Queste riflessioni sono state pubblicate anche su Napoli Monitor.
Il figlio che non è abbracciato dal villaggio lo brucerà per sentirne il calore (proverbio)
L’ennesima esecuzione razzista da parte della polizia francese ha innescato una rivolta per certi versi molto più esplosiva di quella del 2005. Le reazioni del governo, della borghesia, di una parte della sinistra, sono di una cecità agghiacciante, lontana anni luce dalla comprensione dell’origine sociale dello scoppio di tale rivolta. All’Onu, che chiede alla Francia di rivedere i metodi della propria polizia e di assicurarsi di prevenire e punire ogni comportamento discriminatorio, il governo di Macron risponde che nella polizia francese non esiste alcun razzismo. Al raro giornalismo ancora lucido che fa notare che la legge votata nel 2017 dall’attuale ministro dell’interno Darmanin ha portato alla quintuplicazione del numero di morti ammazzati dalla polizia, il ministro semplicemente nega che tale aumento sia mai avvenuto, in barba alle statistiche e ai documenti ufficiali.
Invece di parlare di ciò che ha condotto all’omicidio di Nahel, si evoca la sua morte solo come presunto “pretesto” per bruciare tutto. Se l’omicidio di Nahel è un pretesto, qual è il vero motivo? Secondo Macron sono i videogiochi. Per alcuni osservatori, anche in Italia, incapaci di dissimulare il razzismo, il motivo è semplicemente la provenienza della popolazione in rivolta: irrazionale e presa da una furia immotivata, sarebbe costantemente in attesa di una qualunque scusa per bruciare tutto senza un perché.
La vera questione neanche si tocca: l’origine di gran parte della popolazione in rivolta è coloniale. Il trattamento che questa popolazione riceve quotidianamente da parte delle istituzioni è coloniale. La gestione politica razzista è coloniale. Le rivolte delle “banlieues” a cui si assiste ciclicamente sono solo un’infinitesima parte della violenza coloniale su cui da secoli si basa la società francese.
La scarsa conoscenza della questione coloniale francese rischia però di essere letta in maniera limitata da un pubblico italiano. Il colonialismo è ben più del “semplice” razzismo, che ne costituisce il lato culturale: resta il piano economico. Riducendo tutto al razzismo, l’aspetto economico strutturale rischia di passare inosservato. Il colonialismo è stato ed è innanzitutto un sistema che gerarchizza gli esseri umani per colore, nazionalità, origine, statuto amministrativo, e opera su questa base per estrarre ricchezza e distribuirla in maniera socialmente iniqua. Storicamente, il colonialismo ha consentito in maniera sostanziale l’accumulazione originaria, l’appropriazione di risorse e lavoro da parte degli uomini d’affari europei, e ha contribuito allo sviluppo del capitalismo. Oggi, la gestione coloniale della popolazione povera e di origine straniera è ancora la più forte forma di disciplinamento che tiene in piedi il sistema di sfruttamento.
Le rivolte di questi giorni esprimono ampiamente una rabbia contro questo sistema. Poco importa che non ci siano rivendicazioni politiche ufficiali. La stragrande maggioranza degli oltre mille incendi di edifici ha colpito particolari obiettivi: commissariati, stazioni di polizia, caserme, municipi. La rivendicazione è sotto gli occhi di tutti: basta volerla vedere.
Inizialmente sono stati attaccati i luoghi del potere poliziesco e delle istituzioni. In un secondo tempo è stato appiccato il fuoco anche ad altri luoghi del servizio pubblico, come scuole e biblioteche. Molta gente, pur comprendendo la rabbia per il razzismo e l’omicidio di Nahel, ha interpretato questi atti come puramente criminali, senza alcun contenuto politico, dimenticando che scuole e biblioteche, per quanto possa dispiacere, sono di fatto strumenti di esclusione sociale. Nonostante il suo valore emancipatore ideale, la scuola è per molti giovani la prima istituzione in cui le disuguaglianze sociali si trasformano in disuguaglianze scolastiche, in cui si subiscono discriminazioni razziste e disciplinamento poliziesco: addirittura, alcuni presidi collaborano direttamente con la polizia segnalando gli allievi più “vivaci”. In questo senso, la scuola non è che un’estensione del sistema poliziesco. In molte biblioteche di quartieri in cui la maggior parte delle famiglie a casa non parla francese, è difficile trovare materiale in lingue diverse. Anche in questo caso, un encomiabile intento emancipatore assume le sembianze concrete di uno strumento di esclusione o di imposizione culturale. L’attacco a questi luoghi è da leggersi come un attacco al sistema di esclusione sociale che opera quotidianamente nei quartieri. Non è un attacco ai “simboli” di tale sistema, ma proprio ai luoghi in cui materialmente esso prende forme visibili.
In risposta a chi sostiene che la rivolta non abbia rivendicazioni concrete, è ancora più significativo il fatto che rapidamente si siano diffusi a macchia d’olio i saccheggi di negozi di ogni tipo fino ad arrivare al cuore dei quartieri ricchi delle maggiori città – qualcosa che non era mai avvenuto in contesti simili. Come spiegare questa evoluzione? Numerose scene dai quartieri in rivolta testimoniano del dispiegarsi di un momento di apertura, in cui tutto sembra possibile. Cadono i freni inibitori sociali, guardiani del desiderio, e la gente pare voler fare tutto ciò che normalmente è vietato. In questa disinibizione, in questo slancio desiderante, immediatamente emerge il bisogno-volontà di redistribuzione della ricchezza: quella ricchezza da cui il sistema capitalista-coloniale esclude socialmente.
In questa dinamica di apertura è storicamente normale che capiti un po’ di tutto, e spiace dover fare l’avvocato del diavolo, perché significa che c’è qualcuno che in questa dinamica vede, appunto il diavolo, trasformandola in una questione morale. Perché ci si indigna per delle macchine ribaltate e bruciate e non per le migliaia di ingiustizie quotidiane considerate normali? Il sistema capitalista-coloniale fa in modo che certe categorie di persone abbiano meno possibilità di accedere agli studi; se vi accedono, hanno meno possibilità di concluderli; se li concludono, hanno meno possibilità di trovare un lavoro; se lavorano, hanno meno possibilità di essere ben pagati. Si tratta di una questione prettamente sociale, e sollevarla è squisitamente politico, che lo si faccia scrivendo comunicati ben impaginati o saccheggiando centri commerciali.
Come mostra il caso di scuole e biblioteche, si potrebbe trovare una motivazione praticamente per ogni edificio dato alle fiamme nell’ultima settimana; a prescindere dalla sua funzione teorica e ideale ci si accorge che si tratta sempre di luoghi in cui si manifestano le disuguaglianze. Perché il sistema di oppressione e di esclusione dalla ricchezza è ovunque, e quando la rivolta esplode riesce a rendere visibile la sua presenza. Per dirla con Brecht, “tutti vedono la violenza del fiume in piena, ma nessuno quella degli argini che lo costringono”.
Le rivolte in Francia sono una questione sociale. Davanti all’esacerbarsi sempre più intenso della questione delle disuguaglianze, lo stato francese si trova a un bivio: da una parte, l’emancipazione e la redistribuzione sociale della ricchezza, ovvero la costruzione di una società più inclusiva, egalitaria ed emancipatrice; dall’altra, il pugno di ferro per ristabilire l’ordine che produce e perpetua tali disuguaglianze, la violenza nuda e cruda a difesa degli interessi del potere capitalista razzista e coloniale, ovvero la strada del fascismo. In linea con la tendenza degli ultimi anni, acceleratasi vistosamente negli ultimi sei mesi e precipitata apertamente la settimana scorsa, il governo francese ha scelto il fascismo. (monsieur en rouge)
Nel 1976, in One piece at a time, Johnny Cash canta l’aneddoto di un operaio che riesce a portar via dalla fabbrica in cui lavora, giorno dopo giorno, uno ad uno nella lunchbox ovvero quella che gli operai milanesi chiamerebbero schiscetta, tutti i pezzi necessari a costruirsi un’automobile per sé. D’altronde, come dice rassicurante il testo, il padrone non sentirà certo la mancanza di qualche bullone, e ancora meno se saranno spariti nel giro di anni. Così facendo, l’operaio della canzone si riappropria di una parte del proprio lavoro, che per contratto sarebbe tenuto a destinare esclusivamente al proprio padrone. Il risultato sarà un’automobile unica al mondo.
Esistono molti modi in cui il lavoro salariato, ridotto a strumento di produzione soprattutto nelle condizioni di lavoro della fabbrica, è capace di riappropriarsi del proprio lavoro e in generale della propria umanità: rallentamenti della produzione, produzione personale a fini commerciali, sabotaggi, picchetti, scioperi, manifestazioni spontanee in fabbrica, espulsione fisica degli ufficiali giudiziari o sequestro dei dirigenti, distruzione delle attrezzature, occupazioni delle fabbriche sono tra i più conosciuti. La disobbedienza è presente in numerose forme di elusione delle regole. Certamente tra le attività di questo tipo la meno nota, il fenomeno che nei paesi francofoni prende vari nomi tra cui travail en perruque (letteralmente “lavoro imparruccato”), travail en sous-sol (“lavoro sotterraneo”), travail de la main gauche (“lavoro della mano sinistra”), travail masqué (“lavoro mascherato”), è forse il più poetico (nel senso etimologico del termine: poetico innanzitutto perché creativo) e di un grande e profonda tenerezza. Nel lavoro en perruque, l’operaio produce, ma si tratta di una produzione molto particolare: anche se avviene sul posto di lavoro, con gli strumenti di lavoro e durante il tempo di lavoro, gli oggetti prodotti sono del tutto indipendenti dagli obiettivi produttivi del padrone. Così, c’è chi in una fabbrica di automobili si mette a produrre sottovasi e piedistalli, o chi in un cantiere navale forgia giocattoli e utensili, tutto ovviamente a spese del padrone il più delle volte ignaro. Originariamente, l’espressione di lavoro en perruque si riferiva probabilmente al camuffamento della natura del lavoro, che aveva tutte le sembianze di un normale e regolare lavoro di fabbrica senza tuttavia esserlo. Il lavoro en perruque può essere di natura utilitaristica ma anche di natura meramente artistica. Se Denis Poulot, ex-operaio che certamente nel suo ambiente aveva potuto osservare il fenomeno da vicino, spiega nel 1870 nell’opera Il sublime che «fare una parrucca è lavorare per sé», ridurre frettolosamente quest’attività tutta particolare ad un lavoro per sé significa non prendere in considerazione molte delle sue implicazioni sociali, psicologiche e anche politiche.
Oggetti prodotti en perruque allo stabilimento Renault St Ouen
Questa pratica può essere interpretata in alcuni casi come una forma di resistenza al lavoro alienato, attraverso la riappropriazione del sapere professionale. Un esempio di lavoro en perruque è stato ripreso di recente dal documentario in quattro puntate Le temps des ouvriers, dove Robert Kosmann, operaio e militante sindacale per anni alla fabbrica Renault di Saint Ouen, ne parla mostrando alcune delle opere finite: si tratta di statuette di omini o altri animali, carriole in miniatura, un gioco a incastro a forma di elefantino. Tutti oggetti usciti da una fabbrica di automobili, e senza che le leggi di mercato, il padrone o chi per lui abbiano deciso alcunché sulla loro natura, qualità, forma o funzione. «C’è un aspetto di rivolta e di trasgressione, anche per coloro che non sono militanti né sindacalisti. Il mio collega portoghese, Pedro Da Silva, ha fatto da sé tutti gli attrezzi che poi ha usato per costruire casa sua. Non ha mai voluto scioperare, non ha mai criticato il sistema di fabbrica, non ha mai criticato i capi… ma quando cominciava a lavorare alla perruque aveva un sorriso grande così perché aveva infranto la regola. La perruque è ambigua: non si può dire che sia soltanto resistenza all’ordine costituito, solo una forma di danneggiamento del sistema, perché una fabbrica non è esclusivamente lotta di classe e non è esclusivamente del padrone, dipende dai momenti, dai periodi, dalle giornate, dalle mattine a seconda di come ti svegli, insomma diciamo che è la vita».
La vita, infatti, è così: per quanto i rapporti sociali e i sistemi di dominio e di oppressione siano pervasivi, collateralmente si produce sempre qualcosa di inutile per il sistema produttivo, qualcosa che potrebbe essere un ingranaggio rotto. La diversità e la complessità delle forme di vita devia inesorabilmente dalle norme imposte. Ciò è vero al di là di qualunque presa di coscienza: come racconta lo stesso Kosmann, « Questa modesta produzione in tutto e per tutto, era un’esigenza, un divertimento e non aveva pretese all’epoca» In certi contesti, il fenomeno è stato talmente massiccio da avere permesso la creazione di veri e propri archivi come quello di Jan Middelbos, definito scherzosamente “artista anarco-parrucchiere”, o quello degli “oggetti di sciopero”, che a tale fenomeno deve molto.
La pratica del lavoro en perruque, oltre ad assumere varie forme secondo le inclinazioni e le condizioni di ciascuno, ha preso diverse denominazioni a seconda dei paesi in cui si è affermata, che richiamano di volta in volta differenti suoi aspetti differenti, secondo le sensibilità culturali e sociali specifiche del contesto. Negli Stati Uniti, si chiama homer, indicando che la produzione viene deviata dal suo obiettivo ufficiale, la vendita sul mercato, verso scopi che hanno a che fare con la vita domestica. In Gran Bretagna è noto come pilfering, che riunisce in un doppio senso le nozioni di taccheggio, per l’uso non regolamentare di tempo, attrezzi e materiali, e di sviolinata, perché il lavoro è fatto di soppiatto distraendo e ingannando la gerarchia incaricata di controllare il lavoro. Esistono poi nomi locali di cui sono esempi pinaille a Belfort, in Francia, e bricole in Bretagna. E in Italia? Dal gigantesco ma imperfetto archivio che è internet, in Italia non risulta niente di simile. Non esiste il fenomeno? Non se ne parla? Oppure non è mai stato studiato ed approfondito a livello analitico? La questione resta aperta e purtroppo anche qui non sarà dipanato il dubbio. Certo è che sarebbe alquanto singolare che un fenomeno del genere, se esistente, fosse sfuggito alla sensibilità del pensiero operaista che in Italia si tanto è sviluppato. Altra questione, emersa nella stesura di questo scritto, verte sul come chiamare una pratica simile: “taccheggio operaio”, “furtarello” o “lavoretto” sono tutte traduzioni possibili, ma non danno sufficiente dignità a questa pratica. Ma torniamo alle implicazioni psicologiche e sociali.
Quando al lavoro parziale e alienante della catena di montaggio si oppone la produzione artigianale, in cui si concepisce e si realizza ogni dettaglio, si lavora per se stessi, per ritrovare la propria creatività, la propria personalità, anche la propria manualità e il proprio sapere tecnico. A tal proposito si può prendere in prestito all’antropologia tedesca il concetto di Eigensinn definito dallo storico Alf Lüdtke, che nell’ambito della scuola di pensiero nota come “Storia della vita quotidiana”, si è molto soffermato sulle dinamiche di oppressione come pratica sociale che si articola a vari livelli nel vissuto delle persone. L’Eigensinn è una delle pratiche di dominio dal basso di cui è costellata la storia popolare. Tradotto con “senso di sé”, “ostinazione”, “individualismo”, “autonomia” o “dignità operaia” secondo l’orientamento ideologico e la sensibilità di quante e quanti hanno applicato o rielaborato il concetto, consiste nei molteplici modi in cui gli individui possono combinare la loro posizione dominata con la loro dignità personale o la loro autostima; modi, per dirla con le parole del sociologo francese Michel Verret, in cui i subalterni riescono a rendere “vivibile” questa posizione dominata, in tutti i luoghi della loro esistenza. La presa in mano degli strumenti di lavoro per fini estranei alla produzione di fabbrica è un esempio lampante di Eigensinn: è facile capire il “senso di sé” di un operaio che usa il proprio tempo, strappato alla tirannia dei turni di fabbrica, per produrre oggetti completamente inutili e inutilizzabili dal padrone come omini, animaletti, pupazzetti vari, o, quando utili, prodotti comunque alla faccia del padrone e in barba alle regole del padrone.
Due pupazzetti prodotti en perruque da Robert Kossmann e colleghi
Questa attività non è però importante soltanto dal punto di vista della soddisfazione di un’esigenza psicologica individuale, perché la sua natura è capace non solo di ridefinire il modo in cui si percepiscono i rapporti di produzione, ma anche di rimodellare le relazioni sociali e a volte di aprire nuovi spazi nel campo del possibile e dell’immaginabile. Ciò che caratterizza la perruque è allo stesso tempo la sua inutilità, la sua gratuità e la sua funzione di affermazione rispetto all’organizzazione produttiva e di legame creativo con gli altri individui. Andiamo con ordine.
Negli anni Settanta, in pieno fermento sociale, negli anni in cui il movimento operaio non manca di dare prove significative della propria capacità ad autorganizzarsi (per esempio con il controllo operaio della Lip a Besançon – purtroppo in italiano non si trova niente tranne questo parziale resoconto) e di autonomia operaia si sente molto parlare sia in Francia che in Italia, si parla di “riappropriazione degli oggetti” come forma di resistenza operaia alla razionalizzazione e si fornisce la perruque come esempio di riappropriazione.
Del lavoro en perruque ci sono stati usi conflittuali dichiarati, durante agitazioni sindacali, scioperi, occupazioni di fabbriche. Per esempio, nel 1952 gli operai dello stabilimento Renault a Billancourt fabbricarono dei pannelli in lamiera dai bordi taglienti per scoraggiare eventuali attacchi della polizia francese durante le manifestazioni contro il generale americano Ridgway venuto a Parigi durante la guerra di Corea. A Gijón, nelle Asturie, nel 2000 i lavoratori portuali che occupavano i cantieri navali di cui si minacciava la chiusura si sono contraddistinti per la costruzione di piccoli mortai artigianali e scudi in lamiera forniti di feritoie che garantivano la visibilità, permettendo ad una formazione a testuggine di avanzare senza troppi rischi verso la guardia civile spagnola e lanciare pietre e fuochi d’artificio di piccolo calibro. Ancora nelle Asturie, nel 2012 i minatori in sciopero hanno adottato tecniche simili.
In questo senso, il lavoro en perruque è stato una pratica selvaggia, nel senso che sfugge alle regole convenzionali, si sviluppa al di fuori di ogni organizzazione ufficiale e ha un carattere spontaneo e incontrollabile.
Gli usi apertamente conflittuali del lavoro en perruque costituiscono delle eccezioni rispetto alla normalità contraddittoria e ambivalente descritta da Robert Kosmann, ma per essere “selvaggia” questa pratica non deve necessariamente prendere forme simili: intrinsecamente, la perruque incarna un sistema di valori che ne fanno una sorta di anti-merce.
La perruque fa parte del circuito del dono che sovverte le logiche di mercato della produzione capitalistica finalizzata al profitto e guidata da motivazioni fondamentalmente egoistiche. La produzione en perruque non è mai destinata alla vendita: se il prodotto viene destinato alla vendita cessa di essere perruque e la sua produzione diventa lavoro clandestino. La perruque è l’antitesi assoluta della forma-merce. Ecco perché una delle forme privilegiate che assume è il regalo che è, insieme all’ospitalità e ai servizi resi, una delle tre forme fondamentali dell’economia del dono. In particolare, la cosiddetta perruque de conduite sarà un regalo, offerto dai compagni di lavoro per il pensionamento di un collega, che è, secondo lo spirito del dono, un modo di coltivare e nutrire il legame attraverso il bene. Se ha questa proprietà di nutrire e mantenere il legame, è perché nel dono offerto si dà qualcosa di sé: il tempo, la tecnica manuale, l’attenzione, la progettazione, la dedica. Ciò che il pensionato avrà in casa è quindi più di un semplice oggetto materiale: vi sarà contenuto qualcosa di chi gliel’ha data. Troviamo in questo caso e negli oggetti del dono in generale, un concetto di “spirito” proprio del pensiero animista, che attribuisce alle cose prodotte dall’uomo come agli esseri della natura una sostanza spirituale che le rende profondamente connesse al resto del mondo. Si tratta di un pensiero lontano anni luce dall’immaginario della modernità capitalistica, che tende a ridurre il rapporto con il mondo a quello della manipolazione tecnica per stabilire un controllo su di esso e soddisfare così una smodata voglia di conquista: la forma-merce, fondata sul valore di scambio più che sul valore d’uso, neutralizza totalmente la proprietà animistica del dono, perché permette di scambiare le cose senza che nulla fluisca tra le persone fuorché il denaro, che è anonimo mezzo di scambio. Questo è stato alla base di ciò che il grande sociologo tedesco Max Weber ha definito il “disincanto del mondo”: con l’universalizzazione e la radicalizzazione della forma-merce, le cose hanno perso la loro anima, hanno smesso di cantare e il mondo è diventato infinitamente triste. Come diceva Jacques Godbout, pensatore a cui si deve l’esplorazione psicanalitica della forma-dono in contrapposizione alle implicazioni della forma-merce, se vogliamo far rivivere il mondo, siamo condannati a reinventare una qualche forma di animismo.
Scarpette da 8,5 cm realizzate in una fabbrica francese occupata tra novembre e dicembre 1995.
Il lavoro en perruque è stato criticato da una parte del pensiero rivoluzionario perché costituirebbe una distrazione individualista che allontana la classe operaia dall’impegno per la lotta collettiva. A tali scuole di pensiero manca forse la consapevolezza di quanto le pratiche “interstiziali”, cioè quelle che si sviluppano ai margini dei meccanismi di oppressione, incidano sul vissuto delle persone contribuendo in maniera a volte determnante alla definizione di immaginari alternativi condivisi. Il fatto che questo genere di pratiche non sia una semplice distrazione dai pretesi obiettivi della soggettività rivoluzionaria ma che costituisca l’espressione di una condizione fondamentale alla realizzazione di qualunque presa di coscienza collettiva è mostrato dal funzionamento del processo di produzione en perruque: “Il fresatore sarà al servizio dell’elettricista che chiederà al tornitore di fare un pezzo sulla sua macchina” (Robert Kosmann, Perruque et bricole ouvrier). L’operaio dunque, dovendosi servire per la sua perruque di strumenti anche diversi da quelli che gli sono attribuiti nella divisione ufficiale del lavoro di fabbrica, non può che uscire dall’alienazione e interagire in modo alternativo con le macchine, i saperi, gli altri operai. In fabbrica, e fuori dalla regolamentazione ufficiale, anche i favori tra operai vengono gestiti in modo tale da rendere possibile una diversa configurazione delle relazioni sociali, uscendo qui e ora dai modi capitalisti e incidendo sul vissuto delle persone. Così, si possono intessere reti di mutuo scambio sotto forma di servizi resi, secondo il principio di reciprocità che alimenta la solidarietà dei lavoratori, senza la quale non sarebbe possibile alcuna lotta contro il capitalismo.
Allarghiamo adesso lo sguardo. In effetti, si potrebbe considerare il lavoro en perruque come un caso particolare di sabotaggio: i mezzi di produzione non sono resi inservibili, ma ci si serve dei mezzi di produzione per scopi diversi da quelli per cui sono stati concepiti nel sistema di fabbrica e in generale nel modo di produzione capitalistico, con un risultato momentaneo equivalente (la produzione ufficiale è interrotta o rallentata) e un risultato a lungo termine piuttosto simile (riduzione del plusvalore estratto, ovvero diminuzione del profitto da parte del padrone). Un sabotaggio, ma in forma creativa. Come non pensare alla moltitudine di pratiche di questo tipo anche al di fuori del sistema di fabbrica? Quante volte la creatività è esplosa insieme alla rabbia sociale negli ultimi anni? Quante volte vi abbiamo assistito? L’idea del movimento Occupy nel 2011 era partita dall’immaginazione creativa della rivista di critica pubblicitaria Adbusters. Dal ciclo di lotte delle Primavere arabe in poi, la creatività ha fatto irruzione nelle pratiche dei movimenti in ogni angolo del mondo, che al blocco dei flussi (occupazioni, scioperi, blocchi stradali, blocchi ferroviari), che è un modo di sabotare il funzionamento del sistema economico, hanno abbinato forme di comunicazione creativa, produzione artistica, costruzione alternativa degli spazi.
Certo, potrebbe essere dovuto alla logica pubblicitaria pervasiva propria di tutta società dello spettacolo, per cui anche chi produce immagini sovversive produce spettacoli nel formato proprio del sistema, ma potrebbe anche essere un sintomo della necessità di uscire dal sentimento di aridità emotiva prodotto dall’alienazione in tutte le attività che un individuo compie nel corso della propria giornata in una società capitalistica moderna. La società dello spettacolo è per Guy Debord così come per Christopher Lasch, una società che tende a ridurre gli individui, sia nella sfera della produzione che in quella del consumo, sia sul posto di lavoro che nelle attività del tempo libero, alla passività e alla dipendenza, scoraggiando l’iniziativa e l’autosufficienza e inducendo uno stato d’animo da spettatore che li condanna all’impotenza. Quelle immagini che conosciamo, provenienti dall’Iraq in rivolta, dal sollevamento libanese, dalla Francia delle rotonde occupate, dall’insurrezione in Ecuador, dall’ostinazione del movimento di Hong Kong, dai colori dell’improvvisa onda sociale cilena, ci mostrano persone tutt’altro che passive e dipendenti, più attrici che spettatrici, e più creatrici di quanto non sembri. La reazione del potere dinnanzi a queste situazioni è stata quasi immediatamente di incredulità: com’è possibile che le masse abbiano sabotato tutto senza motivo? In un certo senso, nella logica del potere, queste rivolte sono inutili, perché non rivendicano nulla di politicamente preciso dal punto di vista del linguaggio politico convenzionale: vogliono solo vivere e continuare a vivere, sembrano essere inarrestabili. Inutili, gratuite, selvagge, assetate di vissuto. Quelle immagini potrebbero essere delle perruques della società dello spettacolo.
Una strada di Santiago de Chile lunedì 11 novembre 2019.
Cosa succede quando si esce dalla passività a cui le masse sono ridotte nella società del consumo? Cosa succede se produciamo immagini e spettacoli fuori dai processi di produzione ordinari? Cosa succede se produciamo spettacoli en perruque, magari inutili, senza rispettare le regole, nei tempi interstiziali di altri spettacoli molto più conformi alle norme sociali? La risposta resta la stessa che per il lavoro in fabbrica: la perruque serve a rompere il sentimento di alienazione, cerca di dare un senso alla vita quotidiana in condizioni di oppressione, e lo fa in maniera individuale attraversando direttamente la mente, le mani, la pelle, insomma l’esperienza di chi vive l’oppressione. Non è ancora una presa di coscienza collettiva, né una strategia che abolisce lo stato di cose presente, ma riconosce implicitamente l’oppressione ed è una strategia di sopravvivenza in condizioni di subordinazione e dipendenza. Rischia di rendere sopportabile l’oppressione portando a sentimenti rinunciatari? Sì, ma fornisce chiavi per sentimenti opposti.
Ricapitolando, il fenomeno della perruque racchiude un insieme di comportamenti conflittuali che appartengono alla tradizione della resistenza operaia alla razionalizzazione della produzione: sono comportamenti oggettivamente conflittuali, anche se non necessariamente animati da una coscienza politica. La perruque è prodotta per sentire la macchina sotto il proprio controllo, e anche se spesso non è veramente così o lo è per brevi periodi irregolari che non intaccano il modello produttivo generale e quindi non costituisce un esempio di controllo operaio con la riappropriazione materiale dei mezzi di produzione, perlomeno ne è un’anticipazione psicologica, che contribuisce alla definizione di un’immaginario collettivo in cui soggiogare la macchina è possibile. Chissà che non sia possibile oggi, per sfuggire alla macchina capitalistica, considerare alla stregua di perruque tutte quelle innumerevoli azioni quotidiane, spesso spontanee, non in linea con la logica capitalistica a cui non diamo generalmente alcun peso politico. Certe cose sono conflittuali a prescindere da una presa di coscienza: il conflitto è intrinseco, inscritto nella posizione che esse assumono in quella rete di relazioni che è il mondo e che chiamiamo realtà. Non c’è contraddizione tra il desiderio immediato di appropriarsi della macchina e il principio rivoluzionario che quella stessa macchina vorrebbe trasformarla completamente: occorre superare questa falsa dicotomia.
Miklós Haraszti, fresatore alla fabbrica di trattori “Stella Rossa” in Ungheria negli anni ’70, parla in Salaire aux pièces – Ouvrier dans un pays de l’Est (Seuil, 1976) del sogno di una società in cui il lavoro è liberato come di «una Grande Parrucca realizzata su macchine subordinate dai nostri esperti alla doppia esigenza delle nostre reali necessità e delle nostre libertà nei loro confronti. Sarebbe il crepuscolo della tecnologia dei cronometri. Produrremmo solo ciò di cui i lavoratori en perruque associati a noi avrebbero bisogno e che ci permetterebbe di restare uniti nel lavoro en perruque. E lo produrremmo in maniera mille volte più efficiente di tutto ciò che si produce oggi». Sembrano altre parole per descrivere ciò che altri hanno chiamato “comunismo”: una libera associazione di lavoratori per far fronte ad esigenze che partono dai lavoratori stessi. Chissà che la Rivoluzione non si possa immaginare come una Grande Perruque?
Come l’operaio di One piece at a time, possiamo prenderci un pezzo alla volta ciò che desideriamo, fuori dalle regole e dalle logiche dominanti. Per costruire qualcosa di diverso, però, invece che una Cadillac.
Nota: Nella stesura di questo testo, ho attinto ampiamente a diverse fonti, ma per l’elaborazione del significato delle perruque come opposizione intrinseca al sistema produttivo capitalistico e alla tirannia del valore di scambio, mi sono soprattutto basato su questa analisi.
L’epoca in cui viviamo è un’epoca violenta: violento è il sistema economico, intrinsecamente autoritario, basato sulla gerarchia e sulla disciplina piuttosto che sulla partecipazione e sulla condivisione; violenta è l’esistenza precaria di milioni di persone, determinata dall’esigenza di una fonte inesauribile di schiavi ricattabili; violento è il destino di chi non possiede mezzi per vivere se non la possibilità di vendere la propria forza-lavoro; violenta è la negazione dei diritti a chi rifiuta di vivere seguendo questa regola; violenta è la costrizione cui sono soggetti esseri umani considerati da punire anziché da ascoltare; violento è il linguaggio che esecra le alternative, condanna la diversità, rafforza l’ordine costituito, accentua le discriminazioni e perpetua le disuguaglianze; violenti sono i luoghi comuni; violenta è la rimozione del processo di produzione dall’immaginario collettivo; violenta è la mercificazione di ogni cosa; violenta è l’imposizione culturale, la propagazione di stereotipi, la normazione dei comportamenti, la morbosità del decoro borghese.
Violenta dunque è quest’epoca in cui viviamo, ma il “reo tempo” non è questo tempo: la Storia è una storia di oppressioni, prodotte dall’esistenza nelle organizzazioni sociali di interessi contrapposti e inconciliabili.
Videro la storia all’opera gli schiavi che costruirono le grandi piramidi per i loro oppressori di millantata discendenza divina; la saggiarono i compagni di Spartaco nel risalire la penisola italica partendo dalla Sicilia per sfidare i loro padroni; l’attraversarono i contadini che si rivoltarono contro i signori che li affamavano; la sentirono sulla propria pelle i popoli invasi e conquistati; la misero alla prova i giacobini e i bolscevichi; la conobbero gli operai durante il processo di industrializzazione; l’assaggiarono i popoli sotto i regimi del Novecento; la sfidò la Resistenza europea; ne sperimentarono una manifestazione gli studenti e i lavoratori immateriali; la subirono le vittime della repressione, in tutte le epoche dall’inizio della storia e della società divisa in classi.
Un faraone, un aristocratico romano, un re, un cardinale, un borghese ottocentesco, un dittatore militare, un banchiere affabile: sono i volti del potere che opprime.
Non esiste tempo che non sia reo.
Con un po’ di ritardo, sfoglio le prime pagine de La Repubblica di oggi 11 settembre 2012.
La prima pagina stona con il linguaggio generalmente adottato dal giornale: «esplode la rabbia operaia». Ma il partito di Repubblica non era quello di chi sostiene che le lotte operaie siano ormai acqua passata, insomma una sorta di narcisismo velleitario mantenuto artificialmente in vita dai centri sociali e magari da qualche intellettualoide un po’ retrò? E infatti sì, sono retrò. Volti al passato. Antiprogressisti. Tanto che, come recita il catenaccio sottostante, contestualmente alla protesta degli operai Alcoa «il Pil cala del 2,6%». Se si va a leggere l’articolo sul crollo del Pil, a pag. 6, si scopre che il fatto che il Pil sia calato non è legato alla protesta da un rapporto stretto. O meglio, di certo un legame c’è, visto che il Pil è un indicatore della salute di un’economia capitalistica, ma il rapporto tra le due cose non è di causa-effetto, come sembrerebbe dalla prima pagina. Qual è il significato di questa scelta comunicativa? Consapevolmente o meno, il risultato ottenuto da questo “messaggio subliminale” è proprio l’associazione della «rabbia operaia» al calo del Pil, in un rapporto di causalità. Quindi “attenzione” dice La Repubblica “che a dar ragione a chi vuole un lavoro si torna alle candele e ai somari”. “Da questa crisi usciremo seguendo le direttive dei banchieri, ricchi e intelligenti, non le richieste e i bisogni dei lavoratori, poveri e piuttosto ignoranti”.
Alla seconda pagina il titolo racconta di «una giornata di guerriglia» a Roma. Cosa assolutamente falsa, come può confermare solo chi c’era o chi ha seguito la manifestazione in diretta, oltre che impossibile, a meno che non si creda possibile un’azione di guerriglia da parte di qualche centinaio di operai contro un dispiegamento di forze dell’ordine doppio in numero e infinitamente maggiore in organizzazione ed equipaggiamento.
Ma in fondo, da un giornale che chiama “lacrimogeni” i fumogeni da stadio, cosa potevamo aspettarci?
Ieri ho seguito la diretta del Corriere sulla manifestazione di protesta degli operai Alcoa a Roma.
Ho visto le loro espressioni oscillare tra speranza e disperazione, i loro spiriti a volte combattivi a volte rassegnati. Ho sentito le loro parole: «ma voi lo sapete cosa provo io che sto per perdere la casa? mi viene da piangere…» diceva un operaio, col caschetto in testa, di fronte a un’imponente dispiegamento di forze dell’ordine pubblico a tutela del Ministero dello Sviluppo economico, in via Molise. Si rivolgeva agli agenti, in assetto antisommossa, con le lacrime agli occhi. «Io non ho più niente e mi devo difendere da persone armate», diceva un altro accanto al primo, «se mi arrestano mi fanno un favore, almeno dò qualcosa da mangiare a mio figlio».
Quale disperazione può spingere dei lavoratori a pensieri del genere? La stessa che li portava a chiudersi in una miniera a più di trecento metri sotto terra, per diversi giorni. La stessa che portava alcuni dei loro compagni ad incatenarsi ai cancelli del Ministero, rifiutandosi di mangiare, fino a svenire per il caldo e la fame. La stessa che provavano quando, ieri, in cinquecento, hanno trovato ad accoglierli nella capitale più di mille agenti e decine di camionette della polizia. Un corteo barricato anche dall’interno, a cui lo stesso servizio d’ordine dei sindacati confederali permetteva di accedere solo a patto di essere lavoratori dell’Alcoa o tesserati, espellendo dalla manifestazione altre forze di sinistra che solidarizzavano, impedendo così qualsiasi solidarietà di classe, facendo passare l’azione per una protesta per gli interessi particolari dei lavoratori Alcoa.
Stefano Fassina, responsabile economia del Pd, ha fatto provocatoriamente comparsa in mezzo al corteo per essere subito cacciato di malo modo dai lavoratori. Ha poi dichiarato che chi lo aveva respinto non era lavoratore Alcoa, come se questo cambiasse qualcosa. Insomma, come quando a Taranto, quando furono interrotti i comizi della CGIL, la Camusso spiegò che i contestatori (operai Ilva) avevano «rubato la piazza» ai lavoratori (operai Ilva).
Ieri ho letto anche il capitolo XIII de La battaglia, romanzo di John Steinbeck sull’organizzazione di uno sciopero di braccianti americani all’epoca della Grande Depressione. Le analogie con il presente non mancano e per un caso fortuito mi sono trovato a leggere nel romanzo le notizie di attualità e, viceversa, nelle notizie ho ritrovato atteggiamenti e parole dei personaggi del romanzo.
Vi propongo di seguito un dialogo, che ho letto pensando agli operai Alcoa, che nel frattempo erano a Roma e promettevano «una manifestazione al giorno se le cose non cambiano». Prima di augurarvi buona lettura (da metà pag. 114 a tre quatri di pag. 117), ecco una domanda:
Se l’Alcoa fosse una banca, in quanti minuti l’avrebbero rimessa in sesto?
Fin dai primi anni di elaborazione delle teorie marxiste e della conseguente presa di coscienza del conflitto sociale di classe, la struttura di quest’ultimo ha trovato sostegno pragmatico e giustificazione teorica nella pratica della minaccia.
I movimenti operai dei primi del Novecento contavano sulla possibilità reale di provvedere, se le istanze proprie della classe proletaria non fossero state prese in considerazione dalla classe proprietaria, alla costruzione di un modello organizzativo autonomo e autogestito che capovolgesse dialetticamente i rapporti tra capitale e lavoro salariato, così che, per dirla con Marx stesso, o meglio, per ragioni di precisione storico-filologica, con Hegel suo maestro, il servo potesse diventare «padrone del padrone» e viceversa, il padrone potesse diventare «servo del servo».
Si pensi, per esempio, al cosiddetto biennio rosso (1918-20), periodo di intensi contrasti e fortissimi conflitti, anche parecchio sanguinarî, che sorsero spontaneamente in tutto il continente europeo e per due anni furono sul punto di mettere in ginocchio lo Stato borghese riducendolo progressivamente ad una condizione di timore che si risolse, secondo la situazione specifica di ogni paese, con l’istaurazione di governi reazionari, militaristi o addirittura, come nel caso della Germania e dell’Italia, totalitari o quasi-totalitari: durante il suddetto periodo l’efficacia della protesta dipendeva primariamente dalla capacità che avevano gli organi di resistenza economica e sociale (partiti rivoluzionari e camere del lavoro) di presentare alla classe non produttiva una minaccia, cioè la minaccia di rivoluzionare il sistema produttivo attraverso l’utilizzo di quella stessa disciplina e organizzazione che il vecchio sistema aveva insegnato, qualora gli esponenti del vecchio sistema e i magnati industriali non avessero sua sponte ceduto, infine, di fronte ad una crisi economica evidentemente irrecuperabile nel rispetto dei diritti umani, tra cui il diritto al lavoro, ad una vita vivibile e fuori dalla schiavità e dallo sfruttamento.
Il fenomeno non è valido solo per il periodo circoscritto di cui sopra, ma è rappresentativo di un’epoca intera, in cui l’autaut dato da chi protesta suona più o meno così: «visto che a lavorare e rendere operative le vostre decisioni siamo noi, o decidiamo anche noi, oppure lavoriamo da soli e, in assenza di chi lo renda operativo seguendo le vostre disposizioni, non avrà più alcun senso il vostro decidere». I soggetti di questa minaccia sono i consigli di fabbrica e le cooperative agricole, e gli strumenti per esprimerla e renderla manifesta sono gli scioperi, l’occupazione delle fabbriche e, anche sul piano sociale e cognitivo, i centri sociali, da considerarsi come mezzi di affermazione e diffusione dei saperi indipendenti in cui convergono e vengono incanalate le altre forme di lotta e, eventualmente, ne vengono elaborate nuove attraverso lapratica della consivisione e dello scambio democratico e dialogico.