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  • L’invenzione della tradizione nel turismo responsabile

    Chi è amante del viaggio lento avrà avuto occasione di notare che ultimamente in Italia è possibile trovare in vendita intere collane dedicate al turismo a piedi o in bicicletta: sono guide che forniscono una serie di consigli pratici su come affrontare il viaggio, organizzano le tappe secondo uno schema predefinito, contengono le relative carte con il tracciato del percorso da seguire e informazioni di natura storico-culturale.

    Esistono guide per percorsi di fama mondiale come il cammino di Santiago de Compostela o la Via Francigena, ma anche per tratte meno conosciute e meno trafficate. Di recente ho avuto l’occasione di conoscere, usandola per organizzare un viaggio, una di queste ultime, una guida che a cominciare dal titolo si presenta con un nome molto retorico e poco convincente: Con le ali ai piedi, della camminatrice pellegrina Angela Maria Seracchioli, 2011, edizioni Terre di mezzo. Il percorso si propone di accompagnare il viaggiatore, come da sottotitolo «nei luoghi di San Francesco e dell’Arcangelo Michele», per circa 500 km dal Lazio fino in Puglia.

    Prima di recensire e commentare il percorso, una premessa è fondamentale: il motivo per cui sono a favore del viaggio lento è che lo ritengo carico di un senso profondamente politico. Come mi è altre volte capitato di scrivere, chi viaggia lentamente a piedi abbandona l’eteronomia per trovare l’autonomia. Quando cammini non dipendi da nessuno se non dai tuoi piedi e dalla tua volontà: non devi sottostare a tempi, orari e percorsi e coincidenze imposte o stabilite più o meno esplicitamente da altri, lo spostamento da un punto all’altro non dipende dalla quantità di denaro che hai in tasca né da «un traffico alimentato da armi di distruzione di massa [che] tradisce l’esistenza di un più letale sistema plasmato dall’irrazionalità capitalistica» (citazione dalla chiamata ufficiale della Ciemmona 2016, visto che lo stesso discorso si può fare per la bicicletta). O ancora, parafrasando l’Ivan Illich di Elogio della bicicletta, solo a piedi (lui dice in bicicletta) c’è vera eguaglianza e giustizia sociale negli spostamenti. Insomma, in ogni momento, sei libero di fermarti, di fare una pausa o cambiare direzione. Ciascuno scopre un ritmo di vita proprio, non imposto dalla standardizzazione e potenzialmente scevro da scadenze e impegni, in cui è la libertà di scelta che misura concretamente il valore del tempo. Camminando fuori dal contesto urbano, anche nell’alimentazione si impara ad essere autonomi, almeno parzialmente, ed automaticamente rispettosi dell’ambiente e dei suoi cicli naturali. Si è anche a stretto contatto con il territorio, i suoi sentieri e le sue strade, le piccole località secondarie ignorate nei viaggi d’altro tipo, i loro prodotti tipici, le loro usanze e tradizioni e i loro abitanti spesso molto più gentili e disponibili di quanto ci si aspetti: così si crea e si espande una rete sociale nonché una rete di saperi condivisi dalla comunità, che fa apprezzare le altrimenti impercettibili differenze tra un paesino e quello successivo, o tra una valle e quella successiva, e che resiste alla paradossale coesistenza nel modello neoliberista tra omologazione sociale e individualismo corrosivo.

    Purtroppo, non ho trovato tutto questo nella porzione del cammino che ho percorso seguendo Con le ali ai piedi, e non per sfortuna ma per il taglio che tale guida ha, per la struttura intrinseca del percorso e per l’impalcatura ideologica contraddittoria da cui tale struttura prende le mosse (e non sto parlando dello spirito religioso che anima il pellegrinaggio in luoghi legati alle agiografie di San Francesco o di Celestino V).

    Andiamo con ordine. Prima di tutto, le indicazioni sulle carte del percorso (come in tutte le guide della stessa collana) sono troppo stringate: non sono indicati i nomi di molte strade e sentieri e soprattutto l’intera cartografia è incentrata sul percorso di interesse, con uno zoom selettivo che impedisce di spaziare oltre. Tale mancanza nasce probabilmente dalla fiducia che la guida ripone nel viaggiatore, presumendolo sempre dedito e attento a non uscire fuori dal tracciato suggerito dalla guida. Non occorre chiarire che si tratta di una mancanza che crea una dipendenza del viaggiatore dalla guida in questione, se questi non è sufficientemente attrezzato con altro (spesso costoso) materiale cartografico. Per fare un viaggio lento occorre tuttavia avere strumenti di orientamento per conoscere il territorio in cui ci si trova, e conoscere veramente la geografia del territorio significa averne una chiara idea del contesto, anche cartografico. La conoscenza del territorio garantisce autonomia di scelta e consapevolezza nell’organizzazione del viaggio, sia prima della partenza sia tra una tappa e l’altra: per questo, una cartografia completa e il più possibile ampia e dettagliata sarebbe necessaria per intraprendere un cammino che realmente garantisca a ciascuno il massimo dell’autonomia riducendo per quanto possibile le costrizioni organizzative.

    In secondo luogo, un elemento di cui si accorge subito anche il camminatore meno esperto è la natura del tracciato: una lunga, troppo lunga, porzione del percorso è asfaltata. Nella premessa, l’autrice mette le mani avanti: «l’asfalto pare essere lo spauracchio dei camminatori ma può non esserlo se lo si affronta con spirito pellegrino, la cui qualità è anche l’accettazione e la trasformazione al positivo di tutto ciò che si incontra». Seguendolo, viene quasi da chiedersi se gli autori l’hanno percorso veramente (come sarebbe che l’asfalto pare essere lo spauracchio dei camminatori?) o soltanto progettato il tracciato a tavolino su una carta, perché la sovrabbondanza di asfalto rende tutto il percorso poco “vissuto”. Seguendolo, non ci si sente parte di una comunità di camminatori, non viene da pensare a quanti hanno percorso gli stessi passi prima di te; al contrario, ci si sente intrusi, perché su quelle strade le automobili magari saranno poche e dunque il traffico poco inquinante, ma l’asfalto è stato concepito per loro, e non certo per gli spostamenti a piedi. L’impressione che se ne ricava, per quanto il paesaggio circostante sia di inestimabile bellezza e permeato di un’estetica piacevolmente rurale o montana, è di essere non inclusi nel territorio, ma respinti da esso. Inoltre, ed è ciò che più di tutto porta a chiedersi se il percorso, come vorrebbe l’etimologia della parola, sia effettivamente stato percorso, camminare sull’asfalto fa male ai piedi, li affatica e aumenta notevolmente il rischio che si formino vesciche, cosa che ogni buon camminatore impara molto presto e che in questo caso rende meno piacevole il paradiso dei sensi dato dal bel paesaggio (perché la vista è solo uno dei sensi, ma c’è anche il tatto).

    Che per alcuni spostamenti sia impossibile evitare strade asfaltate è un’amara verità che deriva dai fattori economici, sociali, politici e culturali che hanno storicamente determinato le modalità di circolazione di persone e merci, dunque che parte dei cammini abbiano finito per essere inglobati o sostituiti da colate di asfalto è del tutto comprensibile. L’assenza di sentieri alternativi potrebbe giustificare l’eccessiva presenza di strade asfaltate lungo il tracciato in questione, ma a questo punto si apre un’altra critica: i sentieri alternativi ci sono. Dai sentieri mantenuti dalla sezione CAI de L’Aquila (purtroppo piuttosto disastrata dal terremoto del 2009) ai cammini celestiniani passando per i tratturi usati per secoli nella pratica della transumanza, esistono innumerevoli percorsi alternativi. Di queste alternative la guida fa cenno come curiosità intellettuali più che come importante conoscenza per vivere il territorio, anche se solo di passaggio. Ovvero, non solo indirettamente nasconde conoscenze utili, ma anche si rivolge al lettore considerandolo più un turista che un viaggiatore (sottigliezza non irrilevante).

    Ora, c’è da fare una precisazione per evitare fastidiosi fraintendimenti. Qualcuno potrebbe legittimamente osservare che se intendo fare un certo tipo di viaggio e invece mi sono andato a scegliere una guida che non mi consente di fare quel tipo di viaggio la colpa è solo mia e non mi posso lamentare: la prossima volta scelgo meglio, problema risolto. Resta però un fatto su cui riflettere. Non sono certo il primo a dare un significato politico al viaggio, anzi esiste una nutrita schiera di enti e associazioni che si occupano di “turismo responsabile” sotto l’ombrello dell’Associazione Italiana Turismo Responsabile (AITR), a cui tra l’altro aderisce anche Terre di mezzo Editore, la casa editrice della collana di Con le ali ai piedi. Così come accade in certi movimenti per il “cibo responsabile” analizzati dall’indagine del bolognese Wolf Bukowski (in La danza delle mozzarelle), anche nel movimento per il “turismo responsabile” la narrazione e la struttura nascondono una profonda contraddizione.

    Secondo la definizione dell’AITR,

    il turismo responsabile è il turismo attuato secondo principi di giustizia sociale ed economica e nel pieno rispetto dell’ambiente e delle culture. Il turismo responsabile riconosce la centralità della comunità locale ospitante e il suo diritto ad essere protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio. Opera favorendo la positiva interazione tra industria del turismo, comunità locali e viaggiatori.

    Tale attenzione può essere declinata e intesa in parecchi modi, come si evince dal numero di denominazioni alternative e parziali, di significato qualitativamente differente usate per riferirvisi: “turismo consapevole”, “ecoturismo”, “turismo culturale”, “turismo comunitario”, “turismo sostenibile”, “turismo equo-solidale”. L’AITR stessa si premura di specificare che ciò che promuove è una somma di tutte queste accezioni parziali, qualcosa di potenzialmente radicale (pur non mettendo in discussione il concetto stesso di “turismo”).

    Certamente le collane commerciali che propongono i viaggi a piedi rientrano nella categoria di turismo responsabile, per il basso impatto ambientale e per il tipo di viaggio che si discosta dalla consuetudine del turismo di massa, ma in base alle osservazioni formulate sopra si rischia di ritrovare riprodotti nel turismo responsabile gli stessi principi di alienazione, mercificazione e privatizzazione dei saperi che si osserva nel turismo di massa.

    In particolare, è interessante pensare all’omissione di conoscenze relative ai secolari o millenari percorsi alternativi come esempio di «nuova accumulazione originaria», per usare un’espressione di Francesco Raparelli in Rivolta o barbarie, mutuata dal classico concetto marxista di «accumulazione originaria». Secondo Karl Marx,

    «Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro… Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione» (Il Capitale, libro I)

    Storicamente tale processo si è manifestato sotto forma di recinzioni che cominciarono a comparire in Inghilterra alla fine del XV secolo che separavano materialmente i lavoratori dai mezzi di produzione, espropriando i contadini, i produttori immediati. Soltanto con la privazione dei propri mezzi di produzione è stato possibile che i produttori diventassero dipendenti da un nuovo bisogno, quello cioè di vendere la propria forza-lavoro ai nuovi proprietari capitalisti in cambio di un salario. Ovvero, il rapporto di subordinazione e di sfruttamento, l’intera natura gerarchica dei rapporti di produzione nel capitalismo deriva dalla separazione tra i produttori e i mezzi di produzione, da un processo che rende impossibile per i produttori l’utilizzo immediato dei mezzi di produzione.

    In analogia con questo concetto, in molti hanno esteso la nozione di «accumulazione originaria» ad altri aspetti della della vita economica e sociale che hanno interessato e interessano non soltanto il periodo di formazione del sistema capitalistico ma anche il presente, ipotizzando che l’«accumulazione originaria» non si limiti ad essere una condizione iniziale del capitalismo, ma anche una vera e propria condizione strutturale, per cui continuamente, per esistere e svilupparsi, il capitale produce “recinzioni” che separano i produttori dai mezzi instaurando rapporti gerarchici di sfruttamento. Per Raparelli, è la vita stessa il mezzo di produzione post-fordista su cui si esercita la nuova accumulazione «originaria», ma un discorso analogo può farsi riguardo alla privatizzazione delle conoscenze della comunità open source o alla valorizzazione capitalistica dei dati digitali da parte di grosse multinazionali come Facebook o Google. Più banalmente, si è di fronte allo stesso fenomeno ogniqualvolta si convincano individui di non possedere adeguate conoscenze, in modo da potergliele vendere ad hoc, come quando si convincono le mamme di non saper allattare per potergli rifilare fior di riviste sull’argomento.

    Tornando al turismo responsabile, l’omissione di informazioni utili sui percorsi alternativi a quello principale può essere visto come una forma di “recinzione” che rende impossibile al camminatore l’utilizzo immediato dei percorsi e genera un rapporto di subordinazione, come già spiegato in precedenza. Questo rapporto è capace di generare un profitto, perché saperi e nozioni storicamente tramandate dalla comunità diventano una merce che può essere inserita in una guida e venduta sotto una forma poco riconoscibile.

    La scarsa riconoscibilità dei saperi originari è legata ad un altro fatto interessante, che riguarda la presunta continuità con la storia del territorio: il percorso proposto dalla guida Con le ali ai piedi ricalca in parecchi punti alcuni dei percorsi alternativi, a cui dunque deve molto. A questi fa solo qualche cenno (o addirittura li ignora, a cominciare dal titolo, che per questo motivo all’inizio di questo articolo è stato definito “molto retorico e poco convincente”), nella premessa l’autrice scrive: «Questo […] è un Cammino nuovo, non particolarmente difficile. […] Il percorso è stato parzialmente segnato da me e da volontari. […] un nuovo Cammino su tracce antiche che ripercorre, in parte, i tratturi della transumanza». Eppure, a parte il rapido riferimento nella premessa e una pagina informativa sui tratturi qualche tappa dopo, sparisce dalla guida ogni riferimento pratico all’esistenza degli stessi, ogni reale legame con la storia del territorio che sia diverso da “i luoghi di San Francesco”.

    Per spiegare questo fatto, può essere utile il concetto di “invenzione della tradizione”. Secondo Eric Hobsbawm, che introdusse il concetto in un omonimo saggio storico nel 1983,

    per «tradizione inventata» s’intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato. Di fatto, laddove è possibile, tentano in genere di affermare la propria continuità con un passato storico opportunamente selezionato.

    Inutile dire che il passato storico opportunamente selezionato è in questo caso costituito in primo luogo dalle porzioni dei percorsi alternativi sovrapposti al, e in parte rimossi dal, “nuovo” percorso; in secondo luogo dai luoghi di importanza religiosa che finiscono con l’apparire l’unica motivazione per incamminarsi in un territorio come quello dell’Abruzzo che, al contrario, di altre motivazioni sarebbe generoso. Tutto ciò cozza contro i principi del turismo responsabile, ma non c’è da stupirsi, perché stiamo parlando di un fenomeno contraddittorio. In Viaggiare, conoscere e rispettare l’ambiente, un saggio sul turismo pubblicato nel 2003, Osvaldo Pieroni al capitolo Le contraddizioni dell’ecoturismo scrive l’ovvia conclusione che

    […] il turismo rappresenta un fatto sociale totale, che porta con sé le contraddizioni e le ambiguità che sono caratteristiche di ogni società, né più e né meno di ciò che accade con ogni altro fenomeno caratteristico dell’organizzazione sociale in genere.

    Ancora una volta, non esiste un aspetto della vita umana che non dipenda dalla natura sociale della vita umana stessa. Anche quando si cammina, da soli, in mezzo alle montagne.

  • Le ideologie sono sempre degli altri

    (breve manuale di autodifesa nell’era post-ideologica)

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    C’è chi dice che l’uguaglianza sociale tra gli uomini «porterebbe la società ad atrofizzarsi», perché il singolo individuo non troverebbe più ragioni per fare del suo meglio al fine di contribuire allo sviluppo culturale, scientifico, economico della società in cui vive, se non gli fosse garantito un tornaconto strettamente personale.
    A prescindere dall’adesione o meno al concetto espresso in questa frase, intendo mostrare che essa è di natura ideologica, né più né meno della frase «il capitalismo è intrinsecamente ingiusto», che è ovviamente stata tacciata di essere ideologica e non aderente alla realtà.

    Cominciamo con un primo concetto: la parola “ideologia”, nel discorso che segue e ove non diversamente specificato, è usata nella sua accezione comune, quella giornalistica e dei saltimbanchi dei salotti televisivi. Ovvero, è un’interpretazione della realtà che si pone dei punti di riferimento e degli schemi interpretativi e che fa ricadere praticamente ogni fatto sociale, politico, economico, culturale, nella sfera di interpretazione definita da tali schemi. Spesso l’accusa di essere ideologico è usata per screditare l’interlocutore, sottintendendo che l’ideologia è un male da estirpare, per persone dalla mente chiusa, incapaci di accettare qualunque cosa che non si accordi perfettamente con i loro dogmi, i loro miti e le loro idealizzazioni.

    Questa retorica contrappone alle ideologie, vecchie e sconfitte, le idee, nuove e portatrici di pensiero critico; allo stesso tempo afferma la necessità di basarsi sui fatti e di adottare un pensiero post-ideologico per il bene dell’umanità, pensiero che è insegnato nelle scuole e nelle università ed è veicolato dai mezzi di comunicazione di massa, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente. Però qualcosa non torna nella pretesa di essere post-ideologici: se l’ideologia è uno strumento di interpretazione dei fatti, cosa significa superare le ideologie? Se significa rinunciare a schemi organici di interpretazione della realtà, cioè osservare i fatti senza la pretesa di interpretarli, allora tale superamento non ha senso.
    Prima di tutto perché l’oggettività assoluta non esiste: neanche la scienza, che è quanto di più vicino all’oggettività l’uomo abbia mai prodotto, rinuncia all’interpretazione dei fatti, anzi è essa stessa una loro interpretazione. I fatti, qualunque sia la loro natura, devono essere interpretati e l’interpretazione che se ne dà costituisce quella che comunemente è detta ideologia.
    In questo modo cade la distinzione tra idee e ideologie. Cosa sono le idee, astrazioni slegate dalla realtà dei fatti? No: se così fosse, di che utilità potrebbero mai essere? Anche le idee derivano da un’interpretazione, che non è concettualmente diversa da quella che conduce alle cosiddette ideologie.

    Ma se il superamento delle ideologie non è possibile, che cosa nasconde la pretesa di essere post-ideologici?
    Propugnare il superamento delle ideologie significa di fatto sostenere un’ideologia del pensiero unico, in cui si accettano le idee e si respingono le ideologie: generalmente chi fa questo discorso di contrapposizione tra idee e ideologie tende a considerare idee tutto ciò che fa parte dell’ideologia dominante e ideologia tutto ciò che non ne fa parte. La distinzione tra le due cose è dunque fittizia ed arbitraria. Anzi, con una strizzata d’occhio diciamo pure che è ideologica (marxianamente, questa volta!).

    Così, l’affermazione «il capitalismo è intrinsecamente ingiusto», che si basa su un patrimonio filosofico e politico che spazia da Marx a Žižek passando per Marcuse e Debord, è ideologica tanto quanto la convinzione che «l’uguaglianza sociale porterebbe la società ad atrofizzarsi», che descrive ciò che accadrebbe se l’uguaglianza sociale fosse praticata in un sistema capitalistico, che ha le sue leggi economiche difficilmente applicabili ad altri sistemi. Infatti, l’esistenza in passato (ma anche nel presente) di società egualitarie, spesso basate sulla distribuzione equa delle risorse e della produzione, che non sono implose, ma anzi sono prosperate per secoli o millenni, dimostra bene che l’affermazione ha scarsa capacità descrittiva dello stato reale di cose, non appena si esce da un sistema capitalistico.

    Ora, che l’economia borghese pretenda velleitariamente di descrivere leggi universali è già stato detto da qualcuno che ne sapeva sicuramente più di me, ed è stato poi confermato da altri e da altri ancora.
    Il punto è prenderne coscienza, tutti, e non farci ingabbiare dalla logica del pensiero unico.

  • La disobbedienza civile

    H. D. Thoreau nel 1854

    Se nelle ultime due settimane non ho scritto nulla è stato per motivi di studio e non per mancanza di argomenti da trattare, che anzi mi affioravano alla mente con insistenza (decrescita, globalizzazione, movimenti). Ma fra un blocco di appunti e un libro di citologia ho trovato comunque come ritagliarmi il tempo per qualche sana lettura estiva, come potreste aver notato dall’elenco qui a lato, e così ho letto due libelli di Henry David Thoreau che hanno segnato la filosofia anarchica ottocentesca: La disobbedienza civile (1849) e La vita senza princìpi (1863).

    Non volendo tediarvi troppo con la sua biografia, che chi vorrà potrà leggere altrove, mi limito a ricordare che, tanto per la personalità quanto per le scelte di vita, Thoreau fu sempre un bel tipetto: si rifiutò di pagare le tasse in segno di protesta contro le scelte guerrafondaie degli Stati Uniti, allora in guerra con il Messico, e per questo fu arrestato; da allora perse completamente la fiducia nell’istituzione statale («compresi che lo Stato era stupido, […] che non sapeva distinguere gli amici dai nemici, e persi completamente il rispetto nei suoi confronti che mi era rimasto, compatendolo») e decise di distaccarsi non solo da essa, ma anche dall’idea stessa di società, ritirandosi ad una vita appartata anche fisicamente, una scelta questa che lo spinse ad abbandonare la città e a costruirsi una capanna, in riva ad un lago isolato, in cui visse (e scrisse) per due lunghi anni.

    Il linguaggio è chiaro ed i contenuti, nonostante i continui riferimenti biblici e religiosi, nonostante l’ingenuità di alcune sue considerazioni economiche (ma capiamolo, è un pensatore pre-marxista), hanno l’arditezza di andare contro una tradizione filosofica e politica che nello Stato borghese ottocentesco era difficile scalzare: quella di giustificazione dello Stato borghese stesso. Egli lo nega, ne rifiuta la legittimità, fa lo stesso con la democrazia, considerata innaturale (perchè infatti una maggioranza dovrebbe avere il diritto di governare? «La ragione pratica per la quale […] si permette ad una maggioranza di governare, non risiede nel fatto che è più probabile che essa sia nel giusto, […] ma è solo perchè la maggioranza è fisicamente più forte»). Egli propone un’anarchismo individualista, anticipando lo Stirner tardo ottocentesco, e suggerendo validi motivi e validi metodi per abbattere la tirannia democratica, dittatura e imposizione dei più sui pochi.

    Penso tuttavia che Thoreau si scontri con la realtà quando auspica una rinascita individuale e spirituale (ecco l’impeto religioso…) senza programmare un sistema di convivenza che possa prendere il posto dell’esistente (ma anche qui, gli manca l’undicesima tesi su Feuerbach). Si potrebbe liquidare la mia critica facendo notare che a Thoreau non interessano minimamente i massimi sistemi o la costruzione di modelli sociali successivi all’abbattimento della tirannia, semplicemente perchè una volta che l’individuo, da solo, arriva a rifiutare la forma statale, la tirannia è virtualmente abbattuta e la storia si è finita lì. Ma Thoreau commette lo stesso errore-orrore liberista nel considerare l’individuo come entità isolata, in grado di scegliere autonomamente e razionalmente ciò che gli conviene e di scartare e rifiutare ciò che non gli conviene: l’individuo, non c’è bisogno di dimostrarlo in alcun modo, vive tra gli altri e fa parte di una collettività; le sue scelte sono condizionate da regole, tabù, idee e idiosincrasie che non vengono da lui, né dal cielo, né da sole, ma dal rapporto che egli instaura con altri individui. Io posso rifiutarmi di pagare le tasse, di prestare il servizio militare, di votare alle elezioni, di rispettare una legge, ma il solo rifiuto individuale non basta a liberarmi.

    In compenso tanti sono gli spunti interessanti, primo fra tutti il pezzo in cui critica quelle che Benasayag poi chiamò «anime belle»: «Ci sono migliaia di persone che in teoria sono contrarie alla guerra e alla schiavitù, ma che in effetti non fanno niente per porvi fine, […] se ne stanno sedute con le mani in tasca e dicono di non sapere che cosa fare e non fanno nulla». Oppure: «Quando la maggioranza alla fine voterà per l’abolizione della schiavitù sarà perchè la schiavitù le è indifferente e perchè le sarà rimasta ben poca schiavitù da abolire con il voto».

    Infine, leggendolo in questo periodo di tempesta finanziaria e sociale, non posso che trovare considerazioni perfette per il momento, che lui faceva sulla guerra messicana ma che potrebbe trasporsi sostituendo il soggetto con la manovra del governo Berlusconi e con il peso schiacciante del capitale finanziario nel mondo globalizzato: «è opera di un numero relativamente ristretto di persone che si servono del governo stabilito come proprio esclusivo strumento, poiché il popolo non avrebbe consentito all’impresa». Mi sembra evidente che oggi, molto più che nell’ottocento, è ancora difficile scalzare l’ideologia di cui sopra.

    E ora il prossimo libro da leggere è Walden!

  • Sull’egemonia culturale

    Ecco quella che potrebbe essere la domanda di inizio di un saggio, anche interessante, ma che invece voglio destinare ad un’altra funzione: quella del dibattito e della riflessione. Sono sempre più convinto (e sempre più socialista..) che il marxismo sia un’ottimo strumento di analisi sociopolitica e sociologica in genere, ovviamente soprattutto nell’ambito economico, e non tanto per i suoi fini, la cui discutibilità e condivisione sono soggette all’arbitrio dei singoli e il cui valore è dunque soggettivo, quanto per il suo metodo, che è piuttosto oggettivo e sa indagare al cuore dei problemi in questione. La domanda è dunque:

    Cosa rende lo storico scienziato (“cosa rende il marxista” direbbe Gramsci) così persuaso della correttezzza della teoria gramsciana dell’egemonia culturale, così propenso ad accettare l’idea secondo cui il sistema valoriale della classe produttiva non è che un’imposizione camuffata, un’elaborazione pianificata e saggiamente studiata dalla classe dirigente per il mantenimento dello status quo, cioè del proprio potere?