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  • La perruque e le pratiche interstiziali nel vissuto delle lotte

    Nel 1976, in One piece at a time, Johnny Cash canta l’aneddoto di un operaio che riesce a portar via dalla fabbrica in cui lavora, giorno dopo giorno, uno ad uno nella lunchbox ovvero quella che gli operai milanesi chiamerebbero schiscetta, tutti i pezzi necessari a costruirsi un’automobile per sé. D’altronde, come dice rassicurante il testo, il padrone non sentirà certo la mancanza di qualche bullone, e ancora meno se saranno spariti nel giro di anni. Così facendo, l’operaio della canzone si riappropria di una parte del proprio lavoro, che per contratto sarebbe tenuto a destinare esclusivamente al proprio padrone. Il risultato sarà un’automobile unica al mondo.

    Esistono molti modi in cui il lavoro salariato, ridotto a strumento di produzione soprattutto nelle condizioni di lavoro della fabbrica, è capace di riappropriarsi del proprio lavoro e in generale della propria umanità: rallentamenti della produzione, produzione personale a fini commerciali, sabotaggi, picchetti, scioperi, manifestazioni spontanee in fabbrica, espulsione fisica degli ufficiali giudiziari o sequestro dei dirigenti, distruzione delle attrezzature, occupazioni delle fabbriche sono tra i più conosciuti. La disobbedienza è presente in numerose forme di elusione delle regole. Certamente tra le attività di questo tipo la meno nota, il fenomeno che nei paesi francofoni prende vari nomi tra cui travail en perruque (letteralmente “lavoro imparruccato”), travail en sous-sol (“lavoro sotterraneo”), travail de la main gauche (“lavoro della mano sinistra”), travail masqué (“lavoro mascherato”), è forse il più poetico (nel senso etimologico del termine: poetico innanzitutto perché creativo) e di un grande e profonda tenerezza. Nel lavoro en perruque, l’operaio produce, ma si tratta di una produzione molto particolare: anche se avviene sul posto di lavoro, con gli strumenti di lavoro e durante il tempo di lavoro, gli oggetti prodotti sono del tutto indipendenti dagli obiettivi produttivi del padrone. Così, c’è chi in una fabbrica di automobili si mette a produrre sottovasi e piedistalli, o chi in un cantiere navale forgia giocattoli e utensili, tutto ovviamente a spese del padrone il più delle volte ignaro. Originariamente, l’espressione di lavoro en perruque si riferiva probabilmente al camuffamento della natura del lavoro, che aveva tutte le sembianze di un normale e regolare lavoro di fabbrica senza tuttavia esserlo. Il lavoro en perruque può essere di natura utilitaristica ma anche di natura meramente artistica. Se Denis Poulot, ex-operaio che certamente nel suo ambiente aveva potuto osservare il fenomeno da vicino, spiega nel 1870 nell’opera Il sublime che «fare una parrucca è lavorare per sé», ridurre frettolosamente quest’attività tutta particolare ad un lavoro per sé significa non prendere in considerazione molte delle sue implicazioni sociali, psicologiche e anche politiche.

    Oggetti prodotti en perruque allo stabilimento Renault St Ouen

    Questa pratica può essere interpretata in alcuni casi come una forma di resistenza al lavoro alienato, attraverso la riappropriazione del sapere professionale. Un esempio di lavoro en perruque è stato ripreso di recente dal documentario in quattro puntate Le temps des ouvriers, dove Robert Kosmann, operaio e militante sindacale per anni alla fabbrica Renault di Saint Ouen, ne parla mostrando alcune delle opere finite: si tratta di statuette di omini o altri animali, carriole in miniatura, un gioco a incastro a forma di elefantino. Tutti oggetti usciti da una fabbrica di automobili, e senza che le leggi di mercato, il padrone o chi per lui abbiano deciso alcunché sulla loro natura, qualità, forma o funzione. «C’è un aspetto di rivolta e di trasgressione, anche per coloro che non sono militanti né sindacalisti. Il mio collega portoghese, Pedro Da Silva, ha fatto da sé tutti gli attrezzi che poi ha usato per costruire casa sua. Non ha mai voluto scioperare, non ha mai criticato il sistema di fabbrica, non ha mai criticato i capi… ma quando cominciava a lavorare alla perruque aveva un sorriso grande così perché aveva infranto la regola. La perruque è ambigua: non si può dire che sia soltanto resistenza all’ordine costituito, solo una forma di danneggiamento del sistema, perché una fabbrica non è esclusivamente lotta di classe e non è esclusivamente del padrone, dipende dai momenti, dai periodi, dalle giornate, dalle mattine a seconda di come ti svegli, insomma diciamo che è la vita».

    La vita, infatti, è così: per quanto i rapporti sociali e i sistemi di dominio e di oppressione siano pervasivi, collateralmente si produce sempre qualcosa di inutile per il sistema produttivo, qualcosa che potrebbe essere un ingranaggio rotto. La diversità e la complessità delle forme di vita devia inesorabilmente dalle norme imposte. Ciò è vero al di là di qualunque presa di coscienza: come racconta lo stesso Kosmann, « Questa modesta produzione in tutto e per tutto, era un’esigenza, un divertimento e non aveva pretese all’epoca»
    In certi contesti, il fenomeno è stato talmente massiccio da avere permesso la creazione di veri e propri archivi come quello di Jan Middelbos, definito scherzosamente “artista anarco-parrucchiere”, o quello degli “oggetti di sciopero”, che a tale fenomeno deve molto.

    La pratica del lavoro en perruque, oltre ad assumere varie forme secondo le inclinazioni e le condizioni di ciascuno, ha preso diverse denominazioni a seconda dei paesi in cui si è affermata, che richiamano di volta in volta differenti suoi aspetti differenti, secondo le sensibilità culturali e sociali specifiche del contesto. Negli Stati Uniti, si chiama homer, indicando che la produzione viene deviata dal suo obiettivo ufficiale, la vendita sul mercato, verso scopi che hanno a che fare con la vita domestica. In Gran Bretagna è noto come pilfering, che riunisce in un doppio senso le nozioni di taccheggio, per l’uso non regolamentare di tempo, attrezzi e materiali, e di sviolinata, perché il lavoro è fatto di soppiatto distraendo e ingannando la gerarchia incaricata di controllare il lavoro. Esistono poi nomi locali di cui sono esempi pinaille a Belfort, in Francia, e bricole in Bretagna. E in Italia? Dal gigantesco ma imperfetto archivio che è internet, in Italia non risulta niente di simile. Non esiste il fenomeno? Non se ne parla? Oppure non è mai stato studiato ed approfondito a livello analitico? La questione resta aperta e purtroppo anche qui non sarà dipanato il dubbio. Certo è che sarebbe alquanto singolare che un fenomeno del genere, se esistente, fosse sfuggito alla sensibilità del pensiero operaista che in Italia si tanto è sviluppato. Altra questione, emersa nella stesura di questo scritto, verte sul come chiamare una pratica simile: “taccheggio operaio”, “furtarello” o “lavoretto” sono tutte traduzioni possibili, ma non danno sufficiente dignità a questa pratica. Ma torniamo alle implicazioni psicologiche e sociali.

    Quando al lavoro parziale e alienante della catena di montaggio si oppone la produzione artigianale, in cui si concepisce e si realizza ogni dettaglio, si lavora per se stessi, per ritrovare la propria creatività, la propria personalità, anche la propria manualità e il proprio sapere tecnico. A tal proposito si può prendere in prestito all’antropologia tedesca il concetto di Eigensinn definito dallo storico Alf Lüdtke, che nell’ambito della scuola di pensiero nota come “Storia della vita quotidiana”, si è molto soffermato sulle dinamiche di oppressione come pratica sociale che si articola a vari livelli nel vissuto delle persone. L’Eigensinn è una delle pratiche di dominio dal basso di cui è costellata la storia popolare. Tradotto con “senso di sé”, “ostinazione”, “individualismo”, “autonomia” o “dignità operaia” secondo l’orientamento ideologico e la sensibilità di quante e quanti hanno applicato o rielaborato il concetto, consiste nei molteplici modi in cui gli individui possono combinare la loro posizione dominata con la loro dignità personale o la loro autostima; modi, per dirla con le parole del sociologo francese Michel Verret, in cui i subalterni riescono a rendere “vivibile” questa posizione dominata, in tutti i luoghi della loro esistenza. La presa in mano degli strumenti di lavoro per fini estranei alla produzione di fabbrica è un esempio lampante di Eigensinn: è facile capire il “senso di sé” di un operaio che usa il proprio tempo, strappato alla tirannia dei turni di fabbrica, per produrre oggetti completamente inutili e inutilizzabili dal padrone come omini, animaletti, pupazzetti vari, o, quando utili, prodotti comunque alla faccia del padrone e in barba alle regole del padrone.

    Due pupazzetti prodotti en perruque da Robert Kossmann e colleghi

    Questa attività non è però importante soltanto dal punto di vista della soddisfazione di un’esigenza psicologica individuale, perché la sua natura è capace non solo di ridefinire il modo in cui si percepiscono i rapporti di produzione, ma anche di rimodellare le relazioni sociali e a volte di aprire nuovi spazi nel campo del possibile e dell’immaginabile. Ciò che caratterizza la perruque è allo stesso tempo la sua inutilità, la sua gratuità e la sua funzione di affermazione rispetto all’organizzazione produttiva e di legame creativo con gli altri individui. Andiamo con ordine.

    Negli anni Settanta, in pieno fermento sociale, negli anni in cui il movimento operaio non manca di dare prove significative della propria capacità ad autorganizzarsi (per esempio con il controllo operaio della Lip a Besançon – purtroppo in italiano non si trova niente tranne questo parziale resoconto) e di autonomia operaia si sente molto parlare sia in Francia che in Italia, si parla di “riappropriazione degli oggetti” come forma di resistenza operaia alla razionalizzazione e si fornisce la perruque come esempio di riappropriazione.

    Del lavoro en perruque ci sono stati usi conflittuali dichiarati, durante agitazioni sindacali, scioperi, occupazioni di fabbriche. Per esempio, nel 1952 gli operai dello stabilimento Renault a Billancourt fabbricarono dei pannelli in lamiera dai bordi taglienti per scoraggiare eventuali attacchi della polizia francese durante le manifestazioni contro il generale americano Ridgway venuto a Parigi durante la guerra di Corea. A Gijón, nelle Asturie, nel 2000 i lavoratori portuali che occupavano i cantieri navali di cui si minacciava la chiusura si sono contraddistinti per la costruzione di piccoli mortai artigianali e scudi in lamiera forniti di feritoie che garantivano la visibilità, permettendo ad una formazione a testuggine di avanzare senza troppi rischi verso la guardia civile spagnola e lanciare pietre e fuochi d’artificio di piccolo calibro. Ancora nelle Asturie, nel 2012 i minatori in sciopero hanno adottato tecniche simili.

    In questo senso, il lavoro en perruque è stato una pratica selvaggia, nel senso che sfugge alle regole convenzionali, si sviluppa al di fuori di ogni organizzazione ufficiale e ha un carattere spontaneo e incontrollabile.

    Gli usi apertamente conflittuali del lavoro en perruque costituiscono delle eccezioni rispetto alla normalità contraddittoria e ambivalente descritta da Robert Kosmann, ma per essere “selvaggia” questa pratica non deve necessariamente prendere forme simili: intrinsecamente, la perruque incarna un sistema di valori che ne fanno una sorta di anti-merce.

    La perruque fa parte del circuito del dono che sovverte le logiche di mercato della produzione capitalistica finalizzata al profitto e guidata da motivazioni fondamentalmente egoistiche. La produzione en perruque non è mai destinata alla vendita: se il prodotto viene destinato alla vendita cessa di essere perruque e la sua produzione diventa lavoro clandestino. La perruque è l’antitesi assoluta della forma-merce. Ecco perché una delle forme privilegiate che assume è il regalo che è, insieme all’ospitalità e ai servizi resi, una delle tre forme fondamentali dell’economia del dono.
    In particolare, la cosiddetta perruque de conduite sarà un regalo, offerto dai compagni di lavoro per il pensionamento di un collega, che è, secondo lo spirito del dono, un modo di coltivare e nutrire il legame attraverso il bene. Se ha questa proprietà di nutrire e mantenere il legame, è perché nel dono offerto si dà qualcosa di sé: il tempo, la tecnica manuale, l’attenzione, la progettazione, la dedica. Ciò che il pensionato avrà in casa è quindi più di un semplice oggetto materiale: vi sarà contenuto qualcosa di chi gliel’ha data. Troviamo in questo caso e negli oggetti del dono in generale, un concetto di “spirito” proprio del pensiero animista, che attribuisce alle cose prodotte dall’uomo come agli esseri della natura una sostanza spirituale che le rende profondamente connesse al resto del mondo. Si tratta di un pensiero lontano anni luce dall’immaginario della modernità capitalistica, che tende a ridurre il rapporto con il mondo a quello della manipolazione tecnica per stabilire un controllo su di esso e soddisfare così una smodata voglia di conquista: la forma-merce, fondata sul valore di scambio più che sul valore d’uso, neutralizza totalmente la proprietà animistica del dono, perché permette di scambiare le cose senza che nulla fluisca tra le persone fuorché il denaro, che è anonimo mezzo di scambio. Questo è stato alla base di ciò che il grande sociologo tedesco Max Weber ha definito il “disincanto del mondo”: con l’universalizzazione e la radicalizzazione della forma-merce, le cose hanno perso la loro anima, hanno smesso di cantare e il mondo è diventato infinitamente triste. Come diceva Jacques Godbout, pensatore a cui si deve l’esplorazione psicanalitica della forma-dono in contrapposizione alle implicazioni della forma-merce, se vogliamo far rivivere il mondo, siamo condannati a reinventare una qualche forma di animismo.

    Scarpette da 8,5 cm realizzate in una fabbrica francese occupata tra novembre e dicembre 1995.

    Il lavoro en perruque è stato criticato da una parte del pensiero rivoluzionario perché costituirebbe una distrazione individualista che allontana la classe operaia dall’impegno per la lotta collettiva. A tali scuole di pensiero manca forse la consapevolezza di quanto le pratiche “interstiziali”, cioè quelle che si sviluppano ai margini dei meccanismi di oppressione, incidano sul vissuto delle persone contribuendo in maniera a volte determnante alla definizione di immaginari alternativi condivisi. Il fatto che questo genere di pratiche non sia una semplice distrazione dai pretesi obiettivi della soggettività rivoluzionaria ma che costituisca l’espressione di una condizione fondamentale alla realizzazione di qualunque presa di coscienza collettiva è mostrato dal funzionamento del processo di produzione en perruque: “Il fresatore sarà al servizio dell’elettricista che chiederà al tornitore di fare un pezzo sulla sua macchina” (Robert Kosmann, Perruque et bricole ouvrier). L’operaio dunque, dovendosi servire per la sua perruque di strumenti anche diversi da quelli che gli sono attribuiti nella divisione ufficiale del lavoro di fabbrica, non può che uscire dall’alienazione e interagire in modo alternativo con le macchine, i saperi, gli altri operai. In fabbrica, e fuori dalla regolamentazione ufficiale, anche i favori tra operai vengono gestiti in modo tale da rendere possibile una diversa configurazione delle relazioni sociali, uscendo qui e ora dai modi capitalisti e incidendo sul vissuto delle persone. Così, si possono intessere reti di mutuo scambio sotto forma di servizi resi, secondo il principio di reciprocità che alimenta la solidarietà dei lavoratori, senza la quale non sarebbe possibile alcuna lotta contro il capitalismo.

    Allarghiamo adesso lo sguardo. In effetti, si potrebbe considerare il lavoro en perruque come un caso particolare di sabotaggio: i mezzi di produzione non sono resi inservibili, ma ci si serve dei mezzi di produzione per scopi diversi da quelli per cui sono stati concepiti nel sistema di fabbrica e in generale nel modo di produzione capitalistico, con un risultato momentaneo equivalente (la produzione ufficiale è interrotta o rallentata) e un risultato a lungo termine piuttosto simile (riduzione del plusvalore estratto, ovvero diminuzione del profitto da parte del padrone). Un sabotaggio, ma in forma creativa. Come non pensare alla moltitudine di pratiche di questo tipo anche al di fuori del sistema di fabbrica? Quante volte la creatività è esplosa insieme alla rabbia sociale negli ultimi anni? Quante volte vi abbiamo assistito? L’idea del movimento Occupy nel 2011 era partita dall’immaginazione creativa della rivista di critica pubblicitaria Adbusters. Dal ciclo di lotte delle Primavere arabe in poi, la creatività ha fatto irruzione nelle pratiche dei movimenti in ogni angolo del mondo, che al blocco dei flussi (occupazioni, scioperi, blocchi stradali, blocchi ferroviari), che è un modo di sabotare il funzionamento del sistema economico, hanno abbinato forme di comunicazione creativa, produzione artistica, costruzione alternativa degli spazi.

    Certo, potrebbe essere dovuto alla logica pubblicitaria pervasiva propria di tutta società dello spettacolo, per cui anche chi produce immagini sovversive produce spettacoli nel formato proprio del sistema, ma potrebbe anche essere un sintomo della necessità di uscire dal sentimento di aridità emotiva prodotto dall’alienazione in tutte le attività che un individuo compie nel corso della propria giornata in una società capitalistica moderna. La società dello spettacolo è per Guy Debord così come per Christopher Lasch, una società che tende a ridurre gli individui, sia nella sfera della produzione che in quella del consumo, sia sul posto di lavoro che nelle attività del tempo libero, alla passività e alla dipendenza, scoraggiando l’iniziativa e l’autosufficienza e inducendo uno stato d’animo da spettatore che li condanna all’impotenza. Quelle immagini che conosciamo, provenienti dall’Iraq in rivolta, dal sollevamento libanese, dalla Francia delle rotonde occupate, dall’insurrezione in Ecuador, dall’ostinazione del movimento di Hong Kong, dai colori dell’improvvisa onda sociale cilena, ci mostrano persone tutt’altro che passive e dipendenti, più attrici che spettatrici, e più creatrici di quanto non sembri. La reazione del potere dinnanzi a queste situazioni è stata quasi immediatamente di incredulità: com’è possibile che le masse abbiano sabotato tutto senza motivo? In un certo senso, nella logica del potere, queste rivolte sono inutili, perché non rivendicano nulla di politicamente preciso dal punto di vista del linguaggio politico convenzionale: vogliono solo vivere e continuare a vivere, sembrano essere inarrestabili. Inutili, gratuite, selvagge, assetate di vissuto. Quelle immagini potrebbero essere delle perruques della società dello spettacolo.

    Una strada di Santiago de Chile lunedì 11 novembre 2019.

    Cosa succede quando si esce dalla passività a cui le masse sono ridotte nella società del consumo? Cosa succede se produciamo immagini e spettacoli fuori dai processi di produzione ordinari? Cosa succede se produciamo spettacoli en perruque, magari inutili, senza rispettare le regole, nei tempi interstiziali di altri spettacoli molto più conformi alle norme sociali? La risposta resta la stessa che per il lavoro in fabbrica: la perruque serve a rompere il sentimento di alienazione, cerca di dare un senso alla vita quotidiana in condizioni di oppressione, e lo fa in maniera individuale attraversando direttamente la mente, le mani, la pelle, insomma l’esperienza di chi vive l’oppressione. Non è ancora una presa di coscienza collettiva, né una strategia che abolisce lo stato di cose presente, ma riconosce implicitamente l’oppressione ed è una strategia di sopravvivenza in condizioni di subordinazione e dipendenza. Rischia di rendere sopportabile l’oppressione portando a sentimenti rinunciatari? Sì, ma fornisce chiavi per sentimenti opposti.

    Ricapitolando, il fenomeno della perruque racchiude un insieme di comportamenti conflittuali che appartengono alla tradizione della resistenza operaia alla razionalizzazione della produzione: sono comportamenti oggettivamente conflittuali, anche se non necessariamente animati da una coscienza politica. La perruque è prodotta per sentire la macchina sotto il proprio controllo, e anche se spesso non è veramente così o lo è per brevi periodi irregolari che non intaccano il modello produttivo generale e quindi non costituisce un esempio di controllo operaio con la riappropriazione materiale dei mezzi di produzione, perlomeno ne è un’anticipazione psicologica, che contribuisce alla definizione di un’immaginario collettivo in cui soggiogare la macchina è possibile. Chissà che non sia possibile oggi, per sfuggire alla macchina capitalistica, considerare alla stregua di perruque tutte quelle innumerevoli azioni quotidiane, spesso spontanee, non in linea con la logica capitalistica a cui non diamo generalmente alcun peso politico. Certe cose sono conflittuali a prescindere da una presa di coscienza: il conflitto è intrinseco, inscritto nella posizione che esse assumono in quella rete di relazioni che è il mondo e che chiamiamo realtà. Non c’è contraddizione tra il desiderio immediato di appropriarsi della macchina e il principio rivoluzionario che quella stessa macchina vorrebbe trasformarla completamente: occorre superare questa falsa dicotomia.

    Miklós Haraszti, fresatore alla fabbrica di trattori “Stella Rossa” in Ungheria negli anni ’70, parla in Salaire aux pièces – Ouvrier dans un pays de l’Est (Seuil, 1976) del sogno di una società in cui il lavoro è liberato come di «una Grande Parrucca realizzata su macchine subordinate dai nostri esperti alla doppia esigenza delle nostre reali necessità e delle nostre libertà nei loro confronti. Sarebbe il crepuscolo della tecnologia dei cronometri. Produrremmo solo ciò di cui i lavoratori en perruque associati a noi avrebbero bisogno e che ci permetterebbe di restare uniti nel lavoro en perruque. E lo produrremmo in maniera mille volte più efficiente di tutto ciò che si produce oggi».
    Sembrano altre parole per descrivere ciò che altri hanno chiamato “comunismo”: una libera associazione di lavoratori per far fronte ad esigenze che partono dai lavoratori stessi. Chissà che la Rivoluzione non si possa immaginare come una Grande Perruque?

    Come l’operaio di One piece at a time, possiamo prenderci un pezzo alla volta ciò che desideriamo, fuori dalle regole e dalle logiche dominanti. Per costruire qualcosa di diverso, però, invece che una Cadillac.

    Nota: Nella stesura di questo testo, ho attinto ampiamente a diverse fonti, ma per l’elaborazione del significato delle perruque come opposizione intrinseca al sistema produttivo capitalistico e alla tirannia del valore di scambio, mi sono soprattutto basato su questa analisi.

  • L’orgasmo della mente

    «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo».
    Mahatma Gandhi

    Non esiste aspetto della nostra vita che non sia in qualche modo influenzato dai rapporti sociali che, come singoli, intratteniamo con i nostri simili. Fin da quando nasciamo, il nostro cervello ancora in sviluppo risente della presenza dell’ambiente culturale, della rete di relazioni interpersonali, della simbologia del linguaggio: da queste cose esso è plasmato, sia metaforicamente che materialmente. Il nostro modo di vivere, di parlare, di pensare, di amare, di relazionarci, dipende in ultima analisi dall’influenza che la società esercita su di noi, attraverso la creazione e trasmissione di valori, l’insegnamento della cultura, i condizionamenti cognitivi del linguaggio, la tendenza all’omologazione, la pressione conformista. Siamo imbrigliati in ogni nostra azione, siamo vincolati da gabbie invisibili che confinano l’Io alle sole regioni permesse dai rapporti sociali.

    Prendere coscienza di questo è il primo passo verso la liberazione individuale, che precede, accompagna e segue la liberazione sociale: senza la prima, la seconda è vuota; senza la seconda, la prima è sterile. Una rivoluzione per potersi definire tale deve comprendere, in senso etimologico, la rottura, la discontinuità, nell’approccio che il singolo ha rispetto alla società e alla natura: deve comportare un ribaltamento nella visione del mondo.

    Potrebbe forse sembrare, da ciò che si è detto, che liberazione individuale e liberazione sociale siano due cose separate, nettamente distinguibili. Non è così. Le due cose possono commistionarsi insieme a dare una liberazione dell’Io in funzione della liberazione sociale, la quale risulta dall’incontro degli Io liberati e dal conseguente potenziale di rottura esplosiva.

    Quando si dice che noi «dobbiamo essere i primi a cambiare» si intende questo: la necessità di stravolgere gli schemi e i canoni imposti. A partire dalla scelta del prodotto da acquistare, per finire con il modo di camminare, definito dalla psicogeografia situazionista, passando per il modo di interpretare le azioni di altre persone e addirittura di noi stessi, per l’atteggiamento che adottiamo quando viviamo un’esperienza nuova, per la scelta di ciò che mangiamo, per il modo di usare uno strumento di comunicazione, per il nostro modo di vivere le relazioni sociali e affettive, i nostri amori, le nostre soddisfazioni, le nostre delusioni. Si può diventare un ingranaggio inceppato. Un ingranaggio inceppato ostacola il funzionamento della macchina. Non serve moltiplicare i propri punti di rottura. A volte ne basta uno per scatenare un’energia con forte carica rivoluzionaria. È un atto politico, di lotta. Un atto che inizia dalla mente, dalla persona.

    La forza politica si produce quando le alternative si traducono in reale, invadono la vita delle persone, la abbracciano, si compenetrano in essa. Quando l’arte, la cultura, il linguaggio, le singole azioni, entrano nella lotta, assumono un significato permeando la nostra vita in ogni suo momento e unificando la vita stessa con la lotta. Allora forse si può vincere.

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  • La Lotta è il Tempo

    Ieri sera c’è stata a Pisa un’assemblea di Movimento a cui ho partecipato e in cui sono intervenuto.
    Dal momento che ho messo abbastanza carne al fuoco e che in seguito a questo mio intervento l’assemblea ha affrontato dei discorsi ricchi, interessanti e costruttivi, vorrei cercare di riportarlo per iscritto qui, almeno in linea di massima, per condividerlo con tutti sperando di affrontare nuovamente quegli argomenti che mi stanno a cuore e che secondo me sono centrali per la riuscita e il successo reale delle attuali proteste mondiali contro il predominio della finanza sulla politica e la società (leggasi socialità).
    Ho sentito molti parlare della questione del 15 ottobre e di come il movimento dovrà rapportarsi a questa data, come dovrà elaborarla, farla propria, digerire le sconfitte e le vittorie di quella giornata e trarne le dovute conclusioni. Però mentre noi ne parliamo è già passato da allora quasi un mese e il nostro problema principale è che questo movimento, in Italia, sembra scemare e trovarsi in una situazione di stallo se non di reflusso. Cerchiamo di capire perchè e partiamo da un’altra osservazione: la stessa cosa è successa nelle giornate di Luglio del 2001, con il movimento cosiddetto “noglobal” contro il G8, il 13 febbraio 2003, con il movimento, anch’esso mondiale, contro la guerra in Iraq, il 14 dicembre dell’anno scorso, con il movimento universitario. Ora si ripete il 15 ottobre. Evidentemente sono stati fatti degli errori e per di più ripetutamente. Ci sono però dei movimenti che non hanno conosciuto questo decorso e nei quali non si è verificato questo fenomeno di reflusso in seguito alla data principale di mobilitazione: per esempio il movimento NoTav o il movimento OccupyQualcosa nel resto del mondo.

    Il movimento NoTav non ha mai fissato delle scadenze, delle date più importanti di altre. Se il 3 luglio c’è stata una grande manifestazione nei boschi della Val Susa con scontri anche violenti (in verità più che altro era un attacco da parte della polizia), ora i NoTav non stanno a piangersi addosso e a parlare di un fantomatico “post-03/07”. Noi invece parliamo di “post-15/10”. Perchè? Perchè il 3 luglio i NoTav non hanno giocato il tutto per tutto, non hanno concentrato tutte le loro forze su una singola data sperando che andasse bene, salvo poi leccarsi le ferite e pigliarlo in quel posto se fosse andata male. Non hanno fatto assemblee intitolandole “verso il 3 luglio”: hanno deciso di porre dei punti fissi sugli obiettivi del movimento anziché sui metodi, hanno fatto crollare la retorica repubblichista di distinzione tra manifestanti violenti e non violenti, buoni e cattivi: i NoTav erano tutti buoni e tutti cattivi. Tanto che quando il raggiungimento dell’obiettivo prefissato, e su cui non si transige, ha richiesto l’uso della forze, non hanno esitato ad utilizzarla o ad applaudire chi l’aveva usata; e quando, al contrario, si sono resi conto che la violenza avrebbe danneggiato il movimento, com’è stato il 23 ottobre, hanno deciso, dico deciso, di non utilizzarla. Avevano la situazione sotto controllo. Un po’ diverso dal nostro 15 ottobre romano.

    Passiamo al movimento OccupyQualcosa. Solo il braccio italiano di questo movimento, cioè noi, stiamo risentendo del reflusso post-15/10. In altri paesi, piuttosto, è stato un crescendo da allora. A Oakland la cittadinanza ha saputo organizzare, per la prima volta dal 1947, uno sciopero generale cittadino autogestito, non convenzionale. Da Wall Street (la parte occupata, ovviamente) è partito un appello di mobilitazione mondiale. A Londra in queste ore stanno provando a occupare Trafalgar Square dopo un enorme corteo [quest’ultimo esempio lo aggiungo solo ora perchè la notizia è di oggi]. Perchè? Perchè solo in Italia si è preferita una protesta centralizzata e convergente sulla capitale, in tutti gli altri paesi del mondo che hanno aderito alla protesta la mobilitazione si è articolata in cortei e iniziative disseminate sul territorio, con una media di 10-11 luoghi di protesta per ogni nazione.

    Questi due esempi insegnano due cose: la prima è che si deve essere intransigenti sugli obiettivi e non sui metodi, la seconda è che la protesta non deve essere centralizzata. Anzi, deve essere ubiquitaria, come ubiquitario è il nostro avversario. La lotta non è in un posto preciso né in un tempo preciso, la lotta è il Tempo, la lotta è lo Spazio.

  • Il feticismo dei post-it

    Dedico le mie parole a tutti coloro che hanno condannato ciecamente le violenze (ostiniamoci ad etichettarle così, almeno ci capiamo, care anime belle) dello scorso 15 ottobre rivendicando la natura pacifica della manifestazione, anche se in realtà non ho intenzione di parlare direttamente di quei fatti. Ho scelto voi come interlocutori perché ritengo che il movimento (sì, mi ostino anche ad utilizzare questa parola per esprimere qualche cosa che forse in realtà non esiste) italiano debba rivedere le sue strategie per ritrovare la vitalità e l’efficacia che aveva un tempo e che prima del 15 ottobre era riuscito ad esprimere l’ultima volta verso la fine del 2003, quando era già agonizzante: e siccome voi fate parte del movimento tanto quanto me e io credo nella forza del dialogo e nelle armi della democrazia, vi dico da pari come la penso.

    Non mi va di rifare discorsi che sono già stati fatti sulla questione violenza-nonviolenza e che hanno prodotto un’immensa mole di materiale su cui riflettere. Ai fini dell’argomento che mi accingo ad esporre è però necessario rimarcare come la violenza sia da considerarsi, senza esprimere giudizi morali, uno strumento come tanti altri: può essere lo strumento del potere che si difende, del capitale che sfrutta, della mafia che minaccia, dell’autonomo che lancia il sampietrino, e come ogni altro strumento può essere usato bene o male, da intendersi come efficacemente o meno. Per esempio, i fatti dimostrano che la violenza del 15 ottobre è stata poco efficace per il raggiungimento degli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere (a parte quello immediato di alcuni: esprimere un disagio, lanciare un segnale di rabbia e frustrazione).

    Ma sarebbe stata efficace la strategia che auspicavano quei tanti che intendevano recarsi a Roma per esprimere coloratamente o coloritamente la loro “indignazione”? Fa davvero paura al potere un corteo di centinaia di migliaia di persone, anche di un milione di persone, se queste camminano insieme, piantano tende, intonano cori? O fa forse più paura una folla di qualche decina di persone che minaccia di chiudere il proprio conto in banca?

    A chi condanna la violenza a priori vorrei ricordare che quando la violenza l’hanno praticata in Tunisia e in Egitto andava a tutti bene, anche ai giornalisti de La Repubblica che una settimana fa invitavano alla delazione di massa di coloro che potevano aver preso parte al respingimento delle cariche della polizia in piazza San Giovanni. Ma certo, in Egitto sono sporchi e con la pelle scura, in più parlano arabo e sono musulmani, quindi la violenza la possono usare perché sono degli animali, perchè sono violenti: questo è il messaggio implicato nella morale di certa informazione perbenista. Tanto che quando, in primavera, la protesta stava migrando dal mondo arabo alla più civile Europa (prima in Croazia poi in Spagna), i giornali occidentali inizialmente hanno pensato bene di non parlarne.

    A chi si illude di cambiare le cose solo accampandosi in una piazza a oltranza, come al Cairo, ricordo che l’occupazione di piazza Tahrir è stato un evento riuscito e di grande successo, efficace e non solo simbolico, grazie a successive ondate di scioperi che hanno paralizzato l’Egitto per settimane prima e durante la lotta di piazza.

    A chi ripete meccanicamente, come un bambolotto parlante, lo slogan «no alla violenza», vorrei ricordare cos’è la nonviolenza: una pratica attiva di resistenza a leggi o decisioni che si ritengono ingiuste. In altre parole: disobbedienza civile. E vorrei ricordare sempre a costoro che Gandhi, con le cui parole si riempiono la bocca e adornano gli striscioni, in India non ha vinto standosene seduto davanti alle forze di occupazione inglese o prendendo manganellate insieme a migliaia di persone, ma boicottando il sale inglese e permettendo agli autoctoni di riappropriarsi di un bene comune da sottrarre alle grinfie dell’Impero.

    Questo quindi si deve fare: ripartire dai beni comuni, dalla loro socializzazione, dal consumo critico. Ciascuno è importante. Inutile protestare contro la finanza con indosso un paio di scarpe fabbricate da bambini bengalesi, dei jeans scoloriti a costo di compromettere la salute degli operai che li hanno raschiati, una maglietta prodotta da lavoratori cinesi sottopagati, il tutto pubblicizzato attraverso i più infimi sistemi di controllo mentale magari da aziende quotate in borsa, la borsa che tanto si critica. Vano sputare nel piatto da cui si mangia: bisogna imparare a mangiare da un altro piatto. E dopodiché, invitare altri a mangiare dal nostro.

    Sia chiaro che non sto proponendo la ricetta che ci libererà dal male, ma semplicemente un poco di coerenza e un poco di riflessione sul significato della nostra azione politica: il consumo critico è solo un modo per tirarsi fuori dal problema, ma non ancora di far parte della soluzione. Il consumo critico da solo non basta. Neanche gli scioperi da soli bastano. Le acampadas da sole non bastano. Tutti questi eventi devono essere espressione di un’unica Lotta, con la maiuscola, che le unifica tutte (io direi che è quella contro l’Ancien Régime). Senza la coscienza della necessità di tale unificazione, ogni singolo tassello sarà troppo piccolo per formare un’immagine sensata.

    Avete tutti una scelta, a questo punto: o, in virtù del vostro “pacifismo nonviolento” continuate ad aderire ad appelli online, raccolte di firme e petizioni, mandate i vostri post-it a La Repubblica e affiggete i vostri striscioni e le vostre lenzuola per far contenta L’Unità (che poi in fondo, cosa cazzo sperano di ottenere?) oppure vi inventate un altro modo di praticare la nonviolenza. Anzi: la praticate e basta, niente feticismo dei post-it.

  • Sardigna pesa, ischìda Sardigna

    Cosa esattamente nella testimonianza trasmessa da Annozero il 5 maggio lasci turbati non è facile da dire, perchè sono tante cose insieme.

    Prima di tutto essa stona con il contesto in cui viene a trovarsi: da una programmazione televisiva asservita al potere, che censura preventivamente ogni possibile riferimento al referendum popolare del prossimo 12-13 giugno, che distoglie gli italiani dai problemi del paese dirottando i loro interessi su pettegolezzi e modelli comportamentali che minano alla base le conquiste di millenni di civiltà come il dialogo e il predominio della ragione sugli istinti, che nasconde la natura della crisi e le sue conseguenze o, nei rari casi in cui non può permettersi di farlo, la minimizza e ne parla come di acqua passata, è difficile aspettarsi di ricevere informazioni che non siano di qualità minore di quegli articoli delle riviste che generalmente le persone tengono accanto al cesso.

    Eppure, la sera del 5 maggio la diretta è riuscita a evadere i giochetti della censura, che ha avuto una falla dalla quale si è riversato impetuosamente in studio un mondo diverso da quello dipinto dai telegiornali di partito, dai talk show, dai reality: era un mondo, quello reale, che si esprimeva senza filtri, senza copioni, senza cerone e altri trucchi  e senza mediazione tra la telecamera e la realtà. Insomma un mondo genuino, che appare così come è.

    Ed è sfruttato, dilaniato, oppresso, disperato e non ha paura di dire davanti a tutti, a volto scoperto, che «l’Africa è vicina» non solo geograficamente. Nel Sulcis è successo quello che potrebbe succedere ovunque sia portato ad estreme conseguenze il predominio dell’economico sul sociale, del finanziario sul politico. L’unico modo possibile di difesa che hanno trovato gli abitanti del Sulcis (120 mila abitanti, 30 mila disoccupati) è la condivisione delle rivendicazioni: artigiani, commercianti, operai, pastori, tutti padri e madri di famiglia che ogni mese devono «decidere se fare la spesa, pagare le tasse o licenziare dipendenti».

    In risposta a una politica cieca di fronte al disastro sociale, i comitati cittadini del Sulcis hanno organizzato una grande manifestazione regionale per giorno 12 maggio, che si terrà a Cagliari fin sotto gli edifici della Regione.

    E i giornali nazionali e l’informazione tutta… come hanno reagito di fronte alle ripetute esternazioni di rabbia del popolo? Ovviamente dando il minimo rilievo possibile alla notizia e, se possibile, ignorandola completamente: nessun telegiornale ne parla, tra i giornali nazionali solo L’Unità tratta della vicenda, limitandosi a scrivere che la Sardegna è come un laboratorio e che «in passato ha spesso anticipato tendenze politiche nazionali», mentre la rivoluzionaria La Repubblica vede bene di non farne assolutamente cenno (perchè certo non si sputa nel piatto in cui si mangia).

    Questo perchè la condivisione delle lotte al fine di rivendicare diritti dà comprensibilmente fastidio a tutti, in quanto questa volta la condivisione non parte dalla tanto balbettata esigenza di un “rinnovamento morale” né della trita riscoperta del senso di appartenenza all’identità nazionale ultimamente sbandierato a destra e a manca, bensì dal bisogno di soddisfare necessità materiali e di primaria importanza.

    Per questo il Movimento che si sta autorganizzando in Sardegna dovrebbe far paura a chi vive nel mondo dei sogni e dei paradisi fiscali; per questo lo si censura e si evita di fornire notizie sulla questione; per questo non ci viene detto dagli organi di informazione della grande protesta sarda che sta montando nell’isola e che per ora ha una data di riferimento: il 12 maggio.

    Sarebbe bene che gli studenti sardi si unissero alla protesta, portando al compimento il tentativo di unificare le lotte. E voglio anche un giuramento della pallacorda, un’Assemblea Costituente, una comune e dei comitati.

    FORZA PARIS! TUTTI INSIEME!

  • Indisponibili davvero

    Considerazioni sulla protesta del mondo della formazione e critica dei metodi di lotta finora utilizzati. Ecco cosa propongo invece per una minaccia che sia vera, viva, valida.

    Bloccare le università non basta per bloccare l’economia.
    È vero che la ricerca produce ricchezza e che l’Italia è retrocessa economicamente rispetto ad altri paesi industrializzati e post-industriali proprio a causa dell’insufficienza dei finanziamenti per la ricerca, ma questo è un processo che si sviluppa a medio o lungo termine (per esempio l’arretratezza attuale è dovuta non ai tagli di oggi ma alla tanta negligenza di ieri rispetto a tutti i luoghi della formazione e della cultura), e il blocco della didattica, se non si ha la certezza che il Governo ascolterà il disperato grido d’allarme lanciato dall’università, non può protrarsi per un intervallo di tempo esageratamente lungo come quello che servirebbe a convincere coi fatti che senza ricerca non c’è sviluppo e che noi siamo in grado di bloccare lo sviluppo bloccando la ricerca.

    Le strategie di lotta passate non sono più efficaci.
    È vero che, dopo due anni dalla nascita del movimento di opposizione alle scellerate politiche governative in materia di istruzione, università e ricerca nel mondo della formazione, l’agitazione sociale ha contribuito alla formazione di una forte coscienza critica, ma le strategie utilizzate si sono evidentemente rivelate pressoché inutili. La prova lampante è che il ddl Gelmini è ancora in parlamento, dove è sempre stato, e forse verrà approvato.

    Il corteo non fa paura a nessuno.
    Non serve una mente geniale a capire che dei cortei e delle manifestazioni civili dei generi più svariati e delle modalità più diverse, non si cura il Governo. Come ha detto tante volte Berlusconi, «il governo va avanti», «per la sua strada», con o senza la gente in piazza. Anche qui si potrebbero fare infiniti esempi delle numerosissime manifestazioni rimaste inascoltate. Il corteo e il blocco delle università non fanno più paura a nessuno, il primo perché basta non dare risalto mediatico all’evento (che in una dittatura mediatica equivale a cancellare la sua esistenza) o dargliene troppo (trasformandolo in spettacolo di intrattenimento delle masse da illudere), il secondo perché non provoca danni immediati, ammesso che riesca a provocarli.
    Il problema è che non riusciamo a convincere i vari Tremonti, i Berlusconi, i Gelmini, che siamo in grado di costituire un danno per il sistema, perché né il corteo né il blocco della didattica sono realmente in grado di farlo, non costituiscono un ricatto né una minaccia.

    Indisponibili davvero.
    Fin da subito questo movimento ha preso il nome di «indisponibili».
    I ricercatori si sono dichiarati indisponibili a svolgere, senza essere pagati, compiti che dovrebbero essere svolti da altri lavoratori, i quali però non ci sono dato che assumerli significherebbe spendere soldi per il mondo della formazione.
    Si sono rifiutati di fare qualcosa che non rientra nei compiti previsti dai contratti.
    Se anche noi studenti vogliamo essere indisponibili davvero e non solo a parole, non solo come segno di vicinanza alla protesta dei ricercatori, dobbiamo rendere la nostra indisponibilità una pratica che rispecchi la nostra condivisione di principi fondamentali.
    Dobbiamo fare in modo che l’indisponibilità si concretizzi, diventi uno strumento di ricatto e di minaccia, dobbiamo mostrare che con la nostra indisponibilità, se vogliamo, possiamo bloccare tutto.
    È ora quindi che ci rifiutiamo anche noi di pagare di più: è ora che rispettiamo anche noi i contratti degli affitti, meticolosamente, pagando la cifra prevista, né più né meno.
    Finché non li sfideremo su quel fronte, colpendoli nel loro punto debole, quello dei soldi, non solo loro ma anche l’opinione pubblica e la cittadinanza, si accorgeranno che noi esistiamo solo se il corteo passa davanti ai loro portoni o se ne parlano i mezzi di informazione. Ma se blocchiamo l’economia, non si potrà trascurarci.
    Se siamo gli indisponibili perchè siamo disposti a pagare la stragrande maggioranza degli affitti in nero? Il boicottaggio è il vero strumento con cui possiamo tenere in scacco, bloccare, letteralmente paralizzare l’economia della città, e pretendere che ci venga ridato ciò che ci è stato tolto. Senza boicottaggio, il corteo è una sfilata informe. Con il boicottaggio, il corteo farà di nuovo paura.

  • Sull’estetica del conflitto [parte 1]

    Fin dai primi anni di elaborazione delle teorie marxiste e della conseguente presa di coscienza del conflitto sociale di classe, la struttura di quest’ultimo ha trovato sostegno pragmatico e giustificazione teorica nella pratica della minaccia.

    I movimenti operai  dei primi del Novecento contavano sulla possibilità reale di provvedere, se le istanze proprie della classe proletaria non fossero state prese in considerazione dalla classe proprietaria, alla costruzione di un modello organizzativo autonomo e autogestito che capovolgesse dialetticamente i rapporti tra capitale e lavoro salariato, così che, per dirla con Marx stesso, o meglio, per ragioni di precisione storico-filologica, con Hegel suo maestro, il servo potesse diventare «padrone del padrone» e viceversa, il padrone potesse diventare «servo del servo».

    Si pensi, per esempio, al cosiddetto biennio rosso (1918-20), periodo di intensi contrasti e fortissimi conflitti, anche parecchio sanguinarî, che sorsero spontaneamente in tutto il continente europeo e per due anni furono sul punto di mettere in ginocchio lo Stato borghese riducendolo progressivamente ad una condizione di timore che si risolse, secondo la situazione specifica di ogni paese, con l’istaurazione di governi reazionari, militaristi o addirittura, come nel caso della Germania e dell’Italia, totalitari o quasi-totalitari: durante il suddetto periodo l’efficacia della protesta dipendeva primariamente dalla capacità che avevano gli organi di resistenza economica e sociale (partiti rivoluzionari e camere del lavoro) di presentare alla classe non produttiva una minaccia, cioè la minaccia di rivoluzionare il sistema produttivo attraverso l’utilizzo di quella stessa disciplina e organizzazione che il vecchio sistema aveva insegnato, qualora gli esponenti del vecchio sistema e i magnati industriali non avessero sua sponte ceduto, infine, di fronte ad una crisi economica evidentemente irrecuperabile nel rispetto dei diritti umani, tra cui il diritto al lavoro, ad una vita vivibile e fuori dalla schiavità e dallo sfruttamento.

    Il fenomeno non è valido solo per il periodo circoscritto di cui sopra, ma è rappresentativo di un’epoca intera, in cui l’aut aut dato da chi protesta suona più o meno così: «visto che a lavorare e rendere operative le vostre decisioni siamo noi, o decidiamo anche noi, oppure lavoriamo da soli e, in assenza di chi lo renda operativo seguendo le vostre disposizioni, non avrà più alcun senso il vostro decidere». I soggetti di questa minaccia sono i consigli di fabbrica e le cooperative agricole, e gli strumenti per esprimerla e renderla manifesta sono gli scioperi, l’occupazione delle fabbriche e, anche sul piano sociale e cognitivo, i centri sociali, da considerarsi come mezzi di affermazione e diffusione dei saperi indipendenti in cui convergono e vengono incanalate le altre forme di lotta e, eventualmente, ne vengono elaborate nuove attraverso lapratica della consivisione e dello scambio democratico e dialogico.

    [continua…]