Tag: globalizzazione

  • Il neoliberismo come lo schiavismo

    Che la globalizzazione neoliberista abbia avuto e abbia effetti nefasti sulla vita di miliardi di persone è ormai un fatto acclarato, di un’evidenza tale che neanche le istituzioni che la hanno storicamente sostenuta e alimentata ideologicamente, economicamente e in parte politicamente possono più negarlo: il neoliberismo fa male all’umanità. Ormai è riconosciuto ufficialmente da studi e rapporti promossi e finanziati dagli stessi istituti che negli ultimi quarant’anni non hanno mai smesso di suggerire manovre economiche di scuola neoliberista e di intimare governi e parlamenti di Paesi nominalmente sovrani a varare piani di aggiustamento strutturale ricattandoli tramite il controllo del debito pubblico, anche a prezzo di istaurare dittature illiberali, violente e autoritarie (perché, occorre ricordarlo, l’austerità è incompatibile con la democrazia, non col fascismo).

    Ecco alcune delle illuminate affermazioni di Christine Lagarde sulla globalizzazione, di cui FMI, Banca Mondiale e WTO si accorgono solo adesso e che Lagarde pronuncia quasi con stupore, come se avesse visto la mano invisibile di Adam Smith volteggiare sopra la propria testa in un tiepido pomeriggio d’aprile e come se queste preoccupazioni non fossero state espresse nella forma di certezze vissute sulla propria pelle da milioni di persone negli ultimi trent’anni almeno: «Il commercio ha avuto effetti negativi su alcune tipologie di lavoratori e su alcune comunità»; «la globalizzazione ha contribuito a schiacciare i salari»; «la globalizzazione ha avuto qualche effetto negativo sul primo mondo». Risparmiandosi di commentare, il punto che è da notare è il passo indietro rispetto all’atteggiamento ideologico assunto storicamente che vedeva nella ricetta neoliberista la panacea contro tutti i mali.

    Nel complesso, tuttavia, resta ancora molta cieca ideologia se Jim Wong Kim, presidente della Banca mondiale, coglie l’occasione per sottolineare nelle stesse ore che «la globalizzazione è anche una questione di giustizia sociale: ha tirato fuori milioni di persone dalla povertà». Delle disuguaglianze, in fondo, che importa? Se un sistema riesce a farti uscire dalla povertà assoluta, che male c’è se al contempo ti deruba di parte della ricchezza che produci per arricchire chi possiede già la ricchezza di centinaia di milioni di persone? Il neoliberismo, e il capitalismo in generale, neanche intravedono alcunché di immorale in questo. Come chi, a suo tempo, non vedeva alcunché di immorale nello schiavismo, che in fondo tirò fuori milioni di persone dalla morte per fame.

  • Sui fatti di Parigi

    Di fronte ai fatti parigini, occorre riflettere. Esiste oggi un’organizzazione che attacca popolazioni straniere in nome di una pretesa superiorità morale, che è fermamente convinta di agire nel giusto, è sostenuta da ingenti risorse finanziarie e fa ampio ricorso alla propaganda ideologica per incutere terrore ed ottenere consenso e, all’occorrenza, sottomissione. Questa organizzazione, negli ultimi quindici anni, ha mietuto centinaia di migliaia di vittime e prende il nome di Stati Uniti d’America. Con il supporto morale, economico e militare di altre organizzazioni (Stati alleati, aziende, potentati economici), essa ha assoggettato per decenni le popolazioni del Medio Oriente tramite il finanziamento di regimi dispotici e autoritari, ne ha calpestato il diritto all’autodeterminazione con la costruzione di governi fantoccio al servizio degli interessi neocoloniali, li ha depredati delle risorse dei loro territori, ha distrutto interi ecosistemi o ne ha minacciato l’esistenza mettendo in pericolo di vita innumerevoli comunità umane in ogni parte del globo terrestre.

    Dopo le morti di Parigi, si fa strada in Europa, con una forza di portata paragonabile forse solo a quella dei fatti dell’11 settembre 2001, l’idea che “ormai non ci si può più sentire al sicuro”, e anche se la probabilità di morire per un incidente su un volo di linea o cadendo da un’impalcatura resta ordini di grandezza più alta di quella di morire a causa di un attentato terroristico, forse ciò può esser vero; eppure, nella maggior parte del pianeta, è da parecchio tempo che “non ci si sente più al sicuro”, direttamente o indirettamente a causa di meccanismi appositamente costruiti per garantire che in piccole aree isolate ci si possa ancora sentire al sicuro: regimi repressivi che offrono il proprio apparato poliziesco per arrestare scomodi flussi migratori, governi compiacenti che promuovono legislazioni permissive in materia di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, totalitarismi conniventi che concedono la possibilità di trattare i prezzi del mercato petrolifero mondiale in cambio della facoltà di violare sistematicamente la dignità e i diritti umani, apparati di controllo che schiacciano la libertà di parola, servizi segreti che orchestrano e appoggiano sanguinosi colpi di Stato. L’ISIS in Iraq è nato proprio perché, anche grazie all’intervento statunitense, “non ci si sentiva al sicuro”. L’integralismo religioso ha fatto leva sul sentimento di rivalsa nei confronti dell’Occidente che occupa militarmente, sfrutta economicamente e impone propri modelli culturali, sociali e politici: da questo all’aggressivo espansionismo il passo è breve, dato che ad azione bellica statunitense ha corrisposto una reazione uguale e contraria, altrettanto bellica.

    Scopo di questa riflessione non è, tuttavia, parlare di chi ha organizzato gli attentati di Parigi. Stragi paragonabili per tributo di sangue e morte avvengono con una frequenza altissima, ma finché ci si sente al sicuro al di qua del filo spinato delle frontiere e finché quelle stragi sono patrocinate da un “totalitarismo buono”, lo spettatore non è scosso nella coscienza.Certamente, da spettatori europei non si può non restare allibiti e scossi di fronte a quanto è successo, già solo per una mera questione di più facile immedesimazione: le oltre centoventi persone morte a Parigi sono molto simili a noi, mediamente avranno avuto una giornata e una vita molto simili alle nostre giornate e alle nostre vite. Ma bisogna riconoscere che, aldilà di questo, l’indignazione, lo sconcerto e l’orrore che ci riserviamo di provare in occasioni come questa molto più che in altre sono arbitrari. Anzi, non proprio arbitrari: sono in buona parte indotti, così come in buona parte è sapientemente indotto il terrore che sarebbe significativamente ridimensionato se i giornali si esimessero dal raccontare la tragedia come “scontro di civiltà” (quando, a ben vedere, lo scontro è tra poteri legati da alleanze incrociate).

    Se, come c’è da aspettarsi, il terrore dell’opinione pubblica sarà usato come pretesto per la riduzione delle libertà individuali e collettive e degli spazi di agibilità politica, per la revisione delle politiche migratorie (come sta già accadendo in Polonia, nonostante immigrazione e terrorismo abbiano ben poco a che fare l’uno con l’altra), per favorire interessi geopolitici tramite guerre, violazioni di sovranità e “interventi umanitari” in cui si bombardano ospedali, allora mi dispiace ma tenetevi il terrore. “Al sicuro” devono potercisi sentire tutti, non voglio scegliere tra barbarie per cui parteggiare.

  • La contraddizione del cosmopolitismo

    «Non si integrano», si sente dire degli immigrati: non rinunciano alle proprie usanze, né alla propria lingua, né alla propria cultura, né smettono di nutrire un più o meno profondo senso di appartenenza alla propria comunità, cieco e irrazionale. In realtà, tutto questo è normale e comprensibile per chiunque sia stato emigrato per almeno un certo periodo della propria vita, incluso il sottoscritto, che in un paese straniero ha stabilito in generale molti più contatti e relazioni più robuste con italiani che non con la popolazione autoctona, nonostante la relativa somiglianza e vicinanza geografica, storica e culturale tra il paese di emigrazione e quello di immigrazione (figuriamoci dunque l’entità e l’intensità dei meccanismi individuali e collettivi che si innescano quando la differenza è parecchio più marcata). Il motivo è chiaro: tra persone appartenenti alla stessa comunità esiste un substrato, una base culturale e linguistica comune, che permette di stabilire con più facilità legami interpersonali. Pertanto, niente di strano si può attribuire alla tendenza degli immigrati a non privarsi del supporto, anche solo immateriale, della propria comunità originaria, perché si tratta di un consueto fenomeno sociologico, osservato in tutte le epoche e in tutte le società che sono state interessate da flussi migratori. Questo fenomeno, tuttavia, non previene necessariamente l’integrazione nella società di immigrazione; ma allora, perché chi conserva un senso di appartenenza alla comunità di origine è tacciato di mancata integrazione, spesso anche da chi è dotato di una mentalità aperta al confronto, al dialogo e al rispetto delle diversità e si professa progressista in materia di immigrazione?

    Per rispondere, escludendo a priori le possibili risposte chiaramente conservatrici o di matrice nazionalistica e xenofobica, bisogna capire cosa intende una parte del pensiero progressista quando accusa le comunità di immigrati di essere “chiuse”, di ghettizzarsi, di non volersi integrare o conformare ad una serie di principi minimi la cui adesione è ritenuta imprescindibile per la convivenza nella società occidentale. Queste accuse sono formulate sulla base di alcune evidenze: molte comunità di immigrazione spesso conservano una forte autonomia in termini di gestione delle controversie all’interno dei gruppi, di religione, di lingua, di istruzione e formazione dei giovani, di tradizione e folklore, rispettano usanze e regole tipiche della comunità. Si mantengono dunque almeno parzialmente autonomi dalla restante società. Tuttavia, essi sono integrati nella società: per definizione, l’integrazione è «il processo attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di un qualsiasi sistema sociale, aderendo in tutto o in parte ai valori che definiscono l’ordine normativo» e in un modo o nell’altro queste comunità, interagendo con il resto della società, sono parte di essa e in essa funzionano come ogni sua altra parte, attraverso concessioni e compromessi.

    Invece, secondo l’altra concezione dell’integrazione, questa consisterebbe nella ridefinizione delle priorità dei valori tale da subordinare le proprie origini e appartenenze particolari ad un sentimento universalistico, o addirittura nella rinuncia di tali origini e tali appartenenze particolari, per abbracciare un sentimento universalistico che induce piuttosto a vedersi come “cittadini del mondo” scevri da atteggiamenti considerati provinciali, arretrati ed escludenti (sebbene, per esempio, de facto in Italia la procedura amministrativa che riconosce formalmente e istituzionalizza l’integrazione prevede la sottoscrizione di una Carta dei valori tutt’altro che lontana dall’essere provinciale, arretrata ed escludente; si veda L’accordo di integrazione come caso di discriminazione istituzionale in Italia, saggio di Paolo Cuttitta in Razzismi, discriminazioni e confinamenti, a cura di Mario Grasso, edizioni Ediesse, 2013).

    Eppure, «la prospettiva universalistica e cosmopolitica non implica affatto che ciascuno di noi rinunci a valori, vocabolari o virtù ed eccellenze che assumono il loro senso pertinente entro contesti dati e assegnati. […] Essa è il frutto maturo […] di una tribù. Si tratta di nient’altro che della tribù o del clan “occidentale”. Questa tribù ha fra i suoi usi e costumi quello di autoclassificarsi come universalistica e cosmopolitica. Per dare alla classificazione una maggiore stabilità e forza, la tribù definisce gli esterni o gli stranieri come tribali. […] Noi ci impegniamo ad adottare una prospettiva universalistica entro un contesto e una tradizione» (si legga la validissima Prefazione di Salvatore Veca a Per la pace perpetua, Immanuel Kant, edizioni Feltrinelli, 1991). In fondo, sentirsi cittadino del mondo equivale a sentirsi occidentale: non esistono società che non producano culturalmente il senso di una qualche forma di identità o appartenenza alla comunità, e la società occidentale non fa eccezione.

    E, del resto, come puoi sentirti cittadino del mondo quando nel mondo in cui vivi «una minoranza di nazioni costituisce un arcipelago di isole di relativo benessere in un mare di tirannia e di miseria disumana e la preservazione di un tenore di vita elevato dipende assolutamente dal rigido controllo dell’immigrazione» (la metafora dell’arcipelago e del mare è un prestito da Thomas Nagel)? Come puoi sentirti cittadino del mondo quando  il mondo ti opprime, e non lo sai solo a parole, ma ti pesa ogni giorno in tutta la sua oppressione? Come puoi sentirti cittadino del mondo, quando del mondo non sei cittadino ma suddito o schiavo? Essere cittadini del mondo è una prerogativa di chi può vantare l’appartenenza alla cultura occidentale, un lusso che ti puoi permettere solo se il mondo ti è assoggettato.

    Tuttavia, nonostante questo, si può ragionevolmente ritenere che questo principio di fratellanza e solidarietà che porta ad essere e a sentirsi cittadini del mondo sia espressione di un valore moralmente superiore, ma se così è, lo è solo nella misura in cui il cosmopolitismo è liberazione più che assoggettamento. Chiedere la rinuncia a qualsiasi forma di tradizione o attaccamento alla cultura o comunità di provenienza come prezzo da pagare per essere cittadini del mondo (la classica retorica che legittimava e legittima ancora il colonialismo e l’imperialismo come azioni benevole intraprese per civilizzare i popoli estranei alla tradizione europea: il cosiddetto “fardello dell’uomo bianco” della celebre poesia di Rudyard Kipling) è un livellamento di abitudini e valori a canoni socialmente e storicamente determinati, conformi ad una particolare cultura, quella occidentale, dunque è una forma di assoggettamento a tale cultura. Al contrario, riconoscere il diritto di esistenza alle diverse forme di vita ed espressioni di cultura umana presenti nel mondo, ovunque esse siano, conferendo così loro una cittadinanza effettiva e gestendo le tensioni e le differenze entro tale cornice di equità, costituirebbe un cosmopolitismo liberante. Peraltro non c’è da stupirsi della duplicità contraddittoria del concetto di cosmopolitismo: il cosmopolitismo è parallelo alla globalizzazione, e come questa non può non essere duale e contraddittorio, paradossalmente non può generare connessioni e spazi di azione senza generare anche frontiere e organi di repressione. La direzione che la globalizzazione e il cosmopolitismo possono prendere nella loro inevitabile continua oscillazione tra liberazione e assoggettamento dipende dai rapporti tra le forze in gioco. Non bisogna lasciare che questa direzione la decida chi ne predilige l’aspetto assoggettante, sentendosi o meno cittadino del mondo.

  • Ripulirsi la coscienza con l’accoglienza

    «Chi non vuol parlare di capitalismo, dovrebbe tacere anche sul fascismo»
    Max Horkheimer

    Le lacrime non basterebbero per piangere o ridere di fronte all’ipocrisia con cui i governi europei stanno affrontando la crisi umanitaria sul confine orientale della Fortezza Europa. Dopo il greenwashing e il pinkwashing, oggi secondo la moda del momento all’ordine del giorno nell’opinione pubblica stiamo assistendo adlla comparsa di un’altra forma di lavaggio della coscienza (e del cervello): quello della millantata solidarietà per i profughi, che rende chiunque la decanti e la condivida innocente e nobile d’animo e di cuore. Basta dire che quelle vite hanno un valore per essere circondati di un’aura da benefattore, a prescindere dalle ricadute che poi le strategie di contenimento, respingimento ed espulsione realmente hanno sulle vite dei migranti.

    Così, Renzi, dai microfoni dell’Expo, evento sostenuto dalle peggiori multinazionali del pianeta che cementificano, desertificano, inquinano, sfruttano e devastano risorse e popolazioni in ogni angolo del mondo, ai suoi fan (come altro chiamarli?) può dire che «questa è l’Italia vera solida e solidale», può schierarsi contro la costruzione di muri come quello ungherese voluto da Orban al confine con la Serbia e definire «bestie, non umani» quelli che sono contro l’accoglienza dei profughi, poco dopo aver stretto la mano a Netanyahu, che intende estendere le recinzioni anti-immigrazione su tutto il confine tra Israele e la Giordania, apparentemente senza in questo vedere nessuna contraddizione. Del resto, anche Netanyahu dichiara che «Israele non è indifferente alla tragedia umana dei rifugiati siriani e africani».

    Così l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, già qualche mese fa dopo l’ennesima tragedia di un naufragio nel Mar Mediterraneo, annunciava che «per l’Europa è impe­ra­tivo sal­vare tutti insieme delle vite umane, così come tutti insieme dob­biamo pro­teg­gere i nostri con­fini e com­bat­tere il traf­fico di esseri umani», sorvolando sul fatto che gli scafisti e il traffico di esseri umani esistono proprio perché “noi” proteggiamo i “nostri” confini, apparentemente senza in questo vedere contraddizioni. Chiudere le frontiere, qualunque sia il modo in cui lo si fa, significa favorire il traffico di esseri umani; far finta di non capire questo è essere complici.

    Per non parlare di come si ripuliscono la coscienza la Germania e l’Austria, che improvvisamente diventano “buone” anche agli occhi degli attivisti per i diritti dei migranti in quanto hanno aperto le frontiere per fronteggiare l’ondata di rifugiati giunta dai vicini Balcani, dopo ripetuti episodi di violenza e repressione. Come se Austria e Germania non avessero sistemi di “identificazione ed espulsione” tanto lesivi dei diritti dei migranti quanto lo è la violenza delle forze di confine. E infatti ci sarebbe da chiedere una cosa: un mese o un anno fa migranti non ce n’erano? Le frontiere si aprono, momentaneamente, solo quando ci sono migliaia di persone intrappolate nella stazione di Budapest, con gli occhi del mondo puntati, giusto per fare bella figura rispetto all’Ungheria xenofoba che ha eretto il muro?

    Ma, a proposito di muri, vogliamo parlare di quegli occidentali che nel 1989 esultarono per la caduta del muro di Berlino, in nome della libertà di circolazione, ma oggi sono a favore dei muri attuali? E se non a favore, perlomeno non contrari, e se contrari perlomeno molto timidamente. Forse perché all’epoca la libertà di circolazione era limitata in nome del “comunismo” sovietico mentre oggi lo è dalle frontiere fantoccio del mondo neoliberista? Frontiere, tra l’altro, difese formalmente da organi e istituzioni di fatto esautorati dei propri poteri politici, e  le cui decisioni non sono che ratifiche di decisioni prese altrove: nelle stanze segrete in cui viene stipulato il TTIP, nelle sedi della finanza mondiale, nelle banche  in congressi di figure del tutto estranee al controllo democratico. I confini, di fatto, non esistono più per la finanza e il mercato; continuano ad esistere, invece, per gli esseri umani, in quanto portatori di una particolare merce, la forza-lavoro, la quale, se segregata e resa ricattabile, diventa più facilmente assoggettabile a crescenti forme di sfruttamento.

    Ecco perché chi non vuol parlare di abolizione delle frontiere come strumento di sfruttamento e di limitazione della libertà di circolazione, dovrebbe tacere anche sull’accoglienza.

  • «There is no alternative»

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    Verranno al contrattacco
    con elmi ed armi nuove

    (CCCP, Curami)

    Riporto di seguito uno stralcio dell’introduzione di un libro di Graeber, di cui ho già avuto occasione di parlare.

    “I nostri nemici sembrano riconoscere il potenziale di questi movimenti , la minaccia che pongono agli equilibri di potere globale, in modo molto più consapevole di quanto non facciano gli attivisti dei movimenti stessi.

    E se la ragione della depressione di coloro che vorrebbero vedere un mondo organizzato secondo un principio diverso dal capitalismo fosse che i capitalisti e i politici sono letteralmente ossessionati dall’idea di farci sentire depressi? Il capitalismo neoliberista è ossessionato in primo luogo dal dover garantire che «non c’è nessuna alternativa», come Margaret Thatcher dichiarava negli anni ottanta. In altre parole, è stato ampiamente abbandonato ogni sforzo di argomentare che l’attuale sistema economico sia in effetti un ordine valido, giusto o ragionevole, che si dimostrerà capace di creare un mondo in cui la maggior parte degli esseri umani vivrà in prosperità, sicura, libera di spendere ogni significativa porzione della propria vita alla ricerca delle cose ritenute veramente importanti.

    È molto interessante notare come, alla fine della Guerra Fredda, il linguaggio usato per descrivere l’Unione Sovietica sia rapidamente mutato. Ovviamente, nessuna persona sana di mente vorrebbe una restaurazione di un sistema del genere. Allo stesso tempo, tuttavia, la retorica è cambiata quasi nel giro di ventiquattr’ore: dall’affermare che «un controllo sull’economia dall’alto verso il basso senza le libere forze di mercato non avrebbe potuto competere in modo efficace sul piano economico e militare con le potenze capitaliste più avanzate», si è passati al decretare con sicurezza assoluta e sprezzante che «il comunismo semplicemente non funziona», ovvero che un simile sistema non sarebbe mai potuto esistere. È una conclusione degna di nota, considerato che l’Unione Sovietica era in effetti esistita per oltre settant’anni e che nel giro di qualche decennio la Russia, dalla tremenda stagnazione in cui si trovava, era divenuta una delle maggiori potenze a livello tecnologico e militare.”

    David Graeber, La rivoluzione che viene

  • Scialuppe di salvataggio

    Com’è ormai consueto ultimamente, propongo un brano tratto da Collasso di Jared Diamond, di cui ho già parlato (qui e qui). Segue dibattito, spero di iniziarlo bene una volta che avrò messo in ordine i miei pensieri.

    […] In breve, i norvegesi esaurirono, senza volerlo, le risorse ambientali da cui dipendevano, tagliando gli alberi, asportando le zolle di torba, lasciando pascolare gli animali più di quanto il territorio potesse sopportare e provocando l’erosione del suolo. Le risorse naturali della Groenlandia di per sé, combinate con la variabilità del clima, erano appena sufficienti a sostenere una società europea che vivesse di pastorizia. […]Immagine

    È probabile che quando una fattoria povera si trovasse ridotta alla fame per la scomparsa di tutto il bestiame, i suoi abitanti si spostassero nelle fattorie migliori, dove entravano con le buone o con le cattive.

    L’autorità dei preti e dei maggiorenti sarebbe stata riconosciuta e rispettata soltanto a condizione che costoro, per volontà di Dio, proteggessero tutta la comunità. Ma la fame e le malattie fecero crollare la fiducia della popolazione nelle autorità religiose e civili, proprio come era accaduto 2000 anni prima con la peste di Atene, secondo quanto racconta Tucidide nel suo terrificante resoconto. La gente affamata si riversò su Gardar in gran numero, e le autorità, travolte, non poterono impedire che la folla macellasse le ultime mucche e pecore rimaste. Le provviste, che sarebbero forse bastate a mantenere in vita i residenti della fattoria, se tutto il vicinato non vi si fosse riversato in massa, furono interamente consumate nel corso di quell’ultimo inverno, in cui tutti cercavano di saltare a bordo dell’ultima, sovraccarica scialuppa di salvataggio, mangiando cani, animali appena nati e gli zoccoli delle mucche.

    Questa situazione ricorda i fatti di Los Angeles, al tempo dei disordini seguiti al caso Rodney King. L’assoluzione degli agenti incriminati di aver brutalmente malmenato un malcapitato di colore scatenò lo sdegno di migliaia di abitanti dei quartieri poveri, che si riversarono nelle strade distruggendo negozi e saccheggiando i quartieri ricchi.

    Il loro numero superava di molto quello dei poliziotti, che non poterono far altro che sbarrare con dei cordoni le strade che conducevano ai quartieri ricchi, nel vano tentativo d’impedirne l’accesso ai saccheggiatori.

    Oggi assistiamo sempre più di frequente a fenomeni simili su scala globale: gli immigranti provenienti dai paesi poveri si riversano a fiotti sul battello di salvataggio rappresentato dai sovrappopolati paesi ricchi, e i controlli alla frontiera sono incapaci di arrestare questo flusso, proprio come le autorità di Gardar o i cordoni di Los Angeles. Stanto così le cose, sarebbe sbagliato liquidare il caso dei norvegesi in Groenlandia come la storia di una piccola società remota vissuta in un ambiente fragile, irrilevante per la nostra ben più vasta e solida civiltà.

  • Quanto manca a Pasqua?

    Si resta affascinati ogni volta che si pensa a come l’isola di Pasqua fu colonizzata dai primi uomini che la videro, più di mille anni fa, a come riuscirono a vivere in completo isolamento, nel posto più sperduto dal mondo (migliaia di chilometri di oceano Pacifico in ogni direzione) per poi spegnersi improvvisamente lasciando ai posteri statue monumentali e altre prove di una ben più viva e florida civiltà, con la sua complessità sociale e politica.
    Mi era successo con Armi, acciaio e malattie, mi succede ancora con Collasso: ogni volta che Jared Diamond parla dei Polinesiani, della loro conquista dell’oceano a bordo di canoe, della loro capacità di adattarsi ai più vari ambienti e con le più diverse risorse, lascia stupefatti e fa innamorare di quei popoli.

    Quando i primi coloni giunsero sull’isola e attraccarono alla baia di Anakena, primo luogo di insediamento umano, trovarono un’isola già abitata da molte specie animali (in particolare uccelli) e vegetali che da tempo immemore la occupavano: una fitta vegetazione arborea, composta soprattutto di palme giganti, ricopriva la superficie ondulata e i rilievi testimoni dell’origine vulcanica dell’isola, formata a suo tempo dall’eruzione di ben tre vulcani adiacenti.

    Questa ricca flora locale, unita alla meno ricca fauna autoctona che fu comunque integrata con il pollame che i coloni avevano portato con sé in canoa, permise agli abitanti dell’isola di sviluppare una civiltà altrettanto ricca: con le foglie degli alberi, il legno, le radici delle piante, la coltivazione delle aree adatte, la pesca, la caccia degli uccelli e la raccolta delle uova, l’estrazione di pietra dalle cave lasciate dagli antichi vulcani, questo popolo si potè procurare tutto ciò di cui avesse bisogno: cibo, strumenti, riparo.

    In aggiunta alla soddisfazione di questi bisogni materiali, gli isolani onorarono gli antenati con la costruzione dei famosi moai, i misteriosi volti in pietra scolpita, alti fino a 10 metri e pesanti decine di tonnellate: erano modellati sul luogo di estrazione della roccia, poi trasportati nelle varie zone dell’isola, infine innalzati in posizione verticale, su enormi piattaforme in pietra, con lo sguardo rivolto verso l’entroterra.

    Come tante altre rovine testimoni di civiltà passate, i moai sono impressionanti soprattutto per le domande che di fronte ad esse si pone l’uomo moderno: quali sistemi dovettero utilizzare i loro costruttori per innalzarle senza macchine, con la sola forza delle braccia? quale megalomania dovette prendere l’animo degli scultori o di chi li commissionava, portando nel tempo alla costruzione di statue sempre più alte e pesanti? perché all’arrivo, nel corso del Settecento, degli esploratori europei, le statue furono trovate tutte cadute per terra, molte delle quali spezzate?

    Gli storici di vario genere (quindi anche biologi e geografi, non solo archeologi e paleografi) hanno delle buone risposte a questo tipo di domande. Per una trattazione completa e interessante consiglio vivamente il II capitolo di Collasso, Jared Diamond, 2005.

    Le statue erano innalzate sfruttando una tecnica che i discendenti degli isolani hanno raccontato volentieri quando finalmente qualcuno si è degnato di chiederglielo. Questa tecnica richiedeva l’utilizzo di molto legno, per costruire binari, funi e leve; inoltre richiedeva, ovviamente, la forza muscolare di centinaia di persone. Indirettamente, quindi, le risorse necessarie a questo lavoro erano la roccia delle cave per le statue e le piattaforme, le colture per sfamare chi lavorava senza poter produrre (era, in pratica, un impegno a tempo pieno), il legno degli alberi per cucinare il cibo e costruire gli attrezzi necessari. La necessità di un aumento demografico era soddisfatta allargando le colture ed estendendole ai terreni meno adatti.

    Tutte queste attività, cioè deforestazione, coltivazione, caccia, pesca, provocarono una serie di conseguenze gravi per l’ambiente dell’isola di Pasqua: la maggior parte delle specie autoctone di uccelli si estinse, i terreni cominciarono a essere poco produttivi, il legno iniziò a scarseggiare. Senza alberi, non si potè più pescare perchè le canoe non furono ricostruite; la terra fu dilavata dalle piogge, in quanto non più protetta dal fogliame, e divenne ancor meno produttiva; le statue non furono più costruite; come combustibile si iniziò ad usare l’erba secca, anche se poco efficace. La produzione alimentare non poteva più sostenere la popolazione che era cresciuta in un periodo di intenso sfruttamento del terreno: molti isolani morirono di fame perché il cibo non bastava per tutti, ma questo accadde non prima di una sanguinosa guerra civile, durante la quale, presumibilmente, furono abbattute le statue innalzate dai gruppi ora avversari. I superstiti si diedero al cannibalismo per poter sopravvivere. Non potevano salpare verso nuove isole, perché non c’era più il legno per le imbarcazioni.

    «Mi sono spesso domandato cosa pensasse l’abitante dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero di palma. Forse gridava: «Non alberi, ma posti di lavoro»? Oppure: «La tecnologia risolverà tutti i nostri problemi! Non temete, inventeremo un materiale sostitutivo per il legno»; o magari: «È possibile che ci siano altre palme nelle zone inesplorate dell’isola di Pasqua. Si rendono necessarie ulteriori ricerche, perciò il divieto di abbattere gli alberi è prematuro e sparge solo il panico tra la popolazione». […]
    L’isolamento di Pasqua spiega, probabilmente, perché il crollo di questa società ossessioni i miei lettori e i miei studenti. I paralleli che si possono tracciare tra l’isola di Pasqua e il mondo moderno sono così ovvi da apparirci agghiaccianti. Grazie alla globalizzazione, al commercio internazionale, agli aerei a reazione e a Internet, tutti i paesi della Terra condividono, oggi, le loro risorse e interagiscono, proprio come i dodici clan dell’isola di Pasqua, sperduti nell’immenso Pacifico come la Terra è sperduta nello spazio. Quando gli indigeni si trovarono in difficoltà, non poterono fuggire né cercare aiuto al di fuori dell’isola, come non potremmo noi, abitanti della Terra, cercare soccorso altrove, se i problemi dovessero aumentare».

  • I beni comuni, il profitto e la nostra sopravvivenza

    Quando mi sono diplomato, ho preparato una tesina sul determinismo. Dentro ci stavano bene la sua origine democritea ed epicurea, l’opera letteraria di Lucrezio, la filosofia kantiana, il positivismo, il realismo, la fisiognomica e la psicanalisi, le divagazioni di Tacito sui popoli germanici, la meccanica quantistica e la fine del meccanicismo, la contrapposizione tra compatibilismo e incompatibilismo, insomma il determinismo in tutte le salse; e, visto che avevo letto da poco Armi, acciaio e malattie, dentro ci ho fatto stare anche quello.

    Jared Diamond, l’autore, mi ha affascinato con le sue spiegazioni di natura antropologica e geografica riguardo le cause che hanno favorito l’ascesa dei popoli europei e la loro supremazia nel corso della storia: per rispondere a questo interrogativo, Diamond rifugge da ogni possibile forma di razzismo e darwinismo storico, rigettando l’idea che l’ascesa di alcuni popoli piuttosto che altri sia dovuta a ragioni di tipo genetico o comunque innate nelle particolari etnie protagoniste degli eventi storici. Per lui, spiegare scientificamente il predominio di alcuni popoli su altri non vuol dire giustificarlo, ciò significherebbe «confondere una spiegazione di cause con una giustificazione di risultato». Insomma, capire che “doveva andare così” non implica una valutazione etica del “così”.

    Ora, a distanza di tempo, mi trovo a leggere l’inizio di un altro saggio di Diamond, intitolato significativamente Collasso, che cerca di spiegare perché alcune società sono scomparse lasciando ai posteri suggestive rovine mentre altre, coeve di quelle altre, sono sopravvissute fino ai giorni nostri. L’analisi parte da considerazioni economiche: tutte le società sfruttano le risorse del territorio, dal pesce al legno, dai metalli al terreno da coltivare. In che modo l’errata gestione del territorio ha portato alla scomparsa di alcune civiltà? Com’è possibile che i loro abitanti non se ne siano accorti? E cosa, se se ne sono accorti, ha impedito loro di invertire la rotta?

    Tutte queste domande sono utili anche per comprendere il presente e per cercare di prevedere gli sviluppi del nostro tipo di società. A tal proposito, riporto un estratto preso dal primo capitolo, sul Montana e le sue risorse minerarie, la cui estrazione richiede l’utilizzo di pratiche inquinanti e la produzione di rifiuti tossici.

    «La ASARCO (American Smelting and Refining Company), un gigante dell’industria mineraria e metallurgica, può essere difficilmente ritenuta responsabile per non aver bonificato una sua miniera particolarmente tossica. Le imprese americane esistono per procurare guadagni ai loro imprenditori; è questo il modus operandi del capitalismo americano. Un corollario del processo di arricchimento è di non spendere il capitale quando non sia necessario. Una filosofia così ferrea non è tipica soltanto dell’industria mineraria. Le aziende di successo tracciano una netta linea di demarcazione tra le spese necessarie al proseguimento della loro attività e quelle che vengono definite «obblighi morali». La difficoltà o la riluttanza a capire e ad accettare questa distinzione determina gran parte della tensione tra gli ambientalisti e il mondo degli affari. I capi delle grandi industrie sono contabili e avvocati, e non sacerdoti mossi da preoccupazioni morali».

    La maggioranza delle persone non ha idea di quanti effetti spaventosi dell’attività umana si trovino solo in Montana, che è una zona degli Stati Uniti relativamente povera e poco inquinata. Se sommiamo tutta la merda di tutte le attività di tutte le società umane finiamo per impazzire. Qual è la soluzione per Diamond?

    «L’azienda è una società a scopo di lucro, non un’organizzazione di beneficenza. Se gli abitanti del Montana vogliono che l’azienda modifichi il suo operato, con la conseguenza di diminuire i suoi profitti, è loro responsabilità far pressione sulla classe politica, per far approvare e rispettare leggi che obblighino le aziende a cambiare le loro pratiche, oppure spetta a loro acquistare in blocco quei terreni per gestirli diversamente».

    Secondo me c’è un’altra soluzione, che Diamond trascura: l’abbattimento del sistema che pone il profitto prima dei beni comuni. Somiglia alla sua seconda ipotesi, ma è più globale; ciò non toglie che l’autogestione dei beni comuni possa essere un buon inizio.

    Think globally, act locally.

  • La disobbedienza civile

    H. D. Thoreau nel 1854

    Se nelle ultime due settimane non ho scritto nulla è stato per motivi di studio e non per mancanza di argomenti da trattare, che anzi mi affioravano alla mente con insistenza (decrescita, globalizzazione, movimenti). Ma fra un blocco di appunti e un libro di citologia ho trovato comunque come ritagliarmi il tempo per qualche sana lettura estiva, come potreste aver notato dall’elenco qui a lato, e così ho letto due libelli di Henry David Thoreau che hanno segnato la filosofia anarchica ottocentesca: La disobbedienza civile (1849) e La vita senza princìpi (1863).

    Non volendo tediarvi troppo con la sua biografia, che chi vorrà potrà leggere altrove, mi limito a ricordare che, tanto per la personalità quanto per le scelte di vita, Thoreau fu sempre un bel tipetto: si rifiutò di pagare le tasse in segno di protesta contro le scelte guerrafondaie degli Stati Uniti, allora in guerra con il Messico, e per questo fu arrestato; da allora perse completamente la fiducia nell’istituzione statale («compresi che lo Stato era stupido, […] che non sapeva distinguere gli amici dai nemici, e persi completamente il rispetto nei suoi confronti che mi era rimasto, compatendolo») e decise di distaccarsi non solo da essa, ma anche dall’idea stessa di società, ritirandosi ad una vita appartata anche fisicamente, una scelta questa che lo spinse ad abbandonare la città e a costruirsi una capanna, in riva ad un lago isolato, in cui visse (e scrisse) per due lunghi anni.

    Il linguaggio è chiaro ed i contenuti, nonostante i continui riferimenti biblici e religiosi, nonostante l’ingenuità di alcune sue considerazioni economiche (ma capiamolo, è un pensatore pre-marxista), hanno l’arditezza di andare contro una tradizione filosofica e politica che nello Stato borghese ottocentesco era difficile scalzare: quella di giustificazione dello Stato borghese stesso. Egli lo nega, ne rifiuta la legittimità, fa lo stesso con la democrazia, considerata innaturale (perchè infatti una maggioranza dovrebbe avere il diritto di governare? «La ragione pratica per la quale […] si permette ad una maggioranza di governare, non risiede nel fatto che è più probabile che essa sia nel giusto, […] ma è solo perchè la maggioranza è fisicamente più forte»). Egli propone un’anarchismo individualista, anticipando lo Stirner tardo ottocentesco, e suggerendo validi motivi e validi metodi per abbattere la tirannia democratica, dittatura e imposizione dei più sui pochi.

    Penso tuttavia che Thoreau si scontri con la realtà quando auspica una rinascita individuale e spirituale (ecco l’impeto religioso…) senza programmare un sistema di convivenza che possa prendere il posto dell’esistente (ma anche qui, gli manca l’undicesima tesi su Feuerbach). Si potrebbe liquidare la mia critica facendo notare che a Thoreau non interessano minimamente i massimi sistemi o la costruzione di modelli sociali successivi all’abbattimento della tirannia, semplicemente perchè una volta che l’individuo, da solo, arriva a rifiutare la forma statale, la tirannia è virtualmente abbattuta e la storia si è finita lì. Ma Thoreau commette lo stesso errore-orrore liberista nel considerare l’individuo come entità isolata, in grado di scegliere autonomamente e razionalmente ciò che gli conviene e di scartare e rifiutare ciò che non gli conviene: l’individuo, non c’è bisogno di dimostrarlo in alcun modo, vive tra gli altri e fa parte di una collettività; le sue scelte sono condizionate da regole, tabù, idee e idiosincrasie che non vengono da lui, né dal cielo, né da sole, ma dal rapporto che egli instaura con altri individui. Io posso rifiutarmi di pagare le tasse, di prestare il servizio militare, di votare alle elezioni, di rispettare una legge, ma il solo rifiuto individuale non basta a liberarmi.

    In compenso tanti sono gli spunti interessanti, primo fra tutti il pezzo in cui critica quelle che Benasayag poi chiamò «anime belle»: «Ci sono migliaia di persone che in teoria sono contrarie alla guerra e alla schiavitù, ma che in effetti non fanno niente per porvi fine, […] se ne stanno sedute con le mani in tasca e dicono di non sapere che cosa fare e non fanno nulla». Oppure: «Quando la maggioranza alla fine voterà per l’abolizione della schiavitù sarà perchè la schiavitù le è indifferente e perchè le sarà rimasta ben poca schiavitù da abolire con il voto».

    Infine, leggendolo in questo periodo di tempesta finanziaria e sociale, non posso che trovare considerazioni perfette per il momento, che lui faceva sulla guerra messicana ma che potrebbe trasporsi sostituendo il soggetto con la manovra del governo Berlusconi e con il peso schiacciante del capitale finanziario nel mondo globalizzato: «è opera di un numero relativamente ristretto di persone che si servono del governo stabilito come proprio esclusivo strumento, poiché il popolo non avrebbe consentito all’impresa». Mi sembra evidente che oggi, molto più che nell’ottocento, è ancora difficile scalzare l’ideologia di cui sopra.

    E ora il prossimo libro da leggere è Walden!

  • Contro l’Ancien Régime

    Alla fine ho dato forma al mio motto. Non so in verità se avrei preferito evitare di ingabbiarmi lasciandomi andare a presentazione di me e del blog che, si sa, spesso lasciano il tempo che trovano, perchè una persona, un carattere, una mente, una vita, un pensiero, non si possono giudicare in qualche riga e assolutamente non si possono riassumere.

    Comunque, Contro l’Ancien Régime è una pagina ancora incompleta. È stata scritta stanotte per effetto di un raptus espressivo che minava seriamente alla base la mia concentrazione per affrontare lo studio. Come molti noteranno, non è ancora una pagina di presentazione del blog né di me stesso. Ma datemi un po’ di tempo.


    I borghesi hanno fatto la Rivoluzione Francese ma sembrano avere dimenticato che ciò che ha fatto della Francia une Grande Nation è stato il trinomio «Liberté, Égalité, Fraternité». Appena ne hanno avuto la possibilità, hanno abbandonato il cappello frigio dei sanculotti giacobini per sostituirlo con un ben più sontuoso cilindro di feltro nero da abbinare al panciotto e a dorati gemelli da camicia. Hanno inventato il mito del realizzarsi, si sono industriati come mai prima nella storia moderna per il progresso e la crescita economica in nome di una storiella, molto in voga all’epoca, che parlava di una mano invisibile. Hanno armato migliaia di uomini per reprimere le azioni e soffocare le voci di chi alla storiella non credeva o non poteva crederci, di fronte all’evidenza lampante della sua fallacità; hanno mandato quegli uomini con fucili e manganelli contro le folle affamate esattamente come poco tempo prima i Re e i Principi ne avevano mandati contro di loro; poi li hanno mandati in terre lontane, a imporre con la forza la nuova religione del dio denaro a popoli increduli e indifesi; alla fine non era più rimasto niente e li hanno mandati ad ammazzarsi tra di loro, come carne da macello. Non contenti di questo, hanno cominciato a monetizzare oggetti e concetti di ogni tipo, anche i più impensabili: dall’aria all’acqua, dalle parole alla musica, dalla scienza alla conoscenza, dalla vita alla morte, dall’immaginazione alla coscienza; e una volta monetizzati, comprarli è stato per loro facile come rubare le caramelle a un bambino.

    Non è molto diverso dall’Ancien Régime. Quale Liberté, quale libertà di scelta consapevole posso vantare di avere se quando compro qualcosa non c’è alcuna trasparenza tra il marchio e il consumatore? Se quando voto democraticamente indicando qualcuno le decisioni le prende qualcun altro? Se non posso scegliere che lavoro fare per contribuire allo sviluppo civile e alla vita collettiva? Se non c’è reale partecipazione in scelte decisionali i cui effetti ricadono sulla testa di tutti? Che libertà ho, di fare cosa? Libertà di religione? È uno strumento di controllo sociale e limita la libertà nella misura in cui si basa su dogmi. Libertà di parola? Gli sgherri manzoniani sono pronti in ogni momento a manganellare o a censurarti se ti lasci sfuggire verità scomode. Libertà di scegliere che lavoro fare? Appartengo ad una generazione precaria sul piano lavorativo e sul piano esistenziale. Libertà di pensiero? «Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate», diceva una canzone, «e in cambio pretendete» la libertà di indossare vestiti firmati, di avere l’ultimo modello del cellulare, di aggiornare il vostro profilo di Facebook, di seguire i reality show, di accendere la televisione per contare, sorridendo beffardi dentro di voi, quante disgrazie sono capitate oggi ad altri.

    Dov’è l’Égalité quando l’economia è controllata da un’oligarchia dispotica e strutturata nel modo più vicino al totalitarismo che l’Occidente abbia saputo produrre dopo i Fascismi del Novecento? Quando la ricchezza è distribuita con un’asimmetria impressionante, per cui un decimo della popolazione sfrutta nove decimi delle risorse, mentre i restanti nove decimi della popolazione sono costretti a patire la fame, la sete, la miseria, le malattie nonostante che l’esistente sarebbe sufficiente per tutti? Dov’è la ragionevolezza dei padri illuministi della Rivoluzione, in tutto questo?

    Che Fraternité posso dire di vedere in un mondo in cui si riesce a giudicare una persona, pur fatta di una sua individualità, basandosi sul colore della sua pelle o sulla forma dei suoi occhi, annullando così completamente ogni possibile forma di comunicazione e comprensione? Dov’è la fratellanza tra i popoli quando si sganciano bombe su civili inermi, e tra le persone quando alcune vengono rinchiuse per anni in lager di detenzione per scontare la pena per il reato di essere clandestini? E dov’è ancora quando, una volta usciti dai lager, li si infila in un bastimento come capi di bestiame per riportarli nell’inferno da cui provenivano? E, nell’eventualità che riuscissero a evitare questa triste sorte, dov’è la fratellanza e l’umanità quando, restando, non trovano che insulti e discriminazioni?

    Non ci sono dubbi, questo è ancora l’Ancien Régime.