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  • La democrazia ha senso?

    Alcuni recenti discorsi mi hanno offerto l’opportunità di riflettere su concetti che davo ormai per assodati e su un interrogativo che potrebbe sembrare banale, ovvero: la dialettica democratica ha senso? E tali riflessioni hanno partorito una risposta positiva, quindi una conferma di ciò che pensavo prima di intraprendere le sopra menzionate discussioni. Si potrebbe osservare che crucciarsi tanto a riflettere su un’opinione e poi ribadirla non sia molto utile, per dirlo con un eufemismo, ma piuttosto l’attuazione di una retorica fallace e faziosa come la risposta di un Anselmo d’Aosta, che, sotto lo sguardo di un accigliato Gaunilone, fa platealmente uscire Dio dalla porta per farlo rientrare dalla finestra, ponendo sottobanco fin da subito ciò che intende dimostrare poi.

    Tuttavia, mettendo le mani avanti, rivendico il mio diritto di riconfermare un’opinione opinabile dopo che essa è stata sottoposta a critica e ha subito gli attacchi della dialettica, fosse anche indistinguibile dalla sua precedente versione, in quanto la dialettica fortifica il pensiero, permette la sua maturazione, implica un passaggio obbligato dinamico tra la tesi e la sintesi facendo sì che queste due non possano mai essere identiche: detto in altre parole, una critica non può essere ignorata e quando così sembra in realtà così non è.

    L’argomento è stato al centro di molte considerazioni provenienti da amici e conoscenti dell’area libertaria (odio appioppare etichette) che antepongono l’individuo alla collettività e mettono fortemente in discussione la validità della democrazia in quanto mezzo di imposizione della maggioranza sulle minoranze e l’individuo.

    Questi pensieri mi hanno riportato alla mente una lunga discussione, fatta due anni fa con un amico anarchico, che verteva sulla realizzabilità di un metodo decisionale in cui ogni scelta ha valore esclusivamente se condivisa all’unanimità dall’assemblea. Sostenitore dell’unanimità, il suo ragionamento era semplice:

    «La maggioranza non può decidere per la minoranza, perché schiaccerebbe la libertà di quest’ultima, quindi il confronto e il dibattito devono continuare finché si trova non un compromesso tra le parti, bensì qualcosa che realmente è voluto da tutta l’assemblea e che sarà approvato, infine, all’unanimità».

    «Ma ci sono questioni in cui non esiste tale alternativa», ribattevo io, «in cui va scelta questa cosa o quest’altra, senza vie di mezzo né vie traverse. E, soprattutto, ci sono questioni su cui non ci può essere unanimità perché non c’è certezza, non c’è assolutezza. Tante delle nostre opinioni si basano su presupposti non dimostrabili che, in virtù di tale indimostrabilità, non possono essere scalfite dal confronto e dal ragionamento dialettico e sono destinate a restare inconciliabili con altre opinioni: ecco perché su queste questioni non si potrà mai trovare un accordo unanime».

    «L’accordo unanime si può trovare», ribadiva lui, «perché siamo tutti ugualmente intelligenti e quindi in grado di capire su cosa basare i nostri ragionamenti, se su pregiudizi o su dati reali: parlandone, alla fine si escogita una soluzione che riesce ad accontentare tutti».

    «Ma come», replicavo, «come puoi esser certo che ciascuno sia in grado di distinguere la realtà da una sua interpretazione parziale basata su presupposti indimostrabili? Come puoi non prendere in considerazione la possibilità che il ragionamento sia scavalcato dall’irrazionalità e dall’emozione istintiva, trasformando l’unanimità in uno strumento dittatoriale ad uso di uno o pochi dei membri dell’assemblea, che, con retorica e sotterfugi, siano riusciti a manovrare le opinioni dei restanti membri?»

    «Ma ciò non sarebbe possibile, perché ogni individuo conosce bene il proprio vantaggio e quindi non permetterebbe che la decisione dell’assemblea diventi la decisione di una sua parte».

    Bene, ricordo che, conclusa la discussione, mi resi conto che essa era stata esattamente un esempio di ciò che avevo descritto: non riuscimmo a trovare un accordo sulla questione maggioranza-unanimità, sia perché è per definizione impossibile conciliare i due metodi, sia perché, latenti nel discorso, c’erano due diverse opinioni basate su presupposti non dimostrabili, che cozzavano sotterraneamente l’uno contro l’altro: lui, infatti, era convinto che siamo tutti ugualmente intelligenti e quindi capaci di prevenire prevaricazioni plebiscitarie all’interno di un’assemblea, io, dal canto mio, ero meno propenso ad accettare questa idea, sulla base di considerazioni scientifiche e sociologiche. Scientifiche perché se prima eravamo stupide scimmie e ora siamo senzienti esseri umani deve esserci stata selezione naturale sulla base di caratteri tra cui verosimilmente quelli riconducibili alla sfera intellettiva; sociologiche perché la sociologia, oltre che la storia, mostrano quanto sia facile che gruppi di persone siano dirottati verso interessi particolari che non giovano ad essi. Ora, oltre al fatto che la scienza, di cui io ho fatto il mio strumento per la dimostrazione del mio presupposto, per sua struttura non verifica ma falsifica, dunque non dimostra la verità ma la non verità, c’è anche un altro problema. Infatti sono sicuro che anche il mio amico riuscirebbe a sostenere ragionevolmente il suo presupposto, cioè che siamo tutti intelligenti allo stesso modo.

    La morale di questo breve racconto è che alcune scelte, al netto degli obiettivi che ci si pone, sono destinate a rimanere arbitrarie, dunque arbitraria in sede teorica rimane la mia preferenza per la democrazia piuttosto che per il sistema unanime.

    Esso suscita però altre domande, perché degli stessi problemi che esponevo in quella discussione (latenti derive autoritarie, predominio delle emozioni sulla ragione) è passibile il metodo democratico. Perché allora preferisco la democrazia? Perché preferisco il collettivo all’individuale? Perché penso che se pensi solo per te, commetti lo stesso errore di Adam Smith, a cui dobbiamo la convinzione che se alziamo il livello dell’acqua per far salire gli yacht dei ricchi, al nuovo livello si alzeranno anche le barchette dei poveri, lo stesso errore per cui si immagina l’individuo avulso da condizionamenti, capace di scegliere nel proprio interesse, autonomo e libero come se vivesse su un’isola deserta. Ma qui il discorso si chiude, tornando all’arguto Gaunilone, perché quest’isola non esiste.

  • Walden

    Come promesso nell’articolo precedente, ho letto un altro libro di Thoreau. In verità confesso di aver saltato alcune parti a causa dello stile a tratti ripetitivo e poco conforme alla condizione in cui mi piace leggere, ma è probabile che questa mia sensazione sia stata, più che noia, un senso di pienezza di contenuti: come se, a un certo punto, fossi saturo del libro, perchè il suo messaggio fondamentale è talmente pregnante che mi sono imbevuto del suo significato, come una spugna, da poter difficilmente ottenere di più dalla sua lettura. Il pensiero di Thoreau mi ha permeato tanto che da un certo momento in poi è stata come superflua ogni ulteriore lettura.

    Nel corso della lettura, condotta con una matita e un foglio bianco a portata di mano, ho trascritto alcune frasi che mi piacerebbe condividere e che mi auguro facciano riflettere e discutere i lettori di questo blog. Infatti, nonostante il misticismo religioso e i chiari riferimenti ad una cultura protestante bigotta come quella della famiglia da cui proveniva l’autore, è bene tenere presente che è stato uno dei primi pensatori moderni a mettere in discussione la legittimità dello stato e della società stessa, teorizzando la totale libertà individuale (non senza problemi di natura giuridica né senza intoppi in materia di filosofia politica).

    «Si dice che Mirabeau si desse alla rapina sulle strade maestre “per vedere che grado di coraggio sia necessario onde porsi in chiara opposizione alle leggi più sacre della società”. […] “Un soldato, che combatta nei ranghi, non ha bisogno di tanto coraggio quanto un brigante” »

    Il suo interesse per le dottrine orientali, in particolare indiane, lo si evince a più riprese sia da riferimenti espliciti a personaggi ed eventi, sia dalla tensione verso la spiritualità e la ricerca interiore, rafforzata dal suo trascendentalismo filosofico-religioso. Questo atteggiamento io l’ho intravisto nella seguente frase:

    «Ogni uomo è il signore d’un regno accanto al quale l’impero terreno dello Czar non è che un insignificante staterello»

    e in queste altre:

    «Qualsiasi verità è meglio dell’inganno. Tom Tyde, il calderaio, mentre stava sul patibolo, a quelli che gli chiedevano se non avesse nulla da dire, rispose: “Dite ai sarti di fare il nodo in fondo al filo, prima di dare il primo punto”. La preghiera del suo compagno è stata dimenticata»

    «La superficie della terra è morbida, atta a ricevere l’impronta dei piedi umani, così sono i sentieri che la mente percorre»

    «L’anima, dalle condizioni in cui è posta, sbaglia a riconoscere il proprio carattere finché la verità non le è rivelata da qualche santo maestro, e allora essa scopre da sé di essere Brahma»

    Per finire, qualche spunto decrescitista, che dedico con tutto il cuore al movimento NoTav:

    «Chissà, se gli uomini si costruissero la loro casa con le loro mani e provvederanno il cibo per sé e per le loro famiglie con sufficiente onestà e semplicità, se le loro tendenze poetiche non sarebbero universalmente sviluppate come negli uccelli, che cantano anche quando si stanno costruendo il nido?»

    «Se necessario, si trascuri di costruire un ponte sul fiume, e magari, così, in quel tratto si allungherà un po’ la strada; ma si getti almeno un’arcata sul più oscuro golfo dell’ignoranza che ci circonda»

    Vi lascio con la traduzione dal latino di Alexander Pope:

    “Nor wars did men molest

    When only beechen bowls were in request”

  • La disobbedienza civile

    H. D. Thoreau nel 1854

    Se nelle ultime due settimane non ho scritto nulla è stato per motivi di studio e non per mancanza di argomenti da trattare, che anzi mi affioravano alla mente con insistenza (decrescita, globalizzazione, movimenti). Ma fra un blocco di appunti e un libro di citologia ho trovato comunque come ritagliarmi il tempo per qualche sana lettura estiva, come potreste aver notato dall’elenco qui a lato, e così ho letto due libelli di Henry David Thoreau che hanno segnato la filosofia anarchica ottocentesca: La disobbedienza civile (1849) e La vita senza princìpi (1863).

    Non volendo tediarvi troppo con la sua biografia, che chi vorrà potrà leggere altrove, mi limito a ricordare che, tanto per la personalità quanto per le scelte di vita, Thoreau fu sempre un bel tipetto: si rifiutò di pagare le tasse in segno di protesta contro le scelte guerrafondaie degli Stati Uniti, allora in guerra con il Messico, e per questo fu arrestato; da allora perse completamente la fiducia nell’istituzione statale («compresi che lo Stato era stupido, […] che non sapeva distinguere gli amici dai nemici, e persi completamente il rispetto nei suoi confronti che mi era rimasto, compatendolo») e decise di distaccarsi non solo da essa, ma anche dall’idea stessa di società, ritirandosi ad una vita appartata anche fisicamente, una scelta questa che lo spinse ad abbandonare la città e a costruirsi una capanna, in riva ad un lago isolato, in cui visse (e scrisse) per due lunghi anni.

    Il linguaggio è chiaro ed i contenuti, nonostante i continui riferimenti biblici e religiosi, nonostante l’ingenuità di alcune sue considerazioni economiche (ma capiamolo, è un pensatore pre-marxista), hanno l’arditezza di andare contro una tradizione filosofica e politica che nello Stato borghese ottocentesco era difficile scalzare: quella di giustificazione dello Stato borghese stesso. Egli lo nega, ne rifiuta la legittimità, fa lo stesso con la democrazia, considerata innaturale (perchè infatti una maggioranza dovrebbe avere il diritto di governare? «La ragione pratica per la quale […] si permette ad una maggioranza di governare, non risiede nel fatto che è più probabile che essa sia nel giusto, […] ma è solo perchè la maggioranza è fisicamente più forte»). Egli propone un’anarchismo individualista, anticipando lo Stirner tardo ottocentesco, e suggerendo validi motivi e validi metodi per abbattere la tirannia democratica, dittatura e imposizione dei più sui pochi.

    Penso tuttavia che Thoreau si scontri con la realtà quando auspica una rinascita individuale e spirituale (ecco l’impeto religioso…) senza programmare un sistema di convivenza che possa prendere il posto dell’esistente (ma anche qui, gli manca l’undicesima tesi su Feuerbach). Si potrebbe liquidare la mia critica facendo notare che a Thoreau non interessano minimamente i massimi sistemi o la costruzione di modelli sociali successivi all’abbattimento della tirannia, semplicemente perchè una volta che l’individuo, da solo, arriva a rifiutare la forma statale, la tirannia è virtualmente abbattuta e la storia si è finita lì. Ma Thoreau commette lo stesso errore-orrore liberista nel considerare l’individuo come entità isolata, in grado di scegliere autonomamente e razionalmente ciò che gli conviene e di scartare e rifiutare ciò che non gli conviene: l’individuo, non c’è bisogno di dimostrarlo in alcun modo, vive tra gli altri e fa parte di una collettività; le sue scelte sono condizionate da regole, tabù, idee e idiosincrasie che non vengono da lui, né dal cielo, né da sole, ma dal rapporto che egli instaura con altri individui. Io posso rifiutarmi di pagare le tasse, di prestare il servizio militare, di votare alle elezioni, di rispettare una legge, ma il solo rifiuto individuale non basta a liberarmi.

    In compenso tanti sono gli spunti interessanti, primo fra tutti il pezzo in cui critica quelle che Benasayag poi chiamò «anime belle»: «Ci sono migliaia di persone che in teoria sono contrarie alla guerra e alla schiavitù, ma che in effetti non fanno niente per porvi fine, […] se ne stanno sedute con le mani in tasca e dicono di non sapere che cosa fare e non fanno nulla». Oppure: «Quando la maggioranza alla fine voterà per l’abolizione della schiavitù sarà perchè la schiavitù le è indifferente e perchè le sarà rimasta ben poca schiavitù da abolire con il voto».

    Infine, leggendolo in questo periodo di tempesta finanziaria e sociale, non posso che trovare considerazioni perfette per il momento, che lui faceva sulla guerra messicana ma che potrebbe trasporsi sostituendo il soggetto con la manovra del governo Berlusconi e con il peso schiacciante del capitale finanziario nel mondo globalizzato: «è opera di un numero relativamente ristretto di persone che si servono del governo stabilito come proprio esclusivo strumento, poiché il popolo non avrebbe consentito all’impresa». Mi sembra evidente che oggi, molto più che nell’ottocento, è ancora difficile scalzare l’ideologia di cui sopra.

    E ora il prossimo libro da leggere è Walden!

  • Alice’s adventures in Wonderland

    Alice Plaesance Liddel

    Ho appena finito di leggere quello che è considerato il capolavoro di Lewis Carrol, l’opera che meglio riflette la sua personalità ambigua e controversa.

    La prima cosa che salta all’occhio e alla mente leggendo il primo libro, il cui seguito sarà Attraverso lo Specchio, è la necessità di leggerlo in lingua originale; tale dovrebbe essere la scelta da preferirsi ogni volta che si decide di avventurarsi nella lettura di un romanzo scritto in una lingua che si conosce sufficientemente bene da poter considerare l’attività come un affinamento delle proprie capacità linguistiche; ma ovviamente tale scelta non sarebbe opportuna per meri scopi didattici, bensì per un vantaggio letterario e artistico nell’apprezzamento dell’opera.

    È un’ipotesi ormai accreditata quella secondo cui la visione del mondo di ciascuno si forma sulla base di classificazioni e categorizzazioni mentali che non possono prescindere dall’aspetto linguistico; ognuno coglie il mondo e percepisce i fenomeni secondo dei modelli di pensiero che solo la lingua può esprimere. Non a caso studi su individui bilingue per nascita hanno mostrato come, a seconda della lingua utilizzata in un certo momento, essi hanno una diversa percezione del mondo e un diverso modo di comportarsi di fronte agli oggetti e agli eventi, che vengono classificati mentalmente secondo dei “cassetti” che hanno l’aria di avere una natura del tutto kantiana (ipotesi di Sapir-Whorf).

    E sulla base di questo dato si potrebbero costruire tante teorie per spiegare fenomeni culturali come la tendenza a confondere certi concetti astratti, a stabilire certi tabù e non altri, ad elaborare un sistema valoriale che apprezzi qualcosa come virtù condannando qualcos’altro come vizio, a dividere dualisticamente in un modo preciso o impreciso il mondo materiale e la sua natura spirituale eccetera. Per esempio molte considerazioni interessanti sul rapporto di legame tra lingua e cultura potrebbero derivare dal fatto insolito che in arabo classico la stessa parola significa una coppia di concetti opposti (giusto-ingiusto, buono-cattivo), con la conseguenza che l’idea di guerra santa ha delle basi linguistiche.

    Ma prima viene l’uovo o la gallina? Insomma, per come la vedo io, «il linguaggio precede e nutre il pensiero» (Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, R. Lewis). Lo scopo di questi pensieri (se i pensieri possono avere uno scopo) non è tuttavia stilare una raccolta di considerazioni già fatte da tanti studiosi (N. Chomsky, U. Eco, U. Galimberti, G. Lakoff, R. Barthes…) dei quali, con la mia scarsa esperienza, non mi permetto di prevaricare il ruolo, sputando sentenze a destra e a manca sulla reciproca influenza che la cultura come sistema e il linguaggio come struttura esercitano.

    Invece volevo cogliere spunto dalla lettura di Carroll per fare delle riflessioni sull’importanza delle parole. Tralasciando quindi la necessità di leggerlo in inglese, per via dei continui giochi di parole, delle assonanze, delle filastrocche e dei fraintendimenti che rendono qualsiasi traduzione in una lingua diversa dall’originale un’opera a sé stante, c’è anche un’altra questione da affrontare: che, come scrive Pietro Citati in una prefazione ad Alice, «Lewis Carrol aveva compreso che la lingua non combacia con la realtà. La lingua è arbitraria. Da un lato sta la cosa […] dall’altra il nome, e fra loro si apre un abisso incolmabile» e che «i nomi non sono consequentia rerum, ma, al contrario, le cose sono le conseguenze dei loro nomi».

    Ora, se questo è vero per tutti e non solo per i bambini, per quanto forse Carroll non se ne rendesse conto, allora è vero che siamo tutti un po’ matti, né più né meno del Cappellaio.

  • C’è forse meno poesia?

    Gli esseri viventi non sono una sfida alla seconda legge della termodinamica. Nei loro tessuti essi amministrano una diminuzione locale di entropia solamente a spese di un aumento di entropia molto maggiore negli alimenti. Considerate insieme esseri viventi e alimenti e avrete un aumento dell’entropia.

    Si può sollevare comunque una seconda obiezione, più sottile. Nel corso della evoluzione, forme di vita semplici sono evolute in forme più complesse. Questa non è una diminuzione complessiva di entropia?
    Potrebbe esserlo, se le forme di vita semplici fossero realmente scomparse con la sostituzione di forme complesse e se nelle successive ere geologiche sulla terra fosse esistito solamente un insieme progressivamente più complesso di forme viventi.
    Invece rimangono forme di vita semplici, e il numero complessivo di forme di vita complesse è inferiore ad esse. Voi potete considerare l’insieme dei viventi proprio come costituito da una gerarchia di forme di vita semplici, più complesse, ancora più complesse, più complesse ancora, e così via: e ogni tappa procedendo verso l’alto è rappresentata da una massa totale sempre più piccola di tessuti viventi.

    C’è anche un’altra versione dell’ottovolente dell’energia. Parlando in generale, gli esseri viventi di grandi dimensioni e complessità vivono cibandosi di esseri più piccoli, che si cibano di altri più piccoli, e così via. I pescicani, per esempio, mangiano grossi pesci, i quali mangiano pesci piccoli, i quali mangiano pesciolini, i quali mangiano larve, le quali mangiano microrganismi unicellulari.
    Ma i cibi di cui si nutre un essere vivente vengono trasformati in suoi tessuti solamente grazie all’ottovolante dell’energia, e in questo modo solamente una piccola parte dell’energia libera degli alimenti viene immagazzinata nei tessuti dell’animale che si ciba, e il resto va sciupato.
    Si considera una scomoda legge dettata dall’esperienza, che occorrano cinque chili di alimenti per costruire mezzo chilo di tessuti, mentre gli altri quattro chili e mezzo di alimenti svaniscono in forma di calore e scorie.
    Deve dunque esserci un bilancio passivo. Ad ogni mezzo chilo di pescecane vivo debbono sempre corrispondere cinque chili di pesce di grossa taglia vivo, e a questo cinquanta chili di pesce piccolo, a questi cinquanta altri, cinquecento di pesciolini, a questi cinquecento, cinquemila chili di larve, a questi cinquemila, cinquantamila chili di microrganismi unicellulari.
    Questo, se volete, è un ottovolante dell’energia. Quella meravigliosa macchina che è il pescecane vivo, si mantiene in vita a spese della demolizione di una massa di microrganismi elementari che è centomila volte il suo peso. L’aumento di complessità è quindi più che pareggiato da questa colossale demolizione, e si deve considerare che complessivamente vi è un aumento dell’entropia.

    […] Ma si può sollevare un’obiezione ancora pià sottile. Le trasformazioni indotte dalla civiltà umana comportano una massiccia diminuzione dell’entropia, con la trasformazione dei minerali in metalli grezzi e quindi in meccanismi complessi; del legno in carta e poi in libri; delle sostanze chimiche in composti amorfi e poi in materiali forniti di una struttura. Ci si rende subito conto che questo lo si ottiene a spese di un aumento ben più grande di entropia legato al lavoro muscolare, alla combustione di carbone, di petrolio e così via.
    Questo è vero per quanto riguarda il lavoro fisico, ma per il lavoro intellettuale? Qual è la diminuzione di entropia legata alla trasformazione di macchie disordinate di colore in un quadro suggestivo, alla trasformazione di suoni caotici in una splendida sinfonia, alla trasformazione di parole disposte a caso in una grande opera letteraria, alla trasformazione di pensieri senz’ordine in una nuova sensazionale concezione?
    I fisici qui si ritirano.

    Isaac Asimov, La fotosintesi

  • Ritorno alla metafisica

    Il titolo parla di metafisica e capisco bene chi, conoscendomi, strabuzzerà gli occhi nell’accorgersi che recita alla metafisica e non dalla metafisica. Non li biasimo; in fin dei conti hanno più che ragione, dal momento che con metafisica intendo la sua accezione kantiana, ovvero di scienza dei limiti della ragione, ma pur sempre scienza e non astratta illusione. Già, perchè che esistono scienza e illusione è un fatto, e se la ragione si sofferma ad esaminare i propri limiti (come suggerisce un celebre titolo) non può che farlo dal punto di vista proprio della ragione, cioè in maniera scientifica. Per questo può dirsi non dico l’esistenza, perchè sconfinerei appunto nella metafisica, ma per lo meno la validità formale di una scienza dei limiti della ragione, che chiamiamo metafisica (kantiana, se vogliamo).

    Con ritorno alla metafisica mi riferisco al piuttosto lungo lasso di tempo che separa il presente dall’ultima volta in cui mi sono abbandonato, catturato dallo studio della filosofia settecentesca, a fantasticherie filosofiche che secondo alcuni lasciano il tempo che trovano, e che secondo me sono invece in grado di diventare interessanti, guardate da almeno un punto di vista (che è il mio), e ciò mi dà automaticamente il diritto di pubblicare questo genere di riflessioni tra le righe che seguono.

    Lo studio della matematica mi rende sempre più persuaso del fatto che nulla è dato perchè tutto deriva da quelle che in matematica chiamiamo posizioni (posizione è da intendere come l’atto di porre qualcosa, cioè di stabilire una regola). Gli assiomi sono le prime posizioni e da queste segue tutta l’impalcatura teorica che è un sistema matematico. Per esempio, dobbiamo dimostrare che esiste un solo elemento neutro per l’addizione e uno solo e un solo elemento neutro per la moltiplicazione e uno solo e che questi elementi sono rispettivamente zero e uno. Per quanto logico e scontato possa sembrare il fatto che x+0=x e che x*1=x, queste sono da dimostrare a partire da pochissimi assiomi, i quali sono considerati veri per mera evidenza. Qualcuno potrebbe osservare: “come se non fosse meramente evidente il fatto che un numero sommato al nulla o preso una volta rimanga uguale“.

    In effetti io potrei svegliarmi un mattino, magari con acuti postumi di una sbornia difficile da ricacciare nel mondo dell’irrazionale da cui proviene, e stabilire assiomi completamente diversi da quelli che sono assunti come veri per mera evidenza e nessuno potrebbe impedirmelo o dire che il risultato di operazioni numeriche o insiemistiche eseguite nel nuovo sistema siano scorrette, perchè la scorrettezza implica una correttezza che non esiste di per sé, ma è data proprio da chi esegue quelle operazioni scegliendo un sistema o un altro. Il motivo per cui riteniamo evidentemente vere le posizioni assiomatiche su cui si basa l’abituale sistema matematico è che esse sono in accordo con l’esperienza che noi abbiamo della realtà, ma ciò non deve portare alla conclusione che quelle proposizioni sono assolutamente vere, giacché la verità dipende da una scelta operata dal soggetto (e anche perchè l’assolutamente vero e l’assolutamente falso sono concetti da tempo superati dalla logica matematica, cfr. Le menzogne di Ulisse, P. Odifreddi), il che richiama in qualche modo la teoria quantistica (in particolare il collasso della funzione d’onda) che comunque non affronterò hic et nunc per insufficiente competenza.

    In definitiva, la cosa interessante è che la credenza religiosa più semplice, quella deista, e la matematica, condividono la caratteristica di essere basate su idee non dimostrabili. La differenza risiede nel fatto che la matematica non ha la pretesa dell’assolutezza e può mettere quindi in discussione se stessa e i propri principî, addirittura la propria validità ed esistenza. E dal momento che non può farlo che conformemente ai propri caratteri, lo fa in maniera razionale e scientifica, proprio come la ragione kantiana.

    II primo che dimostrò il triangolo isoscele (si chiamasse Talete o come si voglia), fu colpito da una gran luce: perché comprese ch’egli non doveva seguire a passo a passo ciò che vedeva nella figura, né attaccarsi al semplice concetto di questa figura, quasi per impararne le proprietà; ma, per mezzo di ciò che per i suoi stessi concetti vi pensava e rappresentava (per costruzione), produrla; e che, per sapere con sicurezza qualche cosa a priori, non doveva attribuire alla cosa se non ciò che scaturiva necessariamente da quello che, secondo il suo concetto, vi aveva posto egli stesso.

    I. Kant, Critica della ragion pura