (qui visualizzabile per intero) sull’attuale situazione nella zona Euro, contenente considerazioni sulla funzione a lungo termine dell’austerità, sul suo stato di avanzamento, sugli ostacoli che ne impediscono la piena attuazione.

    «La gestione della crisi nella zona euro si è evoluta nel corso degli ultimi tre anni, ma una questione di fondo è sempre stata presente, costantemente: che i problemi esistenti a livello nazionale dovrebbero essere affrontati a livello nazionale prima che la regione intraprenda ulteriori passi di integrazione» recita il documento già nell’introduzione.

    «All’inizio della crisi si pensò che i problemi nazionali preesistenti fossero soprattutto di natura economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea»

    «I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo»

    «I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. Le carenze di tale eredità politica sono state rivelate dall’incedere della crisi: i paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, con esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)»

    Praticamente, in questo documento per la prima volta dei banchieri ammettono apertamente che ordinamenti costituzionali basati sui valori dell’antifascismo non sono compatibili con i dettami di quella che ritengono la “scienza economica”, che non è altro che l’economia neoliberista.
    In questo modo, il tecnofascismo di oggi giunge alle stesse conclusioni del fascismo di ieri, con la differenza che mentre i fascismi novecenteschi giustificarono la propria azione articolandola sul piano politico, l’austerità viene imposta perché considerata l’unica alternativa sul piano economico. Gli effetti non sono dissimili: è necessario un governo forte che scavalchi facilmente i parlamenti, bisogna abolire le tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, non deve essere permesso manifestare il proprio dissenso contro proposte sgradite. Si deve insomma ammorbidire gli eccessi di democrazia, che sono eccessi nella misura in cui minacciano un sistema economico fondamentalmente autoritario, basato sulla gerarchia anziché sulla partecipazione e sulla condivisione: in questo senso, i fascismi del secolo scorso ebbero la funzione storica di frenare gli stessi eccessi.

    Una volta lo facevano per difendere «la nazione», oggi lo fanno per difendere «la crescita». Entrambi sono vuoti feticci.

     

    Uno dei pochi articoli sull’argomento: JP Morgan all’Eurozona: “Sbarazzatevi delle costituzioni antifasciste”

  • «There is no alternative»

    Articoli correlati: Sull’egemonia culturale, «Sacrifici o baratro», L’illusione del binomio liberismo-benessere, Il migliore dei mondi possibili ai tempi del pensiero unico, La manovra di Ferragosto e la shock economy, Le vacanze, La fine delle ideologie.

    Verranno al contrattacco
    con elmi ed armi nuove

    (CCCP, Curami)

    Riporto di seguito uno stralcio dell’introduzione di un libro di Graeber, di cui ho già avuto occasione di parlare.

    “I nostri nemici sembrano riconoscere il potenziale di questi movimenti , la minaccia che pongono agli equilibri di potere globale, in modo molto più consapevole di quanto non facciano gli attivisti dei movimenti stessi.

    E se la ragione della depressione di coloro che vorrebbero vedere un mondo organizzato secondo un principio diverso dal capitalismo fosse che i capitalisti e i politici sono letteralmente ossessionati dall’idea di farci sentire depressi? Il capitalismo neoliberista è ossessionato in primo luogo dal dover garantire che «non c’è nessuna alternativa», come Margaret Thatcher dichiarava negli anni ottanta. In altre parole, è stato ampiamente abbandonato ogni sforzo di argomentare che l’attuale sistema economico sia in effetti un ordine valido, giusto o ragionevole, che si dimostrerà capace di creare un mondo in cui la maggior parte degli esseri umani vivrà in prosperità, sicura, libera di spendere ogni significativa porzione della propria vita alla ricerca delle cose ritenute veramente importanti.

    È molto interessante notare come, alla fine della Guerra Fredda, il linguaggio usato per descrivere l’Unione Sovietica sia rapidamente mutato. Ovviamente, nessuna persona sana di mente vorrebbe una restaurazione di un sistema del genere. Allo stesso tempo, tuttavia, la retorica è cambiata quasi nel giro di ventiquattr’ore: dall’affermare che «un controllo sull’economia dall’alto verso il basso senza le libere forze di mercato non avrebbe potuto competere in modo efficace sul piano economico e militare con le potenze capitaliste più avanzate», si è passati al decretare con sicurezza assoluta e sprezzante che «il comunismo semplicemente non funziona», ovvero che un simile sistema non sarebbe mai potuto esistere. È una conclusione degna di nota, considerato che l’Unione Sovietica era in effetti esistita per oltre settant’anni e che nel giro di qualche decennio la Russia, dalla tremenda stagnazione in cui si trovava, era divenuta una delle maggiori potenze a livello tecnologico e militare.”

    David Graeber, La rivoluzione che viene

  • L’illusione del binomio liberismo-benessere

    Uno degli argomenti utilizzati più di frequente in difesa del sistema neoliberista è che garantisce il massimo benessere alla maggioranza della popolazione, infatti la nostra cultura e il nostro modello economico ci fanno star bene, qui nonostante tutto quasi tutti hanno l’indispensabile per vivere e abbiamo garantiti diritti civili il cui rispetto è impensabile in altre parti del mondo, dove pullulano teocrazie e governi formati da gerarchi e dittatori senza scrupoli.

    Quante volte si sente dire «non si sputa nel piatto da cui si mangia! Il sistema che tu critichi, intanto, ti garantisce la libertà di espressione, una certa sicurezza e una serie di diritti e comodità che nella solo  esso è in grado di dare»?

    In realtà, dall’adozione di un modello neoliberista non segue esattamente l’istaurazione e la maturazione degli Stati di diritto, quelli in cui tutti i cittadini, dal primo all’ultimo, sono uguali davanti alla legge, la libertà individuale è tutelata e l’agire dello Stato è vincolato dalle sue stesse leggi. Mettendo per un attimo da parte la constatazione che ciò, anche nei cosiddetti Stati di diritto, non sempre avviene, e che anzi in alcuni paesi (come l’Italia) la violazione di tale principio è sistematica, cerchiamo di capire che, dopo tutto, noi occidentali ce la passiamo piuttosto bene (o almeno così è stato finora) rispetto a un contadino nigeriano, brasiliano o bengalese che ogni anno deve far fronte alla siccità, alla desertificazione, al disboscamento o all’inquinamento rischiando di non avere niente da mangiare e morire di fame.

    Smontare la convinzione che il liberismo implichi benessere è facile: infatti tale implicazione nasconde un inganno, che dipende dall’illusione che il mondo finisca ai confini con l’Asia e l’Africa. Mi spiego meglio usando una semplice considerazione di natura termodinamica.

    (Potreste aspettarvi un’applicazione del secondo principio della termodinamica, considerando che la Terra è limitata ma il sistema economico teorizza la crescita; ma la mia osservazione sarà molto più banale.)

    Il binomio liberismo-benessere si potrebbe accettare se il mondo si esaurisse al confine italiano o ai confini dell’Europa: in tale ipotesi, potremmo guardarci intorno e osservare che la maggioranza delle persone ha tutto ciò che gli serve, cibo, vestiti, casa, addirittura un mezzo di trasporto, e potremmo concludere che l’attuale stato di cose è preferibile a qualunque altro, che tende all’utopia dell’uguaglianza e del benessere totale, che è vero che il nostro sistema economico fa star bene tutti. Ma non siamo soli, né possiamo dividere il mondo in due mondi, uno formato da Stati di diritto che adottano il libero mercato, l’altro da Stati dittatoriali che non lo adottano.

    Nella scienza, che parte sempre dall’osservazione, si divide l’universo in sistema e ambiente, il primo è oggetto dell’osservazione e dello studio, il secondo è tutta la parte di universo che non è sistema. L’inganno che porta alla corrispondenza tra liberismo e benessere per tutti deriva da una scelta parziale del sistema di osservazione. Infatti, piuttosto banalmente, scegliendo come sistema l’occidente (quello noto con l’odiosa espressione Primo mondo) la corrispondenza è vera: il liberismo ha portato benessere alla maggior parte delle persone. Ma, come già detto, non siamo soli e non esiste nessun primo, secondo, terzo o quarto mondo: esiste un mondo solo e dentro ci siamo tutti. Prendendo come sistema di osservazione il mondo intero, si scopre ancora più banalmente che il liberismo non porta al benessere della maggioranza, ma al benessere di una minoranza sulle spalle di una maggioranza povera e sfruttata.

    Lo stesso vale per il rispetto dei diritti umani e per la garanzia della libertà individuale: sebbene siano variabili omogenee all’interno del sistema occidente, non lo sono affatto nel sistema mondo.

    Allora ciò che deve essere chiaro è questo: che il libero mercato non crea Stati di diritto, crea Stati di diritto e Stati dittatoriali fantocci degli Stati di diritto, e a lungo andare assoggetta tutti gli Stati, di diritto e non, al mercato e al potere del capitale.

    Un esempio che valga per tutti è il caso della Nigeria, in cui da decenni multinazionali come la Shell e l’Agip sfruttano le risorse petrolifere del paese senza che i popoli locali ne traggano alcun beneficio, derubandoli della ricchezza nazionale e danneggiando i loro territori, spesso non più adatti alla coltivazione a causa dell’inquinamento legato alle raffinerie e ai pozzi. Contro un’ingiustizia e un furto di ricchezza di tale entità, oltre che per bisogni materiali di sussistenza, sono nate diverse organizzazioni (quali NDPVF, MEND, MOSOP) che intendono colpire il profitto e porre fine allo sfruttamento da parte delle multinazionali.

    Tale movimento culminò in Nigeria nel 1993, con una manifestazione di centinaia di migliaia di persone e la guida dell’attivista Ken Saro-Wiwa. Il movimento era diretto anche contro il governo militare, responsabile di scelte in materia economica che favorivano le multinazionali.

    Dietro pressioni della Shell, ormai accertate, Ken Saro-Wiwa e altri attivisti furono incastrati con un’accusa di omicidio basata su false testimonianze, incriminati e impiccati il 10 novembre 1995, dopo un processo di dubbia regolarità che attrasse l’attenzione di molti movimenti per i diritti umani.

    Ditemi voi se questo è il rispetto dei diritti e delle libertà individuali che il liberismo dovrebbe garantire, se il liberismo ha portato benessere alla maggior parte del popolo Ogoni in Nigeria: i poveri e gli sfruttati nel mondo sono la maggioranza.

    Se posso comodamente uscire e comprare al supermercato ciò che mi serve invece di produrlo (e il processo di produzione è nascosto il più possibile e rimosso dalla coscienza collettiva dei consumatori occidentali, con il preciso obiettivo che non si facciano nessuno scrupolo a comprare; a proposito, all’inizio degli anni novanta, da un’indagine svolta a New York, risultò che la metà dei bambini era convinta che il latte fosse un prodotto industriale completamente artificiale, alla stregua della Coca-Cola o del chinotto. Lascio a voi le considerazioni.) non è perché con il liberismo tutto è più comodo per tutti, ma è solo perché qualcun altro, lontanto geograficamente da me ma unito a me dagli stessi rapporti di produzione, lavora per me come uno schiavo e fatica al posto mio.

    Se non soffro la fame non è perché il liberismo dà cibo a tutti, ma perché lo toglie ad alcuni per darlo ad altri, quando invece basterebbe per tutti.

    È per questo che, anche se non lo sai, voti ogni volta che compri. Nella società di massa del consumismo l’atto dell’acquisto è un atto importante più del voto, e se non si vuol essere complici di violazioni dei diritti umani, di guerre e omicidi, di sfruttamento, di furti e devastazione delle risorse, non restano che due possibilità, proprio come nel voto: o l’astensione, che si traduce nell’autoproduzione, o il consumo critico e consapevole, che si traduce nella riduzione dei consumi e nel boicottaggio.

    Ovviamente cercare di trarsi fuori dal problema con queste strategie non basta: non far più parte del problema non significa già far parte della soluzione, ma è un presupposto secondo me necessario.

    Probabilmente ho scritto una banalità dopo l’altra e niente che non si sapesse già, ma ho sentito l’esigenza di scriverle per ribattere a chi difende il libero mercato adducendo come giustificazione il benessere che a questo sarebbe connaturato.

    Viva la decrescita! (anche se quello della decrescita è un argomento controverso che mi lascia perplesso su alcuni punti e su cui presto scriverò qualche considerazione)

  • La manovra di Ferragosto e la shock economy

    Da più parti e alle persone più inaspettate sento pronunciare commenti e apprezzamenti del tipo «per una volta mi trovo a dire che il Governo mi è piaciuto!» che dimostrano definitivamente quale sia la percezione della crisi nell’immaginario collettivo costruito sapientemente dietro controllo mediatico: la crisi viene percepita come se fosse un fenomeno naturale e una calamità inevitabile. Se un terremoto colpisce il territorio abruzzese o una tromba d’aria devasta la costa ionica del catanese, che colpa può averne il governo, la burocrazia o chiunque altro? Lo stesso ragionamento, grazie ai martellamenti continui del pensiero unico attraverso ogni canale di informazione, si impossessa automaticamente della mente di tanti, che di fronte a una crisi finanziaria si convincono di avere a che fare con una crisi sismica. Ma come potrebbe questo non accadere dal momento che è proprio l’inevitabilità il carattere di una crisi che tutti ci dicono piovere dall’alto?

    Bene, voglio svelarvi un segreto: la crisi non è inevitabile né imprevedibile, è connaturata al sistema economico liberista e dunque è inevitabile solo finché non si mette in discussione il sistema stesso e si parla del liberismo come se fosse lo stato di natura (eppoi certo che la crisi sembra un fenomeno naturale!). Mi sembra invece che la manovra di Ferragosto decretata dal governo non faccia altro che ribadire la sua supremazia, o meglio la sua unicità nel panorama politico, visto che l’opposizione (tre volte virgolettata) ormai non fa più neanche ridere (Bersani: «è ora che la crisi la paghi chi non l’ha mai pagata!» ma senza dire chi, perchè il Pd ha paura).

    Beatificazione del contratto di Mirafiori, liberalizzazioni (finirà come l’Argentina?) in barba allo spirito referendario (ma tanto lo sapevamo che sarebbe finita così!), festività accorpate o addossate alle domeniche per guadagnare qualche giorno di produttività nei prossimi anni (ma il turismo in Italia vive dei ponti), dal prossimo anno si lavorerà il 25 aprile e il primo maggio (ma proprio quest’ultima cosa, siamo sicuri che l’abbiano chiesta l’UE e la BCE?)

    Non voglio entrare nei dettagli, perchè so di non averne le competenze necessarie, mi piuttosto dico: tutti contenti della manovra, ma nessuno pensa alla shock economy? In tanti sono disperati ma rassegnati, perchè «tutti dovremo fare qualche sacrificio». Ma se una banca fallisce, perchè il sacrificio lo devo fare io e non chi l’ha fatta fallire? E comunque, mai sentito parlare di shock economy? Si approfitta di un disastro (le cui cause peraltro in questo caso hanno un nome e un cognome) per far passare leggi e norme che non avrebbero mai il consenso popolare; dopodiché quelle norme rimarranno in vigore, per quanto possano sostenere i difensori dell’austerity, in buona o cattiva fede. O vi risulta che le leggi antiterrorismo degli anni di piombo siano state ritirate? E le straordinarie misure di sicurezza repressive della war on terrorism? Sono ancora là. E i cittadini del New Orleans che dopo l’uragano Katrina scoprono che non avranno mai più scuole e ospedali pubblici? Si può continuare a lungo l’elenco di episodi in cui il potere ha approfittato di situazioni di crisi per approvare delle scelte che mai la popolazione accetterebbe.

    Allo stesso tempo mi chiedo se non sarebbe più socialmente giusto e più sensato ed efficace far pagare l’ICI alla Chiesa Cattolica; tassare i patrimoni sopra il milione di euro; combattere l’evasione fiscale; tagliare drasticamente le spese militari; ritirare i soldati italiani dall’Afghanistan e dalla Libia; abolire tutte le province.

    Ma questo la «losca confraternita dei borghesi produttori di profitto» (sic!) non lo farà mai.

  • La fine delle ideologie

    Ogni tanto, quando qualcuno dice qualcosa che finalmente abbia un senso, lo si taccia di ideologia, che nel linguaggio dei giornali, dei parlamenti e dei salotti è una parolaccia, pari a demagogia. L’ideologia è, per costoro, la maggiore causa del «rifiuto di ogni idea di innovazione» (vedi per esempio in Val di Susa), il capriccio di chi non vuole la crescita economica, di chi ha la testa nel mondo delle nuvole o dei sogni e non riesce ad approcciarsi alla realtà in con realismo politico, senza mitizzazioni. Per inciso, mi sfugge, allora, il perchè non dovrebbero puntare il dito anche contro Mazzini accusandolo di aver fatto dell’ideologia, ma questa è un’altra storia di cui ho già scritto di recente.

    Il messaggio che passa sugli schermi da quando il muro è caduto è che l’ideologia fa male, è per le persone con una mente chiusa, che sono incapaci di accettare qualsiasi cosa che cozzi con essa e i suoi dogmi. E questo nulla ideologico, questo vuoto di idee è proprio ciò che di più utile esiste per garantire un sano trasformismo. Per esempio, ma se n’è già parlato fin troppo, in Italia non c’è nessuna contrapposizione ideologica tra i partiti, anzi tra quelli che ancora conservano a parole una posizione ne emergono altri scandalosamente trasformisti e privi di qualunque programma e collocazione; in Spagna il PSOE attua «contro la crisi» le stesse misure che attuerebbe qualunque altro partito del parlamento spagnolo, compreso il Partito Popolare suo acerrimo avversario elettorale; in Grecia un socialista taglia il welfare nell’applicazione pratica di quella shock economy di cui scrive Naomi Klein; torniamo in Italia e tanto il Pd quanto il Pdl traboccano di imprenditori che da quando sono stati eletti (ma che dico, nominati!) hanno visto aumentare vertiginosamente il proprio reddito dichiarato. Se la caduta delle ideologie significa questo, allora converrebbe tornare sui propri passi e riabbracciare un po’ di sana ideologia.

    Ma converrebbe tornare sui propri passi in ogni caso, perchè quella che chiamano fine delle ideologie è in realtà l’inizio dell’Ideologia. Se gli ex-comunisti sono azionisti della Goldman Sachs e sostengono le guerre imperialiste in Libia e Afghanistan, forti del supporto mediatico di un cartello di testate che hanno spostato l’opinione pubblica a favore dell’intervento; se nessun governo italiano, di alcun colore, ha avuto la volontà di varare delle norme sul conflitto di interessi; se tutti in Occidente parlano ormai di crescita economica come se fosse la cosa più naturale del mondo; se Marchionne può fare il cazzo che gli pare, questo lo dobbiamo non alla fine delle ideologie ma all’affermazione totale e capillare del neoliberismo. Bene, vorrei informare chi crede alla favoletta della mano invisibile che il liberismo è un’ideologia, con le sue mitizzazioni e le sue idealizzazioni, come quella del self-made man, della crescita e delle missioni di pace, e con i suoi martiri, i suoi ideologi, i suoi eroi e le sue vittime.

    Quindi, quando in mezzo a questa bolgia di automi indemoniati e ipnotizzati qualcuno dirà qualcosa che abbia un minimo di senso, non fate come i giornali, i parlamentari e quelli dei salotti, non additatelo né accusatelo di essere «ideologizzato», ma rispondete citando Hemingway: «non possiamo raggiungere le stelle ma ci servono per tracciare la rotta». E ricordate, poi, che le stelle a volte sono state raggiunte.