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  • La dignità del vivente

    Lo scorso dicembre, il podcast francese di ecologia politica Le monde d’après ha intervistato Alessandro Pignocchi, militante del movimento dei Soulèvements de la Terre conosciuto nei mesi successivi per aver organizzato la manifestazione del 25 marzo 2023 a Sainte-Soline. Ho trascritto, riadattato e tradotto l’intervista nel testo qui sotto, che è stato pubblicato su Jacobin Italia.

    Il 21 giugno, il governo francese ha ufficializzato la procedura di scioglimento dei Soulèvements de la Terre, movimento ecologista radicale, conflittuale e di massa che conta più di 140.000 simpatizzanti e quasi 200 comitati locali, assurdamente accusato di «ecoterrorismo» nel contesto della spirale repressiva degli ultimi mesi che ha visto un inquietante deterioramento della libertà di espressione, segnalato anche dall’Onu. Il movimento, nato nel 2021, è stato all’origine di decine di azioni dirette di massa negli ultimi due anni (occupazioni di terre, sabotaggi, «disarmo» di impianti e stabilimenti nocivi per l’ambiente) ed è stato capace di federare attorno a obiettivi materiali e concreti una grande rete di associazioni, collettivi, sindacati, gruppi militanti, personalità del mondo culturale, intellettuale e artistico.

    Alessandro Pignocchi è uno di questi: fumettista con un passato da ricercatore in scienze cognitive e sociali, ha scritto di recente, insieme all’antropologo Philippe Descola, il «saggio illustrato» dal titolo Ethnographie des mondes à venir. Il podcast francese Le monde d’après, che si occupa di questioni legate all’ecologia politica, lo ha intervistato. In questa traduzione si toccano le principali idee politiche e strategiche dietro alle pratiche di azione diretta del movimento ecologista in Francia.

    Nel libro, appoggiandovi all’antropologia, dite che il sistema oggi egemonico, il capitalismo con gli Stati-nazione, è un incidente di percorso nella storia dell’umanità.

    Le strutture in cui si cresce, si riceve un’educazione, si vive, tendiamo a considerarle universali e indiscutibili, e spesso non abbiamo neanche gli strumenti per riflettere su di esse. L’esempio più classico di cui parla l’antropologia è la distinzione tra natura e cultura, l’idea che esiste qualcosa là fuori, chiamata natura, che sia una realtà oggettiva distinta chiaramente dalla cultura e dalle attività umane. Solo osservando quanto mostrato da studiosi e da popolazioni che si organizzano in tutt’altro modo, che non hanno nemmeno un vocabolo per esprimere ciò che noi chiamiamo «natura», ci si accorge che le cose potrebbero essere differenti.

    Un’idea è pensabile e criticabile solo se si riesce a immaginare il suo contrario: ciò è vero per la distinzione natura-cultura, ma anche per lo Stato-nazione o il capitalismo. Per fortuna esistono la storia, l’antropologia, l’archeologia, tutte discipline la cui funzione è dare a una società la percezione della relatività dei propri valori, del fatto che le strutture potrebbero essere diverse. Non sono semplici esercizi di immaginazione, ma forme di organizzazione sperimentate di fatto da altri popoli altrove nel mondo o in altri momenti della storia.

    Nel libro chiamate «naturalismo» la distinzione tra natura e cultura. Perché è un problema distinguere cultura e natura?

    Non è necessariamente un problema in sé. Il problema è che distinguere nettamente le società umane dagli altri esseri viventi e dai fenomeni naturali, e soprattutto attribuire a questi ultimi uno statuto di oggetto, ha avuto magari alcuni risvolti positivi (per esempio ha dato un impulso allo sviluppo delle scienze moderne) ma anche un certo numero di inconvenienti: è infatti una condizione dello sfruttamento e della devastazione capitalista del mondo, poiché crea una vasta categoria di oggetti da cui si può attingere risorse e materiale senza alcuna remora, senza alcun dovere di reciprocità. Si tratta di un comportamento che alla scala della storia dell’umanità è estremamente insolito: gli altri popoli del mondo non tendevano a considerare gli esseri non umani come materia inerte. Questo è il problema contingente della crisi ecologica: non la distinzione tra natura e cultura, ma le idee che la presuppongono, che si materializzano in istituzioni e fatti sociali. Esistono poi altri problemi, in particolare la povertà dei modi di relazione che produce nei confronti di piante, animali e luoghi di vita: o li si sfrutta, considerandoli come risorse, o li si protegge, ma la protezione «all’occidentale» è anch’essa un modo di relazione relativamente povero che si limita più o meno alla contemplazione estetica, e in ogni caso li si considera come oggetti il cui valore deriva dai servizi che possono renderci.

    Nei rari luoghi dell’Amazzonia in cui il capitalismo e il naturalismo non sono ancora penetrati profondamente, le piante e gli animali sono considerati soggetti, esseri con una propria interiorità, e dunque i modi di relazione con essi sono relazioni sociali: con loro si discute, si patteggia, ci si sente in dovere di reciprocità; tutte le attività di sussistenza come caccia, raccolta, agricoltura, si realizzano secondo modi di relazione diplomatici: si devono continuamente risolvere conflitti d’uso, morali, negoziando in maniera più o meno ritualizzata per andare d’accordo con i coabitanti non umani. In termini di rappresentazione, d’emozione, di coinvolgimento sono molto più ricchi di una semplice relazione d’uso, il che apre a maniere di stare al mondo più intense e felici rispetto a quando ci si limita al semplice sfruttamento o alla contemplazione.

    Noi non sosteniamo ovviamente che si debba diventare animisti come i nativi dell’Amazzonia, ma che si debba abitare il mondo secondo istituzioni, differenti dalle nostre, che ci porterebbero a tenere spontaneamente conto degli interessi della foresta, delle praterie, degli animali di allevamento, eventualmente degli animali cacciati, degli animali selvatici e di quelli domestici. Il punto è politicamente importante perché se si critica il naturalismo, nel senso di natura oggettificata, in cui i soggetti sono dalla parte delle società umane, solo quando si criticano le responsabilità umane per la crisi ecologica si entra in azione per «evitare il peggio»; invece è molto più forte lottare non per evitare il peggio, ma per andare verso un meglio. Sono modi d’azione più forti di quando si reagisce semplicemente all’ansia e alla paura della catastrofe.

    Come si possono avere relazioni diplomatiche con persone che non sono della nostra stessa specie?

    Non è scontato per noi che viviamo in un mondo in cui la diplomazia è un fatto sociale e il sociale riguarda esclusivamente gli esseri umani, ma dopo tutto l’idea non è così assurda. Nel luogo a cui ci ispiriamo, la ZAD di Notre-Dame-des-Landes, si può dire che in generale chi ci abita mantiene delle relazioni diplomatiche con gli esseri non umani: quando si tratta di scegliere quale albero tagliare nella foresta di Rohanne, si pensa agli interessi delle attività agricole, al bisogno di legno, ma anche e altrettanto seriamente a questioni di rigenerazione della foresta, per esempio facendo spazio per permettere la ricrescita di altre specie, per creare una maggior diversità e una foresta più ricca; quando chi alleva si chiede su quale prato far pascolare le pecore, le sposta dove il giunco comincia a invadere e trasformarsi in foresta; e lo stesso vale per il modo di trattare gli animali allevati. Magari il termine «diplomazia» è un po’ pesante, ma sono gli interessi di questi esseri in quanto soggetti a essere spontaneamente presi in considerazione. Per noi, le piante coltivate e gli animali allevati sono pura risorsa, sono «animali-materia» per dirla con Charles Stépanoff, e le piante sono ancora più oggettificate. Al contrario presso altri popoli fin dalla prima infanzia si ascoltano i racconti dei genitori, si osservano comportamenti in cui le piante coltivate, per esempio, sono considerate dalle donne come dei figli. Esistono tanti altri modi di interazione molto più sofisticati, tanto con gli animali cacciati nella foresta quanto con le piante coltivate: sono interlocutori con i quali si discute, si tratta. Ovviamente noi non proponiamo di metterci a credere che le pecore e gli alberi della foresta di Rohanne possano venire a trovarci in sogno per chiederci questo o quello, ma di costruire un ambiente in cui le attività umane di abitazione, di sussistenza, siano pensate collettivamente considerando gli interessi degli esseri non umani con cui coabitiamo, formulati ed espressi dalle persone che sono a diretto contatto con la foresta e con le greggi. Non si può conoscere con precisione cosa sia l’interesse di un albero o di una pecora, ma esistono a grandi linee direzioni che si possono immaginare, senza prendere troppi rischi, come buone e da favorire. Per esempio, il criterio della diversità: una foresta non tende mai da sola alla monocoltura, l’interesse di un ecosistema è di essere più diverso possibile.

    “Non difendiamo la natura, siamo la natura che si difende” – Vignetta dal fumetto La recomposition des mondes di Alessandro Pignocchi

    Affermate nel libro che anche se a volte abbiamo dei rapporti affettivi con soggetti non umani, per esempio parlando con un gatto, un uccellino o una pianta, ciò «non viene istituito». Come si può andare verso un’istituzionalizzazione?

    Nella nostra società, anche se esiste una legittimazione della relazione con gli animali domestici, quest’ultima costituisce un’eccezione: effettivamente con loro si discute, si hanno rapporti empatici, ma in generale le istituzioni su cui si articolano le grandi dimensioni del nostro rapporto col mondo, in particolare le nostre attività di sussistenza, sono estremamente oggettificanti. L’agricoltura industriale che nutre la maggior parte di noi non si pone certo la questione dell’interiorità degli esseri non umani. La tendenza generale che consiste ad attribuire un’interiorità a piante e animali, che manifestiamo soprattutto con gli animali domestici e che i bambini hanno molto più forte degli adulti, è qualcosa che crescendo impariamo a inibire, perché in generale in Occidente abbiamo plasmato istituzioni oggettificanti e non solo rispetto agli esseri non umani ma anche rispetto agli esseri umani. Le istituzioni economiche sono la forza oggettificante per eccellenza: per una struttura come il nostro mondo, dominato dalle regole del gioco economico, ogni essere, ogni ora di lavoro, ogni oggetto deve poter entrare nel mercato con un valore numerico, un valore di mercato, ed essere scambiato con qualunque altro oggetto. Si possono scambiare solo degli oggetti: a partire dal momento in cui ti accordo un’interiorità, non sei più scambiabile con un’ora di lavoro o con un oggetto o con una somma di denaro. Per un bambino che cresce in una grande città all’inizio è senza dubbio un po’ strano passare le giornate a scavalcare persone senza fissa dimora come se fossero meri ostacoli. Lo stesso vale per qualunque imprenditore o dirigente politico: imparano a oggettificare, devono inibire le proprie facoltà soggettivanti per trattare gli esseri umani che dominano come semplici oggetti, parametri di un’equazione senza un’interiorità. Vediamo lo stesso con l’allevamento: molti piccoli allevatori si avvicinano al mestiere per avere relazioni ricche e dense con gli animali, ma presi nella morsa del gioco economico hanno un vincolo di profitto, devono ingrandirsi e rendicontare e a poco a poco devono maltrattare gli animali e inibire sempre di più le facoltà empatiche che li avevano spinti all’inizio a entrare in quella attività, fino a trovarsi in un rapporto puramente oggettificante. Cito nel libro un allevatore di vacche che una volta oltrepassate le cinquanta vacche ha smesso di chiamarle per nome, per non impazzire. 

    Come cambiare queste istituzioni non è affatto scontato: strutturano praticamente tutto il nostro mondo da almeno due secoli. La sfera economica, il fatto che l’insieme delle nostre scelte sia determinato da questioni di profitto, è la prima cosa di cui disfarsi. Nella ZAD di Notre-Dame-des-Landes attraverso il mutualismo, la pratica dei beni comuni e l’attuazione di una forma di autonomia alimentare e politica, la morsa della sfera economica si allenta e ci si può offrire il lusso di pensare l’insieme delle attività che organizzano il territorio non più secondo criteri di profitto economico ma secondo ciò che si decide collettivamente in assemblee generali, considerando come soggetti non solo gli altri esseri umani ma anche gli esseri non umani, integrando i loro interessi alle decisioni collettive. L’esercizio di fantapolitica che proponiamo è di moltiplicare i territori di questo tipo. Appena si allenta un po’ la morsa dell’economia, è abbastanza ovvio considerare tutti gli altri esseri che abitano il territorio come co-abitanti, interlocutori, compagni di oppressione oggettificati dalle stesse forze statali e capitaliste: si hanno nemici comuni e solidarietà comuni.

    Scavo preliminare da parte del collettivo Naturalistes de terre, per la realizzazione di uno stagno in cui possano trovare rifugio una serie di specie animali della foresta di Bord, vicino Rouen, durante la manifestazione del 6 maggio 2023

    Vorrei rimanere su quanto hai detto sull’economia. Nel libro, parlate di supremazia della sfera economica. Potresti spiegare cosa intendete dire?

    Sul piano materiale è semplicemente la creazione di un mercato del lavoro da parte della borghesia, dunque la proletarizzazione della popolazione. Il primo ingranaggio, la base perché si abbia un proletariato che metta la propria forza lavoro a disposizione della borghesia, è che la popolazione che lo forma abbia perso le condizioni della propria autonomia.

    Ci sono molti modi che gli Stati hanno usato e continuano a usare. Il principale è la privatizzazione della terra: quella terra che le popolazioni erano solite usare come bene comune, attingendo collettivamente a un insieme di risorse che permettevano loro di vivere. Dal momento in cui si disse «questo non vi appartiene più, a partire da oggi dovrete pagare per accedere o disporre della terra», non si ebbe più altra scelta se non andare a vendere la propria forza lavoro. Ci sono mille modi come questo usati per proletarizzare la popolazione. Nel corso del XVIII secolo, i fatti economici si distaccano e acquisiscono autonomia rispetto ad altri fatti sociali; allo stesso tempo, gli economisti e i filosofi teorizzano la creazione di una disciplina, l’economia, come sfera autonoma, un insieme di fatti sempre più indipendenti che assumono una posizione dominante sul resto della vita sociale: esiste il mercato, che si concepisce come dotato di vita propria, e i suoi alti e bassi determinano le decisioni politiche. Oggi si giustificano leggi oppressive, di impoverimento, perché sono al servizio del buon funzionamento economico del paese e della crescita: ecco la sfera economica che domina sul resto della vita sociale. Rimetterla al servizio della vita sociale significa tornare a sottomettere, com’è stato nella storia dell’umanità, tutte le decisioni che riguardano la sussistenza, l’abitazione, il vivere insieme, non a regole economiche astratte ma a decisioni collettive, decisioni politiche: ovvero, sottomettere l’economia alla politica.

    Parlate anche dell’idea di compensazione ecologica, secondo cui se si vuole distruggere un territorio, per esempio cementificandolo, bisogna compensare piantando degli alberi altrove.

    Questo è ciò che si chiama commensurabilità generalizzata: ogni cosa è commensurabile, cioè può essere schiacciata su un asse di valore unico secondo cui tutto si può scambiare. In un mondo economicizzato se distruggi un ecosistema da qualche parte ma poi costruisci altrove qualcosa di valore equivalente, allora va tutto bene. Ciò significa che i legami affettivi di una popolazione con quell’ecosistema non hanno alcun valore. Infatti, perché esista la compensazione ecologica, è necessario che la totalità dell’ambiente e dei suoi abitanti non umani siano degli oggetti, per poterli scambiare con altri oggetti a cui si attribuisce pari valore… ma ovviamente per una popolazione che è cresciuta lì, che ha intessuto dei legami affettivi e magari, come nel caso delle popolazioni indigene, dei legami simbolici estremamente forti, dire «sì, la distruggiamo, ma niente paura: ne costruiamo un’altra altrove» non ha assolutamente senso, sarebbe come dire «prendiamo un vostro familiare, ma niente paura: lo sostituiamo».

    Nel mondo a cui aspiriamo, non esiste uscita dalla crisi ecologica senza disfare queste istituzioni oggettificanti, in particolare quelle economiche. Si devono invece costruire collettivamente e con forza delle istituzioni soggettivanti. In un mondo del genere, la compensazione ecologica diventa qualcosa di completamente assurdo.

    Nel libro constatate il sentimento di impotenza politica di responsabili di Ong che non vedono più a cosa serve ciò che fanno, ma allo stesso tempo criticate l’idea di un capovolgimento rivoluzionario che non vedete all’orizzonte. Proponete una specie di sistema misto in cui ci sarebbero degli Stati ma anche delle comunità autonome.

    Le Ong e tutto il mondo dell’associazionismo si sono sviluppate sotto la socialdemocrazia, che è stata un periodo assai particolare: alla fine della Seconda guerra mondiale, per molteplici ragioni molto contingenti, le classi dominanti sono state inclini a fare concessioni. Bisogna prendere atto della fine di quel periodo: la socialdemocrazia ha essa stessa liberato le mani del capitale e sdoganato la possibilità dei movimenti internazionali di capitale. L’idea che l’argomentazione e la disamina scientifica possano influire sulle decisioni delle classi dirigenti deve semplicemente essere abbandonata, soprattutto ora che la crisi ecologica accresce ogni giorno gli antagonismi di classe: le classi dirigenti si sentono minacciate, pensano a mettersi al riparo e non certo a condividere le ricchezze.

    Un altro problema è l’idea relativamente diffusa che bisogna sensibilizzare più gente possibile. Ovviamente è sempre ottimo riuscire a sensibilizzare, ma oggi la priorità non è questa: ci sono persone sensibilizzate a sufficienza, che soffrono del proprio lavoro di merda completamente assurdo, privo di senso, distruttivo… la consapevolezza e il desiderio di trovare altri modi di sostentamento, non distruttivi e che permettano di avere relazioni più piene con gli altri esseri umani o non umani non mancano.

    Resta il capovolgimento rivoluzionario, il grande evento, e va benissimo continuare a pensarlo. Esistono tuttavia ragioni di dubitare della sua possibilità vista la potenza militare degli Stati e a che punto siamo diventati incapaci di organizzarci collettivamente. Abbiamo tutto da reimparare e l’idea di spazzare via le istituzioni per ricostruirle a tavolino, insieme, in armonia, sembra una prospettiva politica perlomeno azzardata. Provare a pensarci resta fondamentale, ma riteniamo che non possa essere l’unico orizzonte politico. Proponiamo una via alternativa che in effetti non è incompatibile con l’idea del grande evento: riprendersi i territori sfidando i modi di gestione della classe dominante, proponendo pratiche di organizzazione differenti. Invitiamo a pensare alle trasformazioni che tali territori autonomi potrebbero comportare per lo Stato. Non diciamo affatto che si dovrà segregare il territorio e che ci saranno da un lato territori autonomi che fanno la propria vita e dall’altro Stati che continueranno a esistere esattamente come prima. Diciamo che uno Stato che si trova, per un motivo o per l’altro, a dover convivere con dei territori autonomi non è più lo stesso Stato, perché i territori autonomi non sono compartimenti stagni, la popolazione si muove. Basandoci sull’antropologia e la storia recente, vediamo che in una vasta zona dell’Asia del Sud-Est la coabitazione tra Stati e territori organizzati ai loro margini era tipica, e negli ultimi 20.000 anni della storia dell’umanità questa era una situazione estremamente normale. Dei territori autonomi offrirebbero alle popolazioni che vivono sul territorio dello Stato una sorta di piano B: un altro modo di sostentarsi, di abitare, di nutrirsi, di vivere in società all’infuori dello Stato. Questo conferisce un potere di negoziazione, dei margini di manovra, che purtroppo l’organizzazione e la solidarietà operaia non riesce più a ottenere dagli anni Settanta quando gli Stati sono riusciti a distruggere il mondo del lavoro, a stroncare sul nascere ogni tentativo di sperimentare una potenza collettiva. Il tentativo di riprendersi le terre e di organizzarvisi diversamente è un’arma relativamente nuova che per adesso gli Stati gestiscono meno bene, per esempio, dei movimenti sindacali, e che avrebbe un potere di trasformazione potenzialmente molto grande: crea popolazioni estremamente mature sul piano politico, da alle persone che abitano sui territori dello Stato la possibilità di sperimentare qualcosa di diverso, traducendo in realtà prospettive altrimenti puramente astratte (e una prospettiva astratta non mobilita gli affetti allo stesso modo).

    Al contrario di quanto accusa una parte della sinistra più tradizionale, secondo cui si finirebbe semplicemente col farsi l’orto da qualche parte abbandonando il proletariato alla sua condizione, pensiamo invece che questi territori hanno delle virtù intrinseche e sono anche delle possibilità flessibili.

    Manifestazione a Sainte-Soline, 25 marzo 2023

    Com’è possibile che questi territori si mantengano considerato che gli Stati dispongono di una forza coercitiva enorme?

    Questo pone chiaramente un problema, ma immaginiamo una serie di situazioni in cui una coabitazione forzata fosse possibile. Per esempio, in una situazione di seria instabilità politica – come un movimento dei gilet gialli moltiplicato per dieci – lo Stato non avrebbe che una sola risposta, fortemente repressiva, e le classi dominanti avrebbero un mero comportamento di autodifesa, mentre tutte le strutture che avranno sviluppato con successo forme di solidarietà, di mutuo soccorso e di autonomia si troverebbero a sopperire a bisogni primari della popolazione, mantenendo condizioni di vita decenti, e da un tale periodo di instabilità si potrebbe uscire trovandosi in una situazione politica simile, al netto di alcune ovvie differenze, a quella conosciuta alla fine della Seconda guerra mondiale. Per esempio, se lo stato sociale si è affermato attraverso il voto è anche grazie al fatto che il Partito comunista usciva dalla guerra come resistente vittorioso, mentre i grandi industriali, seppure con qualche eccezione, si erano mostrati collaborazionisti. In una situazione simile tutte le forme di autonomia territoriale, di solidarietà locale, di movimento associativo, uscirebbero dalla crisi con tutte le virtù del caso, mentre lo Stato e i padroni sarebbero del tutto screditati e si troverebbero obbligati a riconoscere le strutture istituzionalizzate dei territori autonomi e soprattutto la loro creazione, estensione, organizzazione in reti. Ci sono poi altri scenari possibili, ma quella di costringere, in un modo o nell’altro, lo Stato, di questi tempi è in realtà una delle principali prospettive politiche che non è irragionevole avere.

    In effetti, mi sembra che si parli molto della possibilità di collettivi autonomi in campagna.

    Riunire e federare forme di solidarietà e mutualismo tra movimenti rurali, contadini e movimenti di occupazione urbana è una grossa sfida, ma esistono diversi modi. Il collettivo «Reprise de terre» si pone direttamente queste domande: gli orti urbani, la ripresa delle terre in città per permettere forme di sussistenza minima, sono cose che si sviluppano in parecchi posti. Nelle grandi città dell’America del Sud è così che la popolazione è sopravvissuta nel periodo delle restrizioni pandemiche… Potrebbe suonare come un semplice aneddoto ma non lo è: l’antropologia e la storia mostrano che in generale le popolazioni umane hanno sempre oscillato su base stagionale tra modi di vivere estremamente diversi, sia in termini di sussistenza che di organizzazione politica. Da qui possiamo immaginare movimenti di popolazione stagionali tra centri più urbanizzati e territori di produzione agricola in cui ciascuno in un modo o nell’altro potrebbe partecipare alle attività per una parte dell’anno. Nel prossimo futuro, sono sicuramente interazioni di questo tipo che bisogna immaginare e costruire.

    Alla fine del libro, difendete l’eterogeneità dei modi di stare al mondo, ovvero non difendete un modello che dovrebbe applicarsi ovunque.

    Riteniamo che un mondo vario e diverso sia più bello da vivere che un mondo noioso e uniforme. Un mondo in cui ci sia una sola regola del gioco, un solo modo di essere una persona valida, è un mondo completamente deprimente. Una proliferazione di territori con diversi modi di organizzazione politica, diverse maniere di sostentarsi e soddisfare i bisogni, diversi sistemi di valori, crea possibilità di emancipazione molto maggiori di un mondo uniforme in cui le condizioni di dominazione sono ovviamente più severe e violente che in un mondo in cui esistano molteplici possibilità di scelta.

    In generale insistiamo sul principio della diversità anche perché ci sembra un valore meno antropocentrico e etnocentrico di molti altri. Si può ritenere, senza correre troppo il rischio di proiettare e antropomorfizzare, che la diversità è anche nell’interesse degli ecosistemi, degli ambienti di vita. Ci sembra insomma un valore con un buon numero di virtù e possiamo forse considerare la diversità come l’unico valore veramente universale, da prendere come presupposto per pensare tutto il resto.

    L’otarda di legno che ha aperto uno dei tre cortei di Sainte-Soline, 25 marzo 2023
  • Raffigurare la rivoluzione delle donne: corpi che interagiscono con le immagini

    Ho tradotto questo testo originariamente scritto in farsi da L., una militante femminista iraniana, tradotto in inglese e pubblicato su Jadaliyya, sito di riflessione culturale e politica dello spazio tra l’Africa del Nord e l’Asia occidentale. In questa intensa testimonianza diretta, una donna della rivolta in Iran racconta l’esperienza politica sensibile dell’essere un’immagine di libertà: impossibile da catturare, centralizzare, dominare. La mia traduzione in italiano è poi stata pubblicata su Dinamopress.

    Donne che danzano sul viale Bandar Abbas

    La sollevazione in Iran: una rivoluzione femminista?

    Per Zhina, Niloofar, Elaheh, Mahsa, Elmira, e per tutte coloro di cui devo ancora pronunciare i nomi.

    Questo scritto è il tentativo di elaborare un’intuizione nata dall’esperienza diretta di un divario: quello tra il vedere foto e video di proteste online e l’essere presente in strada. È uno sforzo esplicativo del corto circuito che attraversa l’apertura tra queste due sfere – spazio virtuale e realtà della strada – in questo momento storico. [In un corto circuito, si stabilisce una connessione tra due parti di un circuito elettrico che può causare una corrente fino a migliaia di volte superiore a quella che ci si aspetterebbe per il circuito]

    Le proteste hanno raggiunto la mia piccola cittadina pochi giorni dopo essere scoppiate in Kurdistan e solo due giorni dopo Teheran. Per diversi giorni, sono stata esposta a video che ritraevano le proteste della gente in strada, le loro canzoni, le foto e le figure delle manifestanti. Mercoledì, mi sono infine trovata io stessa nel mezzo di una protesta di strada. I miei primi momenti “lì”, in strada, circondata da altre persone, sono stati stranissimi. Appena un giorno prima avevo guardato queste persone manifestare da dietro lo schermo del mio telefono, ammirandone il coraggio, commuovendomi e piangendo di fronte alle loro azioni. Ora mi guardavo intorno e provavo a sincronizzare le immagini della strada con la realtà della strada. Quello che osservavo coi miei occhi era molto simile a quanto avevo già visto sullo schermo, ma c’era un divario, uno scarto tra la me-spettatrice e la me-in-strada, e sono bastati pochi brevi istanti per rendermene conto.

    La strada non era più per me un luogo di paura, ma uno spazio ordinario [faza-ye ‘adi]. Tutto era ordinario, anche quando le forze di sicurezza ci hanno attaccate con manganelli, proiettili e taser. Non so bene come spiegare la parola “ordinario”, non saprei che altro termine usare. Lo spazio tra me e le immagini che avevo desiderato si era accorciato improvvisamente: io stessa ero quelle immagini. D’un tratto, mi trovavo in un cerchio a bruciare il velo come se lo avessimo sempre fatto. D’un tratto, prendevo coscienza di me stessa e mi accorgevo che la polizia mi aveva picchiata appena qualche attimo prima.

    L’esperienza reale di essere picchiata era molto più ordinaria di ciò che avevo visto sullo schermo.  Non c’era traccia del dolore che avevo immaginato guardando quei video.

    Quando il corpo subisce i colpi è “caldo” e non proviamo il dolore che ci potremmo aspettare. Avevamo visto diversi video di corpi crivellati di pallini di gomma, ma le persone colpite dicono che non sono poi così dolorosi o terrificanti.

    In strada, d’un tratto pensi che dovresti correre e ti accorgi che hai già iniziato a correre. Ti dici che ti dovresti accendere una sigaretta e ti trovi proprio lì, tra la gente, a fumare una sigaretta [1]. Il corpo si muove più veloce della percezione, le due cose non sono ancora sincronizzate. Penso che neanche la morte faccia paura a chi ha sperimentato l’essere in strada. L’esperienza della strada sospende il pensiero della morte, ed è questo che fa paura a chi, dall’altro lato, osserva: vedere persone pronte a morire. Siamo persone pronte a morire. Anzi, nemmeno pronte: piuttosto liberate dal pensiero della morte. Ci siamo lasciate la morte alle spalle, nell’intimo incontro con le nostre paure e nell’aver corso oltre, nel calore dei nostri corpi.

    Una volta ho ricevuto sonori applausi dopo essere sfuggita a un confronto con le forze di sicurezza ed essere corsa a riconfondermi nella folla. Camminando di notte verso casa, un fattorino in moto passando mi faceva il segno della vittoria o mi lanciava urla di incoraggiamento. Ero ancora assorta nell’evento: non ero pienamente cosciente del motivo dell’apprezzamento e dell’incoraggiamento. La mattina dopo, guardandomi i lividi allo specchio, i dettagli degli scontri mi sono improvvisamente ripassati davanti agli occhi. Era come se mi fossi di colpo ricordata di un sogno di cui non ero cosciente fino a un attimo prima.

    Il mio corpo si era raffreddato, la mia mente aveva cominciato a lavorare. Non ero semplicemente stata picchiata: avevo anche resistito e risposto con pugni e calci. Il mio corpo aveva inconsciamente reagito facendo ciò che avevo visto fare ad altri. Mi ricordavo i volti increduli delle guardie nel tentativo di sopraffarmi. Soltanto adesso, dopo un certo intervallo di tempo, la memoria aveva raggiunto il corpo.

    Per me, la differenza palpabile tra questa protesta e le proteste a cui avevo partecipato in passato è stata il passaggio dal “movimento di una folla” alla “creazione di una situazione”. Ogni volta, nel breve intervallo prima dell’arrivo delle forze della repressione, un raduno di dimostranti si formava intorno a una situazione per creare qualcosa.

    Con l’arrivo delle guardie, a seconda delle condizioni della strada e di quella delle vie circostanti, il raduno si disperdeva dopo lo scontro, ma solo per riformarsi in un altro luogo. Queste situazioni si creavano quando la gente bloccava una strada, bruciando un cassonetto al centro della carreggiata e immobilizzando il traffico. All’interno di questa finestra di possibilità, la folla non enorme ma determinata cercava rapidamente di creare una situazione. “E ora bruciamo il velo.” Una donna saltava su un bidone, fronteggiava il traffico bloccato e alzava il pugno, restando fissa in quella posa qualche istante. Un’altra donna saltava sul tetto di una macchina e sventolava il velo per aria. Alcune donne di mezza età restavano nel mezzo del gruppo dall’inizio alla fine, muovendosi subito per aiutare il rilascio di eventuali persone arrestate.

    La figura della donna che porta la torcia su Boulevard Keshavarz.

    Chiunque voleva essere parte della massa di immagini viste nei video delle proteste dei giorni precedenti e provenienti da altre città. In questi momenti, le persone che intonavano slogan erano pochissime. Potevo chiaramente vedere il loro “desiderio” [meyl] di diventare “quell’immagine” [tavsir],  l’immagine di resistenza che gli abitanti della mia città avevano visto nei giorni precedenti. Qui di seguito vorrei esplorare proprio questo “desiderio”, per rispondere alla domanda: cosa rende quello che sta accadendo una rivoluzione femminista?

    Come ho scritto, queste proteste non sono incentrate sulla folla ma piuttosto sulla situazione, non sugli slogan ma piuttosto sulla figura-immagine. Per chiunque, e intendo veramente chiunque, è possibile creare da sé un’incredibile e radicale situazione di resistenza, in un modo che lascia senza parole.

    La fiducia in questo “possibile”, questa abilità, si è diffusa capillarmente. Chiunque sa che sta creando una situazione indimenticabile con le proprie figure di resistenza. Le persone, soprattutto le donne – queste tenaci e determinate cercatrici dei propri desideri – stanno inseguendo con forza questo nuovo desiderio, ed esso stesso, in una catena di desideri, fa sempre più da innesco alla creazione di altre figure e situazioni di resistenza: voglio essere quella donna nella figura di resistenza che ho visto nella foto, dunque creo una figura.

    Le figure erano già presenti nell’inconscio delle persone che protestavano prima ancora di metterle in pratica, come se fossero state messe a punto per anni. Questa figura di resistenza, questo corpo immortalato in immagini, diventa, in fondo alla catena di innesco dei desideri, un’incitazione al desiderio di altre donne di mettere in atto le proprie figure. Sapeste che desideri sono stati liberati in questi giorni dalla casa-prigione dei nostri corpi di noi donne!

    Vorrei contrapporre il vettore di forza che mobilitava la folla nelle proteste del 2009, per esempio, ai punti di innesco di adesso, punti di eccitazione molteplici e sparsi nelle strade. Come l’orgasmo femminile, questi punti non sono né concentrati né limitati a un punto preciso nella strada/corpo. Se voglio chiamare questa sollevazione una rivolta femminista, devo cercare qualcosa aldilà del punto di partenza delle proteste, lo slogan “Donna, Vita, Libertà”, e la chiamata iniziale a radunarsi da parte delle militanti femministe.

    Oltre a queste cose, ciò che ha esteso la sollevazione in una forma femminile e femminista e che sveglia i desideri delle donne nel mondo intero, sono i diversi punti di stimolo figurativo nei corpi in rivolta: figure che le persone che protestano desiderano visibilmente diventare, tanto che non è più possibile scendere in strada senza assumere la figura di uno di questi corpi disobbedienti, ribelli, resistenti, che si tratti di stare sul tetto di una macchina, salire in cima a un cassonetto, bruciare il velo, liberare una persona arrestata, o sfidare le forze della repressione.

    Le immagini di altre donne che resistono, viste da noi donne, ci hanno fornito una nuova comprensione dei nostri corpi.

    Credo che la singolarità di questa resistenza femminista e del suo carattere figurativo hanno fatto in modo che, fin dall’inizio, a diventare iconiche fossero le istantanee, le fotografie, molto più che i video. Sono state pubblicate in quantità massiccia fotografie che ci hanno rese orgogliose e che si sono rapidamente impresse nella nostra memoria collettiva, tanto che si potrebbe scrivere la cronologia di questa sollevazione attraverso le immagini pubblicate ogni giorno. Fotografie che alimentavano la sollevazione e la spingevano in avanti: la foto di Zhina [Mahsa] Amini sul letto d’ospedale. La foto della famiglia di Zhina che si abbraccia, in lutto, all’ospedale.

    L’immagine delle donne curde al cimitero di Aychi mentre sventolano i propri veli. Cosa vediamo di tutta quella scena: l’istante in cui i veli ondeggiano in aria, sospesi. La foto della lapide di Zhina. La figura della donna che porta la torcia su Boulevard Keshavarz. La figura della donna che sta in piedi da sola in mezzo alla strada, di fronte all’idrante sulla rotonda Vali Asr. La figura della donna seduta. La figura della donna in piedi. La figura della donna che tiene un cartello a Tabriz, faccia a faccia con le forze della repressione. La figura della donna che si lega i capelli. L’immagine del cerchio danzante intorno al fuoco a Bandar Abbas. E così via, moltissime altre.

    L’immagine delle donne curde al cimitero di Aychi

    Cosa conferisce a una fotografia questo incredibile potere stimolante rispetto a un video? Il tempo imprigionato nella foto. Il tempo imprigionato rende la foto densa, portatrice dell’intera storia durante cui quel corpo è stato soggiogato. La sollevazione delle donne in Iran è una rivolta incentrata sulle foto. Che cosa amplifica questo tratto femminista e non lo lascia sparire? Oltre al nome di Zhina, oltre a “Donna, Vita, Libertà”, con un livello di repressione talmente pesante che spesso è persino impossibile che si formi una folla, sono le figure della resistenza delle donne, che continuano a fare di questa sollevazione una rivolta femminista.

    Questo tempo condensato rende inadeguata una narrazione lineare della storia e mette in luce, al suo posto, la situazione nella sua topologia: i gesti, i momenti, le micro-battaglie che combattiamo ogni giorno. Per quel momento e tutti quei momenti. Non per una narrazione generale, ma per ogni piccola cosa.

    [2] Per quei micro-momenti fugaci, per riprenderseli, per quel nodo alla gola, per quella paura, per quell’eccitazione, per quella parola, per quell’istante che ancora continua, che si è trascinato fino ad oggi, nascosto sotto la notra pelle, sotto le nostre unghie, nei nostri nodi alla gola. Il passato prossimo: questo è il tempo delle fotografie. Fa crescere il desiderio, riporta alla luce il passato, lo estende fino a un secondo fa e nel momento presente, consegna la lunga sequenza di istanti al prossimo momento, alla prossima foto, alla prossima figura.

    In effetti, ciò che contraddistingue questa rivolta come femminista è il carattere immaginifico: la possibilità di creare immagini che non necessariamente catturano l’intensità del conflitto, la brutalità della repressione, o lo svolgersi degli eventi, ma piuttosto sono portatrici della storia dei corpi.

    Una pausa, un’interruzione. Guarda questo corpo, osserva per intero la sua storia. Qui. La figura della donna che porta la torcia, portatrice autosufficiente di storia senza bisogno di riferimenti agli istanti precedenti o successivi. La storia di questo corpo non è raccontata in una sequenza temporale lineare su un video volto a rappresentare la repressione o lo scontro o l’azione, ma piuttosto si cristallizza in un istante rivoluzionario. Soffermati sul momento in cui la donna solleva il velo mentre brucia e fa il segno della vittoria: il movimento degli occhi attraverso la larghezza dell’immagine, il bagliore dei fari dell’auto dietro di lei, le mani alzate, il volto sorridente dell’uomo che sta alla sua destra, gli alberi lungo la strada. Una figura, stop. Non servono il prima e il dopo, perché la figura non è creata dentro una sequenza temporale lineare ma in un respiro, in una pausa storica: un momento in cui il cuore della storia smette di pulsare per il tempo di un battito.

    Questi momenti e figure sono autosufficienti nel rappresentare la storia della repressione dei corpi delle donne. Ecco la caratteristica distintiva di questa rivolta. La rivolta femminista di corpi e figure. Il carattere femminista di queste proteste sta nell’aprire alla possibilità di creare queste immagini figurative.

    Queste immagini-icone influenzano a loro volta il desiderio di riempire lo spazio con immagini simili. Ho assistito coi miei occhi al dispiegamento di tale desiderio. Corpi che volevano essere una precisa figura hanno realizzato di avere la capacità di diventare quella figura.

    Corpi che dunque si esponevano al pericolo, si gettavano nella mischia, assumevano quella posa. Su un terreno in cui esistono poche occasioni di prendersi lo spazio, cercavano la possibilità di creare momenti di resistenza.

    Avevamo già visto immagini di donne resistenti: per esempio, foto delle Unità di Difesa delle Donne (YPJ) nel Kurdistan siriano. La differenza tra quelle foto e le figure delle donne nelle recenti proteste è la centralità del volto nelle prime, contrapposta all’assenza di volti nelle seconde. La particolarità delle prime con armi e tenuta da combattimento, rispetto all’universalità delle seconde che indossano abiti di tutti i giorni. I primi piani dei bei volti nelle vesti della resistenza (il desiderio di chi fotografa) hanno lasciato posto a immagini di figure di resistenza (il desiderio del soggetto). “Voglio che tu mi veda così”: immagini di capelli sciolti e scoperti e di pugni chiusi, di corpi sui cassonetti e sulle automobili.

    Queste figure richiamano Vida Movahhed e le altre “ragazze di via Enqelab”. [3] Vida sembra essere stata un punto di svolta nella rappresentazione della lotta delle donne iraniane contro il velo obbligatorio. Un punto di partenza, lontano dai video dei “Mercoledì bianchi” incentrati sui messaggi e sui volti – più che altro selfie di donne che camminavano per strada spiegando la situazione e i loro desideri. [4] Vida Movahhed è diventata la figura condensata di tutti i video che altre donne prima di lei avevano girato e diffuso camminando senza velo. Al contrario di queste donne, lei rimaneva in silenzio, immobile, punto di transizione tra il video e la fotografia. Una transizione dalla narrazione di una scena ordinaria alla creazione di una situazione storica, il passaggio da una persona che si esprime su di sé e sul proprio desiderio a un’immagine fissa, silenziosa, figura di resistenza. Qui, l’immagine della donna che protesta si è sottratta alla sequenza temporale del video, si è distaccata dalla rappresentazione di una scena ordinaria ed è atterrata su un palco carico di performatività storica: figura di tutte le donne prima di lei e ispirazione per le tutte le figure di donne dopo di lei.

    Vida Movahhed su via Enqelab

    In un ciclo senza fine, immagini e figure si trasformano l’una nell’altra: le immagini pubblicate e diffuse stimolano l’immaginazione dei corpi, poi le persone scendono in strada non con i corpi che sono, ma con i corpi che possono e vogliono essere. Con la propria immaginazione. Il loro atto rivoluzionario è incarnare questa immaginazione. In effetti in questo legame strettto tra immagine e strada, realtà e rappresentazione si orientano reciprocamente. Il sogno/rappresentazione/personificazione può imporsi sulla realtà, diventando quell’immagine e allo stesso tempo accendendo il desiderio di altri corpi di diventarci. È una catena di immagini, “corto circuito tra strada e spazio virtuale”.

    Accanto a queste figure individuali, ci sono anche state figure collettive. Il cerchio che brucia il velo. La danza intorno al fuoco che da Sari ha raggiunto le altre città. Vediamo la ripetizione di figure collettive senza che sia più possibile determinare il luogo preciso in cui sono avvenuti gli assembramenti. Nei primi giorni delle proteste, circolava un breve video di un piccolo assembramento di donne a Paveh. Uno sparuto e solitario gruppo di donne che camminavano dal fondo della strada. Questo gruppo, il cui assembrarsi appariva estremamente pericoloso, mi sembrava molto simile i raduni di donne in Afghanistan. Quella situazione storica lega insieme due immagini, due collettivi.

    Molte immagini non nascono perché non sono prese. Molte non “prendono” perché non danno origine a una protesta. Perché dunque certe immagini riescono a “prendere” anziché essere passivamente “prese”? Le figure hanno preso perché erano lo specchio storico delle donne. Credo che più che la considerazione iniziale “Avrei potuto essere io al posto di Zhina” [ovvero: sarei potuta morire anch’io in custodia della polizia morale], l’immagine della donna che brucia il velo sulla macchina ha acceso un intenso desiderio del tipo “voglio essere anch’io quella figura”, il desiderio di esprimere quella figura di speranza, ed è stata quella figura che non solo ha acceso il desiderio ma ha condotto i corpi delle donne a esprimersi e raschiare via la ruggine [zangar] dallo specchio che avevano davanti. Questo desiderio è stato stimolato da un’immagine, ma è in virtù della storia portata da quel corpo che è sbocciato trasformandosi in desiderio rivoluzionario. È tale desiderio figurativo che è distintivo di questa rivolta femminista, è l’esplosione di una storia repressa, come un corpo messo al mondo dopo una gravidanza che abbiamo vissuto per anni.

    Le figure di donne politicamente attive che conoscevamo in precedenza soffocavano l’attivazione del potere politico e la sua distribuzione, perché mettevano in risalto i volti e i nomi delle militanti. Volti e nomi smorzano il potere che ha una figura di accendere i desideri di altre donne perché rendono la situazione di quella figura particolare, speciale, rispetto alla situazione generale delle donne. Adesso, la figura si è liberata del limite del volto: è generica, senza volto, coperta da una maschera, anonimizzata per ragioni di sicurezza; è un’immagine scattata da dietro, senza nome, anonima; è il corpo politico della donna a circolare adesso per le strade.

    Dalla bellezza del corpo alla suggestione della figura. Dal corpo imprigionato nella bellezza al corpo liberato nella figura. Non si tratta di una trasformazione del sé in un corpo ideale, ma della creazione di una nuova figura di resistenza in ogni momento e in ogni corpo. Se il corpo è stato acceso e prende ispirazione dalle figure precedenti di cui ha visto le immagini nello spazio virtuale, esso crea una nuova figura e a sua volta ne ispira altre per il futuro, in una catena di stimoli e ispirazioni. Questa figura ha liberato le donne dalla prigionia, nel corpo e nella sua oppressione storica, e ha permesso al corpo di fiorire nel suo risveglio, scoprendo appena adesso la possibilità e la bellezza della propria resistenza. Maturando una seconda volta.

    Riguardo alla firma dell’articolo: una volta la persona che amo ha deciso di intitolare un progetto “L”, che volendo potrebbe riferirsi a me. Assorbita nell’esperienza di questo spazio rivoluzionario, così simile all’esperienza dell’amore, vorrei mettere da parte la mia costante esitazione rispetto a questo riferimento a “L” per, invece, appropriarmene insieme al gesto del mio compagno. La mia firma di questo testo come “L” è un’appropriazione rivoluzionaria del suo gesto. Ciò non solo mi protegge dalle minacce delle forze governative ma anche mi libera nella mia idea di amore, proprio nel momento in cui i nomi sono diventati simboli (riferimento al nome di Mahsa Amini e allo slogan, più volte ripetuto e difficile da tradurre, “Il tuo nome è diventato un simbolo”.

    Mahsa Amini, il tuo nome è diventato un simbolo

    Note

    [1] Questa frase è estratta da un passaggio che ho scritto al mio compagno dopo aver visto un video virale dell’apertura delle porte della prigione di Qasr e la liberazione dei prigionieri politici alcuni mesi prima della Rivoluzione del 1979. Questo scrissi il 2 agosto 2020:

    «Stanotte ho visto su internet il video della liberazione dei prigionieri politici. Visto e rivisto. Non potrei essere io a pettinare i capelli di quella donna scostandoli dalla fronte? Come si può provare gioia? È così sfuggente il momento in cui provi qualcosa come un’ispirazione profonda, pensi di essere felice, ma non appena torni alla realtà ti accorgi che sei una persona che era felice una volta mentre adesso l’incapacità di concepire quell’emozione passeggera rende tutto incomprensibile. C’era così tanta gioia in quel video. Che atmosfera… Non serve dire nulla. Basta scostare la frangia di capelli dalla fronte che hai davanti per riconoscerla e realizzare che lei lì, e sei tu a rivelare il suo volto.

    Sei tu?

    Sì, sono io.

    Un volto per tutte. Un volto liberato le cui emozioni non sono state represse che piange e ride. Piange mentre ride, in una sorta di attacco emotivo. Un volto che non è in grado di distinguere la gioia da una situazione trasformata. Il momento in cui tutto fluisce, l’istante della rivoluzione: non un momento prima o un momento dopo. La situazione sospesa, di divenire. Come si può riconoscere qualcuno nella folla in un momento di rivoluzione? Quando ogni organo del corpo supera la coscienza di sé e i modi di essere che aveva imparato. Scostando i capelli e cercando un ricordo lontano. Un neo nero accanto all’orecchio destro. Poi ti dici che dovresti accenderti una sigaretta e ti vedi lì, a fumare una sigaretta. Dici: dovrei cominciare ad andare, e vedi te stessa nella folla. Sei stata sempre lì».

    Nelle attuali circostanze rivoluzionarie, sto rendendo questa mia lettera personale proprietà comune Questa lettera non appartiene più solo al mio amante ma a tutti i corpi che ho visto e tanto amato per le strade.

    [2] #barayeh (parola che significa “per” nel senso di “a causa di”) si riferisce a un’iniziativa su Twitter che ha avuto successo: migliaia di persone hanno scritto ciò che le spingeva a scendere in piazza e sostenere le proteste.  “Per” gli studenti a cui è stato negato il diritto di studiare. “Per” gli intellettuali uccisi. “Per” la felicità negata alla generazione della guerra. “Per” gli operai della fabbrica di Haft Tappeh. E così via, a migliaia. Il giovane artista Shervin Hajipour ne ha ricavato una canzone, dal titolo “Barayeh”, il cui testo consiste di una sequenza di queste frasi pubblicate su Twitter, e che si è diffusa a macchia d’olio diventando uno degli inni della rivolta. Le autorità hanno arrestato Shervin subito dopo la pubblicazione della canzone.

    [3] Vida Movahhed è una donna il cui gesto silenzioso contro il velo obbligatorio ha ispirato un’ondata di azioni simili poi conosciuta come “Ragazze di via Enqelab”. Alla fine di dicembre 2017, Movahhed si è arrampicata su un quadro elettrico all’incrocio di via Enqelab, ha legato il proprio velo a un bastone e l’ha lasciato per aria. Arrestata e condannata a un anno di prigione, è praticamente scomparsa dalle cronache ma la sua figura con il velo in cima al bastone è diventata un’icona visiva della disobbedienza civile delle donne.

    [4] I “Mercoledì bianchi” sono stati una campagna online lanciata nel 2017 da Masih Alinejad, in cui le donne registravano video nell’atto di togliersi il velo in luoghi pubblici in Iran e li mandavano a Alinejad che poi li pubblicava.

  • O noi o i nazisti

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    «Se noi non entriamo a quel punto arrivano le Albe dorate, gente che emula Hitler. Entrano i nazisti in parlamento con il passo dell’oca»
    Beppe Grillo in una dichiarazione del 15-12-12

    «Sembri un delegato del Movimento Cinque Stelle»
    Beppe Grillo a un candidato di Casapound Italia, movimento neofascista italiano

    In calce a un articolo (qui) che esprimeva il disappunto per la mancanza definizione politica del Movimento Cinque Stelle e la conseguente ipotetica compatibilità con omofobi e fascisti, circa sei mesi fa un grillino scrisse: «non riesco a capire se si abbia veramente paura di un M5S omofobo, o si tratti di un più comprensibile principio di precauzione».
    Dopo le ultime vicende, che saranno citate più avanti, risulta chiaramente che l’incapacità del mio interlocutore di comprendere il problema non solo sia il prodotto di una banale semplificazione della realtà, ma che addirittura il suo dubbio non abbia neanche senso: infatti, parlando di una qualche compatibilità tra Grillo, il M5S, l’omofobia e il fascismo, non si è ormai più nel campo delle ipotesi, bensì in quello della realtà fattuale. Ovvero: tale compatibilità è stata dichiaratamente espressa, senza ambiguità.

    Occorre tuttavia astenersi dall’additare immediatamente come “fascista” Grillo e il movimento da lui fondato, giacché si commetterebbe lo stesso errore di semplificazione e valutazione affrettata diffuso in diversi ambienti politici. Si propone dunque di seguito un’analisi il più possibile ragionata, che cerchi di considerare i presupposti e il contesto culturale in cui si sviluppa il fenomeno del grillismo, nonché le implicazioni teoriche e pratiche di quei presupposti.

    Il contesto è la crisi di rappresentanza e il presunto svuotamento delle categorie politiche tradizionali, due problemi a cui il M5S risponde chiaramente: al primo con l’idea di rappresentare i cittadini, categoria contrapposta al ceto politico, al secondo con l’asserzione di essere “né di destra né di sinistra” e per il superamento delle contrapposizioni ideologiche storiche.

    In questa prospettiva, se prima vedevo il grillismo come un contenitore vuoto riempito da ciò che più abbonda nella società, ovvero da tendenze che lo rendevano “passivamente” di destra, ora mi ricredo, in parte, su alcuni punti, e lo riconosco come una forza “attivamente” di destra, cioè per definizione politica anziché per omissione, riguardo ad alcune questioni.

    L’analisi del M5S sarà articolata in quattro parti:

    «L’antifascismo non mi compete»: anti-antifascismo del M5S
    «Da te non me l’aspettavo»: quando Grillo non urla
    «Questa è la democrazia»: il movimento come Stato
    «Questo movimento è ecumenico»: la concezione del popolo

  • Specchi di genere

    Pensavamo che la chiave della salvezza sarebbe stata la riforma di Mtv, Cnn e Calvin Klein.
    Naomi Klein, No logo

    Recentemente, in una discussione sull’importanza e l’attualità della componente femminista nei movimenti sociali, un mio amico ha sostenuto che per risolvere i problemi attinenti alla questione di genere sarebbe sufficiente il controllo dei mezzi di comunicazione di massa, televisione in primis, per sostituire l’immagine della donna da essi attualmente veicolata con una rappresentazione più paritaria, egualitaria e dignitosa, nel rispetto delle diversità e dei diritti.

    La convinzione che questa sia una soluzione al problema nasconde una concezione, a mio avviso, distorta del problema stesso. Pensare infatti che la parità dei sessi passi principalmente per la parità di rappresentazione di questi ultimi è illusorio, perché la rappresentazione della realtà non precede la realtà stessa. A scanso di equivoci con eventuali appassionati di filosofia che magari stanno leggendo, occorre precisare che questa affermazione non intende lanciare un dibattito sulla validità del materialismo, bensì dire che il modo in cui i generi sono rappresentati in televisione, in politica, nella società, non è che uno specchio della realtà. In altre parole, cercare di risolvere le questioni di genere ritoccando le immagini trasmesse in televisione sarebbe come cercare di cambiare aspetto pettinando, piuttosto che i capelli, la loro immagine riflessa allo specchio.

    Molte battaglie di movimento, non solo in ambito di genere, né solo nel meno ristretto ambito di identità (omosessuali, minoranze etniche e “razziali”), cadono nell’errore di puntare tutto sulla rappresentazione, e rivendicano variamente dei cambiamenti di immagine: per esempio, verso la fine degli anni Ottanta, il movimento studentesco statunitense e canadese abbandonarono rivendicazioni quali l’equità salariale tra i due sessi e il diritto al matrimonio tra omosessuali per abbracciare lotte per una maggiore presenza femminile nelle bibliografie universitarie e una maggiore visibilità dei gay in televisione. Secondo Naomi Klein, «da sempre si era dato per scontato che il principale handicap delle donne e delle minoranze etniche fosse l’assenza di modelli visibili in posizioni sociali di potere; inoltre, gli stereotipi propugnati dai media e radicati nella struttura stessa del linguaggio, avevano la funzione di rafforzare ulteriormente la supremazia del “maschio bianco”». Questa visione non è intrinsecamente errata, ma la funzione che tale visione assume può diventare deleteria per i movimenti nel momento in cui, in assenza di strategie chiare più ampie e, per dirla con Žižek, onnicomprensive, diventa lo strumento di lotta preponderante, riconducendo così quasi tutti i problemi sociali al ruolo sostenuto dai mezzi di comunicazione e di formazione che perpetuano stereotipi negativi o semplicemente tacciono su certe tematiche.

    Quando questo succede, le critiche sono rivolte principalmente alla rappresentazione, per esempio, delle donne all’interno delle strutture del potere e non più all’economia che sorregge quelle strutture; e «la prospettiva di cambiare qualche pronome e accogliere qualche donna e qualche membro delle minoranze in TV e nei consigli di amministrazione non mette realmente in discussione i principi di accumulazione del profitto» osannati a Wall Street.

    Questa tendenza è diventata sempre più importante con il processo di mediaticizzazione della politica, evidentissimo in Italia: sulla stessa linea si possono collocare i vari “movimenti” del panorama peninsulare che richiedono a gran voce «visibilità», convinti che l’obiettivo di una manifestazione sia ottenere le prime pagine e “farsi vedere”, o che la questione di genere si possa risolvere con la buffonata delle “quote rosa” (che in realtà sono un chiaro esempio di femmaschilismo). Quanto ci si metterà a capire che il problema non è spartirsi le fette della torta ma il fatto che le fette a disposizione sono sempre più piccole e il resto della torta finisce gradualmente nelle mani di sempre più pochi?

    Detto questo, devo ammettere che è abbastanza fastidioso imbattersi in schermate del genere (su http://www.peragendamonti.it/):

    agendamonti
    Secondo l’agenda Monti, la rappresentazione del ruolo della donna deve cambiare. Dall’immagine non sembra proprio.

  • «There is no alternative»

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    Verranno al contrattacco
    con elmi ed armi nuove

    (CCCP, Curami)

    Riporto di seguito uno stralcio dell’introduzione di un libro di Graeber, di cui ho già avuto occasione di parlare.

    “I nostri nemici sembrano riconoscere il potenziale di questi movimenti , la minaccia che pongono agli equilibri di potere globale, in modo molto più consapevole di quanto non facciano gli attivisti dei movimenti stessi.

    E se la ragione della depressione di coloro che vorrebbero vedere un mondo organizzato secondo un principio diverso dal capitalismo fosse che i capitalisti e i politici sono letteralmente ossessionati dall’idea di farci sentire depressi? Il capitalismo neoliberista è ossessionato in primo luogo dal dover garantire che «non c’è nessuna alternativa», come Margaret Thatcher dichiarava negli anni ottanta. In altre parole, è stato ampiamente abbandonato ogni sforzo di argomentare che l’attuale sistema economico sia in effetti un ordine valido, giusto o ragionevole, che si dimostrerà capace di creare un mondo in cui la maggior parte degli esseri umani vivrà in prosperità, sicura, libera di spendere ogni significativa porzione della propria vita alla ricerca delle cose ritenute veramente importanti.

    È molto interessante notare come, alla fine della Guerra Fredda, il linguaggio usato per descrivere l’Unione Sovietica sia rapidamente mutato. Ovviamente, nessuna persona sana di mente vorrebbe una restaurazione di un sistema del genere. Allo stesso tempo, tuttavia, la retorica è cambiata quasi nel giro di ventiquattr’ore: dall’affermare che «un controllo sull’economia dall’alto verso il basso senza le libere forze di mercato non avrebbe potuto competere in modo efficace sul piano economico e militare con le potenze capitaliste più avanzate», si è passati al decretare con sicurezza assoluta e sprezzante che «il comunismo semplicemente non funziona», ovvero che un simile sistema non sarebbe mai potuto esistere. È una conclusione degna di nota, considerato che l’Unione Sovietica era in effetti esistita per oltre settant’anni e che nel giro di qualche decennio la Russia, dalla tremenda stagnazione in cui si trovava, era divenuta una delle maggiori potenze a livello tecnologico e militare.”

    David Graeber, La rivoluzione che viene

  • Indignados di Spagna, un articolo di Adbusters

    Traduco e riporto un breve articolo pubblicato su Adbusters, associazione no-profit e agenzia di informazione indipendente, ambientalista, anticonsumista e anticapitalista canadese, famosa per aver lanciato l’idea di un’occupazione simbolica di Wall Street lo scorso settembre dando così origine al movimento Occupy (a proposito consiglio il numero di E-ilmensile di questo mese, incentrato su un’inchiesta dal titolo Occupy America che comprende un’intervista a Tom Morello, che beffardo propone: «se Obama chiude Guantanamo, è quello il posto per i responsabili dei crimini economici. Gli mettiamo una bella tutina arancione e gli facciamo ascoltare i Rage Againt the Machine tutto il giorno»).

    Marta Sánchez su ROARmag.org scrive che una “rivoluzione silenziosa” basata su tre innovazioni tattiche sta emergendo in Spagna dall’entroterra sociale. Ecco alcune delle sue intuizioni più profonde:

    –La decentralizzazione del movimento

    Al termine del maggio 2011, il neonato movimento 15-M doveva trovare un modo per continuare a vivere aldilà dell’occupazione di Plaza del Sol. Così prese piede l’idea di decentralizzare il movimento verso i quartieri: le iniziative “toma los barrios” (prendere i quartieri) hanno supportato e favorito la creazione di assemblee in ogni quartiere di Madrid. In tal modo, il movimento è divenuto locale: dalla creazione di quelle assemblee, il 28 maggio 2011, ne sono fiorite circa altre 120.

    –La comparsa di nuove iniziative sociali

    Una delle più fortunate azioni del movimento 15-M che le assemblee di quartiere hanno contribuito a coordinare è la campagna “stop desahucios” (blocca gli sfratti). Dall’anno scorso circa 200 sfratti sono stati evitati. Intanto, l’assemblea del quartiere Concepción, nel nordest di Madrid, ha una delle più grandi e meglio organizzate “banche del tempo”, coordinata via internet. Gli abitanti del quartiere possono creare un profilo online in cui condividono informazioni sui servizi che sono in grado di fornire, ed entrare in contatto con persone che offrono servizi di loro interesse. La transazione è conclusa tra l’uno e l’altro e se sorgono problemi è prevista una commissione di mediazione. Il tutto senza denaro.

    –Un nuovo clima sociale

    Come ha espresso l’assemblea popolare di Algete su Twitter, “stavamo dormendo, ci siamo svegliati e ora abbiamo un’insonnia cronica”. Il filosofo Amador Fernández-Savater si spinge oltre e dichiara che il movimento 15-M ha aperto un “nuovo stato mentale”.
    Una silenziosa interconnessione di menti ha luogo ogni settimana in tutta la città, nelle piazze e in rete. Ciononostante, i media si ostinano a insistere che il movimento sta perdendo forza. Stiamo assistendo alla comparsa di una economia parallela, alternativa, sotterranea. Ciononostante, chi ha il potere resta cieco a questo. Come dice il politologo Carlos Taibo, “vediamo costantemente come i media dichiarino che il 15-M è morto. E mi sono reso conto che è meglio non replicare: meno conoscono della realtà del movimento, più saranno sorpresi quando emergerà dall’invisibilità”.
    Il movimento degli indignados si è spinto oltre la protesta: è riuscito ad alterare l’immaginario collettivo e l’atmosfera politica alle sue radici più profonde. Ha generato un processo di ripoliticizzazione della società.

  • La Lotta è il Tempo

    Ieri sera c’è stata a Pisa un’assemblea di Movimento a cui ho partecipato e in cui sono intervenuto.
    Dal momento che ho messo abbastanza carne al fuoco e che in seguito a questo mio intervento l’assemblea ha affrontato dei discorsi ricchi, interessanti e costruttivi, vorrei cercare di riportarlo per iscritto qui, almeno in linea di massima, per condividerlo con tutti sperando di affrontare nuovamente quegli argomenti che mi stanno a cuore e che secondo me sono centrali per la riuscita e il successo reale delle attuali proteste mondiali contro il predominio della finanza sulla politica e la società (leggasi socialità).
    Ho sentito molti parlare della questione del 15 ottobre e di come il movimento dovrà rapportarsi a questa data, come dovrà elaborarla, farla propria, digerire le sconfitte e le vittorie di quella giornata e trarne le dovute conclusioni. Però mentre noi ne parliamo è già passato da allora quasi un mese e il nostro problema principale è che questo movimento, in Italia, sembra scemare e trovarsi in una situazione di stallo se non di reflusso. Cerchiamo di capire perchè e partiamo da un’altra osservazione: la stessa cosa è successa nelle giornate di Luglio del 2001, con il movimento cosiddetto “noglobal” contro il G8, il 13 febbraio 2003, con il movimento, anch’esso mondiale, contro la guerra in Iraq, il 14 dicembre dell’anno scorso, con il movimento universitario. Ora si ripete il 15 ottobre. Evidentemente sono stati fatti degli errori e per di più ripetutamente. Ci sono però dei movimenti che non hanno conosciuto questo decorso e nei quali non si è verificato questo fenomeno di reflusso in seguito alla data principale di mobilitazione: per esempio il movimento NoTav o il movimento OccupyQualcosa nel resto del mondo.

    Il movimento NoTav non ha mai fissato delle scadenze, delle date più importanti di altre. Se il 3 luglio c’è stata una grande manifestazione nei boschi della Val Susa con scontri anche violenti (in verità più che altro era un attacco da parte della polizia), ora i NoTav non stanno a piangersi addosso e a parlare di un fantomatico “post-03/07”. Noi invece parliamo di “post-15/10”. Perchè? Perchè il 3 luglio i NoTav non hanno giocato il tutto per tutto, non hanno concentrato tutte le loro forze su una singola data sperando che andasse bene, salvo poi leccarsi le ferite e pigliarlo in quel posto se fosse andata male. Non hanno fatto assemblee intitolandole “verso il 3 luglio”: hanno deciso di porre dei punti fissi sugli obiettivi del movimento anziché sui metodi, hanno fatto crollare la retorica repubblichista di distinzione tra manifestanti violenti e non violenti, buoni e cattivi: i NoTav erano tutti buoni e tutti cattivi. Tanto che quando il raggiungimento dell’obiettivo prefissato, e su cui non si transige, ha richiesto l’uso della forze, non hanno esitato ad utilizzarla o ad applaudire chi l’aveva usata; e quando, al contrario, si sono resi conto che la violenza avrebbe danneggiato il movimento, com’è stato il 23 ottobre, hanno deciso, dico deciso, di non utilizzarla. Avevano la situazione sotto controllo. Un po’ diverso dal nostro 15 ottobre romano.

    Passiamo al movimento OccupyQualcosa. Solo il braccio italiano di questo movimento, cioè noi, stiamo risentendo del reflusso post-15/10. In altri paesi, piuttosto, è stato un crescendo da allora. A Oakland la cittadinanza ha saputo organizzare, per la prima volta dal 1947, uno sciopero generale cittadino autogestito, non convenzionale. Da Wall Street (la parte occupata, ovviamente) è partito un appello di mobilitazione mondiale. A Londra in queste ore stanno provando a occupare Trafalgar Square dopo un enorme corteo [quest’ultimo esempio lo aggiungo solo ora perchè la notizia è di oggi]. Perchè? Perchè solo in Italia si è preferita una protesta centralizzata e convergente sulla capitale, in tutti gli altri paesi del mondo che hanno aderito alla protesta la mobilitazione si è articolata in cortei e iniziative disseminate sul territorio, con una media di 10-11 luoghi di protesta per ogni nazione.

    Questi due esempi insegnano due cose: la prima è che si deve essere intransigenti sugli obiettivi e non sui metodi, la seconda è che la protesta non deve essere centralizzata. Anzi, deve essere ubiquitaria, come ubiquitario è il nostro avversario. La lotta non è in un posto preciso né in un tempo preciso, la lotta è il Tempo, la lotta è lo Spazio.

  • Il feticismo dei post-it

    Dedico le mie parole a tutti coloro che hanno condannato ciecamente le violenze (ostiniamoci ad etichettarle così, almeno ci capiamo, care anime belle) dello scorso 15 ottobre rivendicando la natura pacifica della manifestazione, anche se in realtà non ho intenzione di parlare direttamente di quei fatti. Ho scelto voi come interlocutori perché ritengo che il movimento (sì, mi ostino anche ad utilizzare questa parola per esprimere qualche cosa che forse in realtà non esiste) italiano debba rivedere le sue strategie per ritrovare la vitalità e l’efficacia che aveva un tempo e che prima del 15 ottobre era riuscito ad esprimere l’ultima volta verso la fine del 2003, quando era già agonizzante: e siccome voi fate parte del movimento tanto quanto me e io credo nella forza del dialogo e nelle armi della democrazia, vi dico da pari come la penso.

    Non mi va di rifare discorsi che sono già stati fatti sulla questione violenza-nonviolenza e che hanno prodotto un’immensa mole di materiale su cui riflettere. Ai fini dell’argomento che mi accingo ad esporre è però necessario rimarcare come la violenza sia da considerarsi, senza esprimere giudizi morali, uno strumento come tanti altri: può essere lo strumento del potere che si difende, del capitale che sfrutta, della mafia che minaccia, dell’autonomo che lancia il sampietrino, e come ogni altro strumento può essere usato bene o male, da intendersi come efficacemente o meno. Per esempio, i fatti dimostrano che la violenza del 15 ottobre è stata poco efficace per il raggiungimento degli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere (a parte quello immediato di alcuni: esprimere un disagio, lanciare un segnale di rabbia e frustrazione).

    Ma sarebbe stata efficace la strategia che auspicavano quei tanti che intendevano recarsi a Roma per esprimere coloratamente o coloritamente la loro “indignazione”? Fa davvero paura al potere un corteo di centinaia di migliaia di persone, anche di un milione di persone, se queste camminano insieme, piantano tende, intonano cori? O fa forse più paura una folla di qualche decina di persone che minaccia di chiudere il proprio conto in banca?

    A chi condanna la violenza a priori vorrei ricordare che quando la violenza l’hanno praticata in Tunisia e in Egitto andava a tutti bene, anche ai giornalisti de La Repubblica che una settimana fa invitavano alla delazione di massa di coloro che potevano aver preso parte al respingimento delle cariche della polizia in piazza San Giovanni. Ma certo, in Egitto sono sporchi e con la pelle scura, in più parlano arabo e sono musulmani, quindi la violenza la possono usare perché sono degli animali, perchè sono violenti: questo è il messaggio implicato nella morale di certa informazione perbenista. Tanto che quando, in primavera, la protesta stava migrando dal mondo arabo alla più civile Europa (prima in Croazia poi in Spagna), i giornali occidentali inizialmente hanno pensato bene di non parlarne.

    A chi si illude di cambiare le cose solo accampandosi in una piazza a oltranza, come al Cairo, ricordo che l’occupazione di piazza Tahrir è stato un evento riuscito e di grande successo, efficace e non solo simbolico, grazie a successive ondate di scioperi che hanno paralizzato l’Egitto per settimane prima e durante la lotta di piazza.

    A chi ripete meccanicamente, come un bambolotto parlante, lo slogan «no alla violenza», vorrei ricordare cos’è la nonviolenza: una pratica attiva di resistenza a leggi o decisioni che si ritengono ingiuste. In altre parole: disobbedienza civile. E vorrei ricordare sempre a costoro che Gandhi, con le cui parole si riempiono la bocca e adornano gli striscioni, in India non ha vinto standosene seduto davanti alle forze di occupazione inglese o prendendo manganellate insieme a migliaia di persone, ma boicottando il sale inglese e permettendo agli autoctoni di riappropriarsi di un bene comune da sottrarre alle grinfie dell’Impero.

    Questo quindi si deve fare: ripartire dai beni comuni, dalla loro socializzazione, dal consumo critico. Ciascuno è importante. Inutile protestare contro la finanza con indosso un paio di scarpe fabbricate da bambini bengalesi, dei jeans scoloriti a costo di compromettere la salute degli operai che li hanno raschiati, una maglietta prodotta da lavoratori cinesi sottopagati, il tutto pubblicizzato attraverso i più infimi sistemi di controllo mentale magari da aziende quotate in borsa, la borsa che tanto si critica. Vano sputare nel piatto da cui si mangia: bisogna imparare a mangiare da un altro piatto. E dopodiché, invitare altri a mangiare dal nostro.

    Sia chiaro che non sto proponendo la ricetta che ci libererà dal male, ma semplicemente un poco di coerenza e un poco di riflessione sul significato della nostra azione politica: il consumo critico è solo un modo per tirarsi fuori dal problema, ma non ancora di far parte della soluzione. Il consumo critico da solo non basta. Neanche gli scioperi da soli bastano. Le acampadas da sole non bastano. Tutti questi eventi devono essere espressione di un’unica Lotta, con la maiuscola, che le unifica tutte (io direi che è quella contro l’Ancien Régime). Senza la coscienza della necessità di tale unificazione, ogni singolo tassello sarà troppo piccolo per formare un’immagine sensata.

    Avete tutti una scelta, a questo punto: o, in virtù del vostro “pacifismo nonviolento” continuate ad aderire ad appelli online, raccolte di firme e petizioni, mandate i vostri post-it a La Repubblica e affiggete i vostri striscioni e le vostre lenzuola per far contenta L’Unità (che poi in fondo, cosa cazzo sperano di ottenere?) oppure vi inventate un altro modo di praticare la nonviolenza. Anzi: la praticate e basta, niente feticismo dei post-it.

  • La violenza degli argini

    Volevo raccontare il 15 ottobre che ho vissuto senza parlare degli scontri, senza condividere o condannare la violenza, senza appoggiare o rifiutare teorie su infiltrati e sui cosiddetti black bloc, senza dover difendere o stigmatizzare il comportamento della polizia italiana o dei manifestanti, senza tirare nessuno per la giacchetta.

    Non so se infine sono riuscito nel mio intento di descrivere con oggettività la giornata (scopo che sempre mi riservo, in tutte le situazioni e nella maggior misura in cui è possibile farlo), ma di certo non sono riuscito mio malgrado ad evitare di parlare di tutte le questioni accennate sopra: avrei preferito non farlo, perché parlare della giornata di ieri come una giornata di violenza o di non violenza significa fare il gioco dei potenti e adottare il linguaggio e la retorica dei loro organi di informazione. Ma leggendo tanti commenti sulla rete e diversi articoli di giornali di aree diverse mi sono reso conto che è necessario mettere in chiaro qualche punto: ecco quindi cosa ho scritto. Sono pensieri sparsi.

    Questione violenza-nonviolenza. Il voler a tutti i costi dividere nettamente il corteo di ieri in due cortei, uno violento e uno pacifico, non solo non aiuta a capire le dinamiche di ieri ma rispecchia poco la realtà dei fatti, come qualsiasi altro tentativo di categorizzare le anime molteplici di un movimento, attribuendo loro nomi e nomignoli stupidi e contrapponendoli (es. indignados, black bloc > indignados VS black bloc). È troppo semplicistico ragionare in codice binario, funziona solo per il benpensante che guarda passivo le immagini dello schermo televisivo passargli sotto gli occhi.

    Che è necessario abbandonare questo frame è stato già detto mille volte ma non fa male ripeterlo. Bisogna prendere atto che in piazza San Giovanni c’erano tante persone diverse, non tutte col casco e armate di spranghe, mazze e molotov, che comunque erano disposte allo scontro: uno scontro non per forza premeditato, uno scontro che può essere stato causato dagli idranti sugli stand che attendevano l’arrivo del grosso del corteo o dai lacrimogeni lanciati in mezzo alla folla su un corteo autorizzato. Non sto parlando degli incappucciati, sto parlando dei tanti altri che sono rimasti coinvolti negli scontri: tra loro immagino ci siano tanti che sono equilibrati in situazioni normali ma che possono, come tutti, perdere il controllo in condizioni anormali e nel mezzo della folla.

    Personalmente trovo strumentali e del tutto fuorvianti i richiami alla Genova del 2001 in riferimento alla presenza di possibili infiltrati, perchè gli infiltrati ci sono in tutte le manifestazioni, anche le più pacifiche, e poi allora si trattava di un movimento e di circostanze completamente diverse: chi, come La Repubblica, scrive «violenze come a Genova» ha dimenticato quanto diverse fossero allora le strategie messe in campo dal black bloc (sì, al singolare) rispetto allo scontro fisico che c’è stato ieri e devia l’attenzione, attraverso analogie e  meccanismi di associazione tra concetti, dal fatto (scontri) alla sua interpretazione (black bloc).

    Il discorso sui possibili infiltrati lo lascio ai complottisti e ai politicanti, perché neanche questo aiuta a comprendere l’accaduto: quelle persone in piazza San Giovanni si sono difese dai lacrimogeni e dai manganelli, e lo avrebbero fatto comunque, con o senza infiltrati. Perciò secondo me la verifica di eventuali infiltrazioni è solo una questione “giuridica”, ma dal punto di vista dell’analisi politica dell’accaduto è irrilevante.

    Mancanza di sintesi. Come scriveva qualcuno, il germe della violenza è insito nella natura stessa di protesta e se a volte rimane potenziale ed altre si fa atto ciò è dovuto alle circostanze; questa volta, per settimane o mesi, fin dall’inizio si è affermata l’intenzione di andare oltre il corteo rituale e la sfilata per il centro di Roma. Su questo si era tutti d’accordo. Però, come conseguenza del campanilismo dei movimenti italiani (che, da quello che mi pare di capire, si è puntualmente manifestato nelle varie assemblee di organizzazione della mobilitazione del 15 ottobre), non ci si era accordati sulle strategie da adottare per superare la tradizionale estetica del conflitto: chi voleva assediare i palazzi governativi, chi occupare il Colosseo e altri monumenti, chi restare nelle strade e nelle piazze a oltranza e, sì, anche chi auspicava una insurrezione popolare. C’è stata una così profonda mancanza di sintesi che, per le differenti strategie, non si è stati capaci neanche di accordarsi sul percorso del corteo, per dirne una, o di organizzare un servizio d’ordine unitario, per dirne un’altra. In particolare, ritengo che quest’ultimo fatto sia stata una delle cause principali dei problemi che la massa ha dovuto fronteggiare. Questa frammentazione era percepibile, bastava farsi un giretto tra i diversi spezzoni del corteo.

    Comportamento della polizia. Tutti, come sempre, hanno fatto a gara a condannare per primi la violenza. Io non esiterei a condannare l’ipocrisia di chi condanna unilateralmente la violenza degli incappucciati o dei manifestanti e allo stesso tempo si dice soddisfatto dell’operato della polizia, che di violenza ne ha usata. Perché la violenza della polizia deve essere giustificata? Qualcuno risponderà che lo scopo della polizia era evitare i disordini. Ma allora il fine giustifica i mezzi? Se è così, la violenza dei manifestanti era altrettanto legittima. Anche perché, quando vedo scene come questa, posso non condividere ma di certo capisco la reazione della piazza.

    Aggiungo un fatto curioso (ma non troppo) sul comportamento delle forze dell’ordine. Il percorso concordato partiva da piazza Repubblica, con destinazione piazza San Giovanni: quest’ultima era la piazza in cui si sarebbero dovute svolgere assemblee parallele e l’eventuale acampada con l’organizzazione di vari stand (poi buttati giù dagli idranti della polizia), che si trovavano là già prima che arrivasse la testa del corteo. Piazza San Giovanni era quindi legalmente riservata ai manifestanti che, secondo me, avrebbero dovuto mantenere il pieno diritto legale di entrarci; dopo l’inizio degli scontri, la polizia ha privato i manifestanti di questo diritto da essa stessa concesso, anzi ha trattato da criminali tutti coloro volessero accedere alla piazza da via Merulana, e giù lacrimogeni e manganelli, quando l’unica colpa che avevano era di seguire il percorso concordato di un corteo autorizzato dalla questura di Roma. Quindi contraddittoria non solo nella sostanza, ma anche nella forma.

    Opinione personale. Personalmente la violenza degli incappucciati non la condivido, ma non condanno la violenza dei manifestanti che si sono difesi da cariche e da lacrimogeni che li cacciavano da una piazza che doveva essere loro.

    La violenza degli incappucciati, io non la condivido non per motivi etici, ma per una questione politica e strategica: semplicemente hanno fatto male al movimento. Poteva essere un’esperienza politica lunga mesi, con piazze occupate e tutto quello che ciò comporta e che in Spagna sono stati capaci di mettere in pratica, invece si è risolto tutto in poche ore fumo nero. Tutti i possibili contenuti del movimento saranno oscurati dalla condanna delle frange estremiste, dalle accuse di infiltrazioni, dalla necessità di dissociarsi dall’uso della violenza e di dimostrare che i “veri indignati” sono quelli pacifici, dalla denuncia di incapacità di gestione dell’ordine pubblico e da tutti quei discorsi che implicano l’accettazione del frame violenza-nonviolenza e, ove possibile, del frame casta-anticasta che tanto piace a La Repubblica. Nessuno parlerà di speculazione finanziaria, di predominio della finanza sulla politica, di banche armate, di sovranità monetaria, di privatizzazioni, di annullamento del debito pubblico, di tagli alla formazione e alla sanità, di beni comuni e di lavoro.

    In pratica, ora che si è manifestata la violenza del fiume in piena nessuno noterà quella degli argini che lo costringono.

  • Aiutiamo il vicino

    Se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo.

    Zygmunt Bauman in un’intervista del 07/08/2011

    Questo è l’esempio che ho citato in assemblea di facoltà ieri mattina per spiegare come sia illusoria la corrispondenza tra crescita economica e benessere e rispondere a chi sosteneva la necessità di stare con i piedi per terra ed evitare di rivendicare un aumento del benessere piuttosto che la ripresa economica.

    Innanzitutto vorrei farvi notare che questa pretesa di mantenere i piedi per terra è del tutto ideologica, perchè sperare che il mondo possa cambiare non è meno utopico che credere che le risorse di un mondo finito possano durare per sempre a ritmi di crescita positivi.

    Sembrava, dalle parole di alcuni, che gli obiettivi del movimento debbano essere la crescita economica e l’aumento del PIL.

    All’esempio di Bauman da me citato è stato ribattuto, a prima vista ragionevolmente, con l’osservazione che, se invece di aiutare il mio vicino a tagliare la siepe, gli regalo dei soldi perchè possa pagare un giardiniere professionista, il risultato non cambierebbe: l’aumento di benessere finale, non monetizzabile, sarebbe lo stesso, eppure l’economia crescerebbe in virtù della circolazione del denaro da me regalato al vicino e utilizzato da quest’ultimo per pagare un servizio.

    Ripensandoci, però, direi che non è esattamente così: aiutando direttamente il vicino con le proprie mani o regalandogli una certa somma di denaro si può naturalmente raggiungere lo stesso risultato materiale (la potatura della sua siepe) ma questo modo di ragionare non tiene conto del processo utilizzato per raggiungere suddetto risultato; e spesso è il processo ad essere determinante per il risultato meno palesemente materiale (il benessere).

    Tra i due modi di raggiungere lo stesso risultato c’è una differenza sostanziale a livello di relazioni: l’aiuto diretto attraverso le mie mani, il mio sudore, la mia capacità produce una relazione sociale che un aiuto indiretto che passa per l’intermediario monetario non produce.

    Comprendo che questo pensiero possa apparire come una ingenua e sterile demonizzazione del denaro (come anche mi è stato rinfacciato, sempre all’assemblea); in realtà il problema non sono neanche i soldi in sé. La questione è che il denaro il denaro rischia spesso di diventare, o diventa, strumento di sfruttamento e di disumanizzazione delle relazioni e causa di alienazione dalla rete di relazioni che dovrebbe essere la vita. È questo che va contrastato.