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  • Raffigurare la rivoluzione delle donne: corpi che interagiscono con le immagini

    Ho tradotto questo testo originariamente scritto in farsi da L., una militante femminista iraniana, tradotto in inglese e pubblicato su Jadaliyya, sito di riflessione culturale e politica dello spazio tra l’Africa del Nord e l’Asia occidentale. In questa intensa testimonianza diretta, una donna della rivolta in Iran racconta l’esperienza politica sensibile dell’essere un’immagine di libertà: impossibile da catturare, centralizzare, dominare. La mia traduzione in italiano è poi stata pubblicata su Dinamopress.

    Donne che danzano sul viale Bandar Abbas

    La sollevazione in Iran: una rivoluzione femminista?

    Per Zhina, Niloofar, Elaheh, Mahsa, Elmira, e per tutte coloro di cui devo ancora pronunciare i nomi.

    Questo scritto è il tentativo di elaborare un’intuizione nata dall’esperienza diretta di un divario: quello tra il vedere foto e video di proteste online e l’essere presente in strada. È uno sforzo esplicativo del corto circuito che attraversa l’apertura tra queste due sfere – spazio virtuale e realtà della strada – in questo momento storico. [In un corto circuito, si stabilisce una connessione tra due parti di un circuito elettrico che può causare una corrente fino a migliaia di volte superiore a quella che ci si aspetterebbe per il circuito]

    Le proteste hanno raggiunto la mia piccola cittadina pochi giorni dopo essere scoppiate in Kurdistan e solo due giorni dopo Teheran. Per diversi giorni, sono stata esposta a video che ritraevano le proteste della gente in strada, le loro canzoni, le foto e le figure delle manifestanti. Mercoledì, mi sono infine trovata io stessa nel mezzo di una protesta di strada. I miei primi momenti “lì”, in strada, circondata da altre persone, sono stati stranissimi. Appena un giorno prima avevo guardato queste persone manifestare da dietro lo schermo del mio telefono, ammirandone il coraggio, commuovendomi e piangendo di fronte alle loro azioni. Ora mi guardavo intorno e provavo a sincronizzare le immagini della strada con la realtà della strada. Quello che osservavo coi miei occhi era molto simile a quanto avevo già visto sullo schermo, ma c’era un divario, uno scarto tra la me-spettatrice e la me-in-strada, e sono bastati pochi brevi istanti per rendermene conto.

    La strada non era più per me un luogo di paura, ma uno spazio ordinario [faza-ye ‘adi]. Tutto era ordinario, anche quando le forze di sicurezza ci hanno attaccate con manganelli, proiettili e taser. Non so bene come spiegare la parola “ordinario”, non saprei che altro termine usare. Lo spazio tra me e le immagini che avevo desiderato si era accorciato improvvisamente: io stessa ero quelle immagini. D’un tratto, mi trovavo in un cerchio a bruciare il velo come se lo avessimo sempre fatto. D’un tratto, prendevo coscienza di me stessa e mi accorgevo che la polizia mi aveva picchiata appena qualche attimo prima.

    L’esperienza reale di essere picchiata era molto più ordinaria di ciò che avevo visto sullo schermo.  Non c’era traccia del dolore che avevo immaginato guardando quei video.

    Quando il corpo subisce i colpi è “caldo” e non proviamo il dolore che ci potremmo aspettare. Avevamo visto diversi video di corpi crivellati di pallini di gomma, ma le persone colpite dicono che non sono poi così dolorosi o terrificanti.

    In strada, d’un tratto pensi che dovresti correre e ti accorgi che hai già iniziato a correre. Ti dici che ti dovresti accendere una sigaretta e ti trovi proprio lì, tra la gente, a fumare una sigaretta [1]. Il corpo si muove più veloce della percezione, le due cose non sono ancora sincronizzate. Penso che neanche la morte faccia paura a chi ha sperimentato l’essere in strada. L’esperienza della strada sospende il pensiero della morte, ed è questo che fa paura a chi, dall’altro lato, osserva: vedere persone pronte a morire. Siamo persone pronte a morire. Anzi, nemmeno pronte: piuttosto liberate dal pensiero della morte. Ci siamo lasciate la morte alle spalle, nell’intimo incontro con le nostre paure e nell’aver corso oltre, nel calore dei nostri corpi.

    Una volta ho ricevuto sonori applausi dopo essere sfuggita a un confronto con le forze di sicurezza ed essere corsa a riconfondermi nella folla. Camminando di notte verso casa, un fattorino in moto passando mi faceva il segno della vittoria o mi lanciava urla di incoraggiamento. Ero ancora assorta nell’evento: non ero pienamente cosciente del motivo dell’apprezzamento e dell’incoraggiamento. La mattina dopo, guardandomi i lividi allo specchio, i dettagli degli scontri mi sono improvvisamente ripassati davanti agli occhi. Era come se mi fossi di colpo ricordata di un sogno di cui non ero cosciente fino a un attimo prima.

    Il mio corpo si era raffreddato, la mia mente aveva cominciato a lavorare. Non ero semplicemente stata picchiata: avevo anche resistito e risposto con pugni e calci. Il mio corpo aveva inconsciamente reagito facendo ciò che avevo visto fare ad altri. Mi ricordavo i volti increduli delle guardie nel tentativo di sopraffarmi. Soltanto adesso, dopo un certo intervallo di tempo, la memoria aveva raggiunto il corpo.

    Per me, la differenza palpabile tra questa protesta e le proteste a cui avevo partecipato in passato è stata il passaggio dal “movimento di una folla” alla “creazione di una situazione”. Ogni volta, nel breve intervallo prima dell’arrivo delle forze della repressione, un raduno di dimostranti si formava intorno a una situazione per creare qualcosa.

    Con l’arrivo delle guardie, a seconda delle condizioni della strada e di quella delle vie circostanti, il raduno si disperdeva dopo lo scontro, ma solo per riformarsi in un altro luogo. Queste situazioni si creavano quando la gente bloccava una strada, bruciando un cassonetto al centro della carreggiata e immobilizzando il traffico. All’interno di questa finestra di possibilità, la folla non enorme ma determinata cercava rapidamente di creare una situazione. “E ora bruciamo il velo.” Una donna saltava su un bidone, fronteggiava il traffico bloccato e alzava il pugno, restando fissa in quella posa qualche istante. Un’altra donna saltava sul tetto di una macchina e sventolava il velo per aria. Alcune donne di mezza età restavano nel mezzo del gruppo dall’inizio alla fine, muovendosi subito per aiutare il rilascio di eventuali persone arrestate.

    La figura della donna che porta la torcia su Boulevard Keshavarz.

    Chiunque voleva essere parte della massa di immagini viste nei video delle proteste dei giorni precedenti e provenienti da altre città. In questi momenti, le persone che intonavano slogan erano pochissime. Potevo chiaramente vedere il loro “desiderio” [meyl] di diventare “quell’immagine” [tavsir],  l’immagine di resistenza che gli abitanti della mia città avevano visto nei giorni precedenti. Qui di seguito vorrei esplorare proprio questo “desiderio”, per rispondere alla domanda: cosa rende quello che sta accadendo una rivoluzione femminista?

    Come ho scritto, queste proteste non sono incentrate sulla folla ma piuttosto sulla situazione, non sugli slogan ma piuttosto sulla figura-immagine. Per chiunque, e intendo veramente chiunque, è possibile creare da sé un’incredibile e radicale situazione di resistenza, in un modo che lascia senza parole.

    La fiducia in questo “possibile”, questa abilità, si è diffusa capillarmente. Chiunque sa che sta creando una situazione indimenticabile con le proprie figure di resistenza. Le persone, soprattutto le donne – queste tenaci e determinate cercatrici dei propri desideri – stanno inseguendo con forza questo nuovo desiderio, ed esso stesso, in una catena di desideri, fa sempre più da innesco alla creazione di altre figure e situazioni di resistenza: voglio essere quella donna nella figura di resistenza che ho visto nella foto, dunque creo una figura.

    Le figure erano già presenti nell’inconscio delle persone che protestavano prima ancora di metterle in pratica, come se fossero state messe a punto per anni. Questa figura di resistenza, questo corpo immortalato in immagini, diventa, in fondo alla catena di innesco dei desideri, un’incitazione al desiderio di altre donne di mettere in atto le proprie figure. Sapeste che desideri sono stati liberati in questi giorni dalla casa-prigione dei nostri corpi di noi donne!

    Vorrei contrapporre il vettore di forza che mobilitava la folla nelle proteste del 2009, per esempio, ai punti di innesco di adesso, punti di eccitazione molteplici e sparsi nelle strade. Come l’orgasmo femminile, questi punti non sono né concentrati né limitati a un punto preciso nella strada/corpo. Se voglio chiamare questa sollevazione una rivolta femminista, devo cercare qualcosa aldilà del punto di partenza delle proteste, lo slogan “Donna, Vita, Libertà”, e la chiamata iniziale a radunarsi da parte delle militanti femministe.

    Oltre a queste cose, ciò che ha esteso la sollevazione in una forma femminile e femminista e che sveglia i desideri delle donne nel mondo intero, sono i diversi punti di stimolo figurativo nei corpi in rivolta: figure che le persone che protestano desiderano visibilmente diventare, tanto che non è più possibile scendere in strada senza assumere la figura di uno di questi corpi disobbedienti, ribelli, resistenti, che si tratti di stare sul tetto di una macchina, salire in cima a un cassonetto, bruciare il velo, liberare una persona arrestata, o sfidare le forze della repressione.

    Le immagini di altre donne che resistono, viste da noi donne, ci hanno fornito una nuova comprensione dei nostri corpi.

    Credo che la singolarità di questa resistenza femminista e del suo carattere figurativo hanno fatto in modo che, fin dall’inizio, a diventare iconiche fossero le istantanee, le fotografie, molto più che i video. Sono state pubblicate in quantità massiccia fotografie che ci hanno rese orgogliose e che si sono rapidamente impresse nella nostra memoria collettiva, tanto che si potrebbe scrivere la cronologia di questa sollevazione attraverso le immagini pubblicate ogni giorno. Fotografie che alimentavano la sollevazione e la spingevano in avanti: la foto di Zhina [Mahsa] Amini sul letto d’ospedale. La foto della famiglia di Zhina che si abbraccia, in lutto, all’ospedale.

    L’immagine delle donne curde al cimitero di Aychi mentre sventolano i propri veli. Cosa vediamo di tutta quella scena: l’istante in cui i veli ondeggiano in aria, sospesi. La foto della lapide di Zhina. La figura della donna che porta la torcia su Boulevard Keshavarz. La figura della donna che sta in piedi da sola in mezzo alla strada, di fronte all’idrante sulla rotonda Vali Asr. La figura della donna seduta. La figura della donna in piedi. La figura della donna che tiene un cartello a Tabriz, faccia a faccia con le forze della repressione. La figura della donna che si lega i capelli. L’immagine del cerchio danzante intorno al fuoco a Bandar Abbas. E così via, moltissime altre.

    L’immagine delle donne curde al cimitero di Aychi

    Cosa conferisce a una fotografia questo incredibile potere stimolante rispetto a un video? Il tempo imprigionato nella foto. Il tempo imprigionato rende la foto densa, portatrice dell’intera storia durante cui quel corpo è stato soggiogato. La sollevazione delle donne in Iran è una rivolta incentrata sulle foto. Che cosa amplifica questo tratto femminista e non lo lascia sparire? Oltre al nome di Zhina, oltre a “Donna, Vita, Libertà”, con un livello di repressione talmente pesante che spesso è persino impossibile che si formi una folla, sono le figure della resistenza delle donne, che continuano a fare di questa sollevazione una rivolta femminista.

    Questo tempo condensato rende inadeguata una narrazione lineare della storia e mette in luce, al suo posto, la situazione nella sua topologia: i gesti, i momenti, le micro-battaglie che combattiamo ogni giorno. Per quel momento e tutti quei momenti. Non per una narrazione generale, ma per ogni piccola cosa.

    [2] Per quei micro-momenti fugaci, per riprenderseli, per quel nodo alla gola, per quella paura, per quell’eccitazione, per quella parola, per quell’istante che ancora continua, che si è trascinato fino ad oggi, nascosto sotto la notra pelle, sotto le nostre unghie, nei nostri nodi alla gola. Il passato prossimo: questo è il tempo delle fotografie. Fa crescere il desiderio, riporta alla luce il passato, lo estende fino a un secondo fa e nel momento presente, consegna la lunga sequenza di istanti al prossimo momento, alla prossima foto, alla prossima figura.

    In effetti, ciò che contraddistingue questa rivolta come femminista è il carattere immaginifico: la possibilità di creare immagini che non necessariamente catturano l’intensità del conflitto, la brutalità della repressione, o lo svolgersi degli eventi, ma piuttosto sono portatrici della storia dei corpi.

    Una pausa, un’interruzione. Guarda questo corpo, osserva per intero la sua storia. Qui. La figura della donna che porta la torcia, portatrice autosufficiente di storia senza bisogno di riferimenti agli istanti precedenti o successivi. La storia di questo corpo non è raccontata in una sequenza temporale lineare su un video volto a rappresentare la repressione o lo scontro o l’azione, ma piuttosto si cristallizza in un istante rivoluzionario. Soffermati sul momento in cui la donna solleva il velo mentre brucia e fa il segno della vittoria: il movimento degli occhi attraverso la larghezza dell’immagine, il bagliore dei fari dell’auto dietro di lei, le mani alzate, il volto sorridente dell’uomo che sta alla sua destra, gli alberi lungo la strada. Una figura, stop. Non servono il prima e il dopo, perché la figura non è creata dentro una sequenza temporale lineare ma in un respiro, in una pausa storica: un momento in cui il cuore della storia smette di pulsare per il tempo di un battito.

    Questi momenti e figure sono autosufficienti nel rappresentare la storia della repressione dei corpi delle donne. Ecco la caratteristica distintiva di questa rivolta. La rivolta femminista di corpi e figure. Il carattere femminista di queste proteste sta nell’aprire alla possibilità di creare queste immagini figurative.

    Queste immagini-icone influenzano a loro volta il desiderio di riempire lo spazio con immagini simili. Ho assistito coi miei occhi al dispiegamento di tale desiderio. Corpi che volevano essere una precisa figura hanno realizzato di avere la capacità di diventare quella figura.

    Corpi che dunque si esponevano al pericolo, si gettavano nella mischia, assumevano quella posa. Su un terreno in cui esistono poche occasioni di prendersi lo spazio, cercavano la possibilità di creare momenti di resistenza.

    Avevamo già visto immagini di donne resistenti: per esempio, foto delle Unità di Difesa delle Donne (YPJ) nel Kurdistan siriano. La differenza tra quelle foto e le figure delle donne nelle recenti proteste è la centralità del volto nelle prime, contrapposta all’assenza di volti nelle seconde. La particolarità delle prime con armi e tenuta da combattimento, rispetto all’universalità delle seconde che indossano abiti di tutti i giorni. I primi piani dei bei volti nelle vesti della resistenza (il desiderio di chi fotografa) hanno lasciato posto a immagini di figure di resistenza (il desiderio del soggetto). “Voglio che tu mi veda così”: immagini di capelli sciolti e scoperti e di pugni chiusi, di corpi sui cassonetti e sulle automobili.

    Queste figure richiamano Vida Movahhed e le altre “ragazze di via Enqelab”. [3] Vida sembra essere stata un punto di svolta nella rappresentazione della lotta delle donne iraniane contro il velo obbligatorio. Un punto di partenza, lontano dai video dei “Mercoledì bianchi” incentrati sui messaggi e sui volti – più che altro selfie di donne che camminavano per strada spiegando la situazione e i loro desideri. [4] Vida Movahhed è diventata la figura condensata di tutti i video che altre donne prima di lei avevano girato e diffuso camminando senza velo. Al contrario di queste donne, lei rimaneva in silenzio, immobile, punto di transizione tra il video e la fotografia. Una transizione dalla narrazione di una scena ordinaria alla creazione di una situazione storica, il passaggio da una persona che si esprime su di sé e sul proprio desiderio a un’immagine fissa, silenziosa, figura di resistenza. Qui, l’immagine della donna che protesta si è sottratta alla sequenza temporale del video, si è distaccata dalla rappresentazione di una scena ordinaria ed è atterrata su un palco carico di performatività storica: figura di tutte le donne prima di lei e ispirazione per le tutte le figure di donne dopo di lei.

    Vida Movahhed su via Enqelab

    In un ciclo senza fine, immagini e figure si trasformano l’una nell’altra: le immagini pubblicate e diffuse stimolano l’immaginazione dei corpi, poi le persone scendono in strada non con i corpi che sono, ma con i corpi che possono e vogliono essere. Con la propria immaginazione. Il loro atto rivoluzionario è incarnare questa immaginazione. In effetti in questo legame strettto tra immagine e strada, realtà e rappresentazione si orientano reciprocamente. Il sogno/rappresentazione/personificazione può imporsi sulla realtà, diventando quell’immagine e allo stesso tempo accendendo il desiderio di altri corpi di diventarci. È una catena di immagini, “corto circuito tra strada e spazio virtuale”.

    Accanto a queste figure individuali, ci sono anche state figure collettive. Il cerchio che brucia il velo. La danza intorno al fuoco che da Sari ha raggiunto le altre città. Vediamo la ripetizione di figure collettive senza che sia più possibile determinare il luogo preciso in cui sono avvenuti gli assembramenti. Nei primi giorni delle proteste, circolava un breve video di un piccolo assembramento di donne a Paveh. Uno sparuto e solitario gruppo di donne che camminavano dal fondo della strada. Questo gruppo, il cui assembrarsi appariva estremamente pericoloso, mi sembrava molto simile i raduni di donne in Afghanistan. Quella situazione storica lega insieme due immagini, due collettivi.

    Molte immagini non nascono perché non sono prese. Molte non “prendono” perché non danno origine a una protesta. Perché dunque certe immagini riescono a “prendere” anziché essere passivamente “prese”? Le figure hanno preso perché erano lo specchio storico delle donne. Credo che più che la considerazione iniziale “Avrei potuto essere io al posto di Zhina” [ovvero: sarei potuta morire anch’io in custodia della polizia morale], l’immagine della donna che brucia il velo sulla macchina ha acceso un intenso desiderio del tipo “voglio essere anch’io quella figura”, il desiderio di esprimere quella figura di speranza, ed è stata quella figura che non solo ha acceso il desiderio ma ha condotto i corpi delle donne a esprimersi e raschiare via la ruggine [zangar] dallo specchio che avevano davanti. Questo desiderio è stato stimolato da un’immagine, ma è in virtù della storia portata da quel corpo che è sbocciato trasformandosi in desiderio rivoluzionario. È tale desiderio figurativo che è distintivo di questa rivolta femminista, è l’esplosione di una storia repressa, come un corpo messo al mondo dopo una gravidanza che abbiamo vissuto per anni.

    Le figure di donne politicamente attive che conoscevamo in precedenza soffocavano l’attivazione del potere politico e la sua distribuzione, perché mettevano in risalto i volti e i nomi delle militanti. Volti e nomi smorzano il potere che ha una figura di accendere i desideri di altre donne perché rendono la situazione di quella figura particolare, speciale, rispetto alla situazione generale delle donne. Adesso, la figura si è liberata del limite del volto: è generica, senza volto, coperta da una maschera, anonimizzata per ragioni di sicurezza; è un’immagine scattata da dietro, senza nome, anonima; è il corpo politico della donna a circolare adesso per le strade.

    Dalla bellezza del corpo alla suggestione della figura. Dal corpo imprigionato nella bellezza al corpo liberato nella figura. Non si tratta di una trasformazione del sé in un corpo ideale, ma della creazione di una nuova figura di resistenza in ogni momento e in ogni corpo. Se il corpo è stato acceso e prende ispirazione dalle figure precedenti di cui ha visto le immagini nello spazio virtuale, esso crea una nuova figura e a sua volta ne ispira altre per il futuro, in una catena di stimoli e ispirazioni. Questa figura ha liberato le donne dalla prigionia, nel corpo e nella sua oppressione storica, e ha permesso al corpo di fiorire nel suo risveglio, scoprendo appena adesso la possibilità e la bellezza della propria resistenza. Maturando una seconda volta.

    Riguardo alla firma dell’articolo: una volta la persona che amo ha deciso di intitolare un progetto “L”, che volendo potrebbe riferirsi a me. Assorbita nell’esperienza di questo spazio rivoluzionario, così simile all’esperienza dell’amore, vorrei mettere da parte la mia costante esitazione rispetto a questo riferimento a “L” per, invece, appropriarmene insieme al gesto del mio compagno. La mia firma di questo testo come “L” è un’appropriazione rivoluzionaria del suo gesto. Ciò non solo mi protegge dalle minacce delle forze governative ma anche mi libera nella mia idea di amore, proprio nel momento in cui i nomi sono diventati simboli (riferimento al nome di Mahsa Amini e allo slogan, più volte ripetuto e difficile da tradurre, “Il tuo nome è diventato un simbolo”.

    Mahsa Amini, il tuo nome è diventato un simbolo

    Note

    [1] Questa frase è estratta da un passaggio che ho scritto al mio compagno dopo aver visto un video virale dell’apertura delle porte della prigione di Qasr e la liberazione dei prigionieri politici alcuni mesi prima della Rivoluzione del 1979. Questo scrissi il 2 agosto 2020:

    «Stanotte ho visto su internet il video della liberazione dei prigionieri politici. Visto e rivisto. Non potrei essere io a pettinare i capelli di quella donna scostandoli dalla fronte? Come si può provare gioia? È così sfuggente il momento in cui provi qualcosa come un’ispirazione profonda, pensi di essere felice, ma non appena torni alla realtà ti accorgi che sei una persona che era felice una volta mentre adesso l’incapacità di concepire quell’emozione passeggera rende tutto incomprensibile. C’era così tanta gioia in quel video. Che atmosfera… Non serve dire nulla. Basta scostare la frangia di capelli dalla fronte che hai davanti per riconoscerla e realizzare che lei lì, e sei tu a rivelare il suo volto.

    Sei tu?

    Sì, sono io.

    Un volto per tutte. Un volto liberato le cui emozioni non sono state represse che piange e ride. Piange mentre ride, in una sorta di attacco emotivo. Un volto che non è in grado di distinguere la gioia da una situazione trasformata. Il momento in cui tutto fluisce, l’istante della rivoluzione: non un momento prima o un momento dopo. La situazione sospesa, di divenire. Come si può riconoscere qualcuno nella folla in un momento di rivoluzione? Quando ogni organo del corpo supera la coscienza di sé e i modi di essere che aveva imparato. Scostando i capelli e cercando un ricordo lontano. Un neo nero accanto all’orecchio destro. Poi ti dici che dovresti accenderti una sigaretta e ti vedi lì, a fumare una sigaretta. Dici: dovrei cominciare ad andare, e vedi te stessa nella folla. Sei stata sempre lì».

    Nelle attuali circostanze rivoluzionarie, sto rendendo questa mia lettera personale proprietà comune Questa lettera non appartiene più solo al mio amante ma a tutti i corpi che ho visto e tanto amato per le strade.

    [2] #barayeh (parola che significa “per” nel senso di “a causa di”) si riferisce a un’iniziativa su Twitter che ha avuto successo: migliaia di persone hanno scritto ciò che le spingeva a scendere in piazza e sostenere le proteste.  “Per” gli studenti a cui è stato negato il diritto di studiare. “Per” gli intellettuali uccisi. “Per” la felicità negata alla generazione della guerra. “Per” gli operai della fabbrica di Haft Tappeh. E così via, a migliaia. Il giovane artista Shervin Hajipour ne ha ricavato una canzone, dal titolo “Barayeh”, il cui testo consiste di una sequenza di queste frasi pubblicate su Twitter, e che si è diffusa a macchia d’olio diventando uno degli inni della rivolta. Le autorità hanno arrestato Shervin subito dopo la pubblicazione della canzone.

    [3] Vida Movahhed è una donna il cui gesto silenzioso contro il velo obbligatorio ha ispirato un’ondata di azioni simili poi conosciuta come “Ragazze di via Enqelab”. Alla fine di dicembre 2017, Movahhed si è arrampicata su un quadro elettrico all’incrocio di via Enqelab, ha legato il proprio velo a un bastone e l’ha lasciato per aria. Arrestata e condannata a un anno di prigione, è praticamente scomparsa dalle cronache ma la sua figura con il velo in cima al bastone è diventata un’icona visiva della disobbedienza civile delle donne.

    [4] I “Mercoledì bianchi” sono stati una campagna online lanciata nel 2017 da Masih Alinejad, in cui le donne registravano video nell’atto di togliersi il velo in luoghi pubblici in Iran e li mandavano a Alinejad che poi li pubblicava.

  • Il divieto di un costume

    Agosto. I raggi del sole picchiano sulla folla e spaccano le pietre. Sotto gli ombrelloni, genitori parzialmente denudati chiamano i bambini per accordar loro panini e frutta, come premio per l’incessante impegno nei giochi in acqua e nei castelli di sabbia. Qualcuno prova a leggere un libro, sdraiato in posizione innaturale su un telo dai colori vivaci, ma si gira e si rigira senza riuscire ad accomodarsi sulle irregolarità della sabbia. Qualcuno lo legge davvero, piegato sulle pagine e seduto su una seggiola, alcuni vestiti di tutto punto altri praticamente nudi senza curarsi troppo degli sguardi indiscreti. Un vecchio tutto curvo ha l’aria di essere sceso in spiaggia solo per fare un piacere a qualcuno di esigente e premuroso, e porta con scomodità e leggero imbarazzo un cappellino con la visiera, pantaloncini corti e una camicia consunta e irrigidita dall’aria salata. Una signora si protegge dalla radiazione di mezzogiorno cospargendosi abbondantemente di crema solare su tutto il corpo. Molte donne hanno il seno scoperto, a garanzia di un’abbronzatura uniforme, per fastidio nei confronti di quell’odioso tessuto sintetico di cui sono fatti i reggiseni, per stenderlo e asciugarlo dopo aver fatto il bagno, per altri motivi che di certo esistono ma nessuno si sente ancora in dovere d’indagare. Una ragazza, scesa in spiaggia per abbronzarsi senza compagnia, è intenta ad allacciarsi da sola il pezzo di sopra del costume, con le braccia alzate e le mani dietri la nuca in quel gesto che si fa quando si indossa una collana.

    Nessuno li aveva visti, ma nel quadretto marittimo stridono con prepotenza tre poliziotti, subito riconoscibili dalla divisa scura con pantaloni lunghi e spessi, una maglia a mezze maniche e cinture, fondina, stivali in cuoio che i bagnanti notano chiedendosi come si fa a lavorare con questo caldo. I tre si avvicinano alla ragazza che si allaccia il costume.

    «Buongiorno» si fa avanti il primo poliziotto con tono affabile ma l’aria di chi potrebbe smettere di esserlo da un momento all’altro «lei è appena arrivata, sì?»

    La ragazza, sospendendo l’operazione con le braccia a mezz’aria e lasciando il costume troppo allentato per i suoi gusti, inarca per un istante le sopracciglia prima di rispondere con un timido sorriso.

    «Sì, perché?»

    «Quindi questo costume se lo sta togliendo, sì?»

    La ragazza, le braccia ancora sollevate e col dubbio se completare il nodo o meno, decide infine di aver già passato troppo tempo in quella posizione scomoda e di rinviare. Cerca con lo sguardo un segno che le assicuri che la domanda le sia stata rivolta seriamente.

    «Veramente no» risponde con imbarazzo.

    «E allora le dovrò fare una multa» dice mentre il collega comincia a rovistare in una tasca della divisa.

    «Come sarebbe? Per quale motivo?»

    «Perché… abbigliamento non conforme ai valori morali» e poi, come per impegnare il tempo finché il collega non abbia staccato la multa dal libretto, domanda «Lei è credente?»

    «Io…» risponde lei confusa «non capisco perché me lo chiede»

    «Sa, coi credenti capita più spesso, ma vede… non è quello il problema. Coprire il corpo può offendere le convinzioni degli altri bagnanti»

    «Ma io non ho offeso nessuno!» protesta la ragazza

    «Guardi, io faccio il mio lavoro, non l’ho deciso io ma mi tocca farle una multa per abbigliamento poco rispettoso della laicità»

    «Non ho offeso nessuno» si ostina la ragazza, mentre un capannello di curiosi prende forma intorno alla sua stuoietta da mare.

    «Allora, glielo spiego meglio» interviene il terzo poliziotto in soccorso della poco efficace ripetitività del primo collega. «Siamo nel 2016, signorina. Il Sessantotto, che a lei piaccia o meno, ce l’abbiamo avuto come abbiamo avuto la liberazione dei costumi. Non c’è nulla di male a scoprire il seno, si guardi intorno, lo vede quanta gente c’è che lo fa? Non c’è niente di male, siamo d’accordo che è una parte del corpo come un’altra, mi segue?»

    «Non ho nulla in contrario, io» sbotta la ragazza «vogliono stare in topless? E io che c’entro?»

    «Sei una bigotta, ecco cosa sei!» comincia a urlare uno dei curiosi, mentre la folla converge e spinge sempre più stretta.

    «Non sono una bigotta» risponde lei, sempre più sulla difensiva «non mi interessa cosa fanno le altre, perché dovrei scoprirmi? Solo perché ci sono altre che lo fanno?»

    «Vede» continua il poliziotto paziente esegeta della rivoluzione sessuale «è una questione di laicità. Glielo chiedo io, lei è credente?»

    «Sì, ma che c’entra questo? Io non voglio scoprire il seno»

    «Allora lo vede anche lei che è un problema di laicità? Lei è credente, lei non vuole scoprire il seno. Ma cosa vuole che sia? Lo sa quante donne hanno lottato per questa libertà? E lei la rifiuta così?»

    «Ingrata! Bigotta! Arretrata!» inveisce la folla, che ormai non avanza ancora solo perché trattenuta dagli sforzi degli agenti.

    «Andiamo» continua affabile il poliziotto, ignorando le urla dietro di sé, poi sospira prima di aggiungere: «si scopra»

    «No» la ragazza è sull’orlo del pianto, umiliata davanti a tutta quella gente. Cosa vogliono?

    «Stiamo parlando di libertà, capisce? Noi adesso rappresentiamo lo Stato, e lo Stato non può chiudere un occhio di fronte alla negazione della libertà delle donne come lei»

    «Che libertà?» nella ragazza è ormai inibito per la vergogna anche l’uso della parola, ridotto al minimo indispensabile.

    «Quella di scoprire il corpo, ovvio. Il suo senso del pudore è un’imposizione, coprire il corpo della donna è un segno di oppressione e sottomissione, lei capisce che noi questo non possiamo tollerarlo.»

    «Decido io» sibila la ragazza, con un filo di voce.

    «Vede, gliel’ho già detto. Lei crede di scegliere, ma non è così. Lei è condizionata, altrimenti capirebbe benissimo che non c’è nulla di male nel mostrare un seno, una natica…» e così dicendo, il poliziotto fa cenno agli altri due di slacciare quel nodo che la ragazza aveva lasciato allentato all’inizio della discussione. La folla applaude, alcuni esultano per l’emancipazione e la rinnovata libertà delle donne.

    «Ha visto?» fa il primo poliziotto «Ora sì che ha deciso lei». E, soddisfatto, sospira stanco.

  • Specchi di genere

    Pensavamo che la chiave della salvezza sarebbe stata la riforma di Mtv, Cnn e Calvin Klein.
    Naomi Klein, No logo

    Recentemente, in una discussione sull’importanza e l’attualità della componente femminista nei movimenti sociali, un mio amico ha sostenuto che per risolvere i problemi attinenti alla questione di genere sarebbe sufficiente il controllo dei mezzi di comunicazione di massa, televisione in primis, per sostituire l’immagine della donna da essi attualmente veicolata con una rappresentazione più paritaria, egualitaria e dignitosa, nel rispetto delle diversità e dei diritti.

    La convinzione che questa sia una soluzione al problema nasconde una concezione, a mio avviso, distorta del problema stesso. Pensare infatti che la parità dei sessi passi principalmente per la parità di rappresentazione di questi ultimi è illusorio, perché la rappresentazione della realtà non precede la realtà stessa. A scanso di equivoci con eventuali appassionati di filosofia che magari stanno leggendo, occorre precisare che questa affermazione non intende lanciare un dibattito sulla validità del materialismo, bensì dire che il modo in cui i generi sono rappresentati in televisione, in politica, nella società, non è che uno specchio della realtà. In altre parole, cercare di risolvere le questioni di genere ritoccando le immagini trasmesse in televisione sarebbe come cercare di cambiare aspetto pettinando, piuttosto che i capelli, la loro immagine riflessa allo specchio.

    Molte battaglie di movimento, non solo in ambito di genere, né solo nel meno ristretto ambito di identità (omosessuali, minoranze etniche e “razziali”), cadono nell’errore di puntare tutto sulla rappresentazione, e rivendicano variamente dei cambiamenti di immagine: per esempio, verso la fine degli anni Ottanta, il movimento studentesco statunitense e canadese abbandonarono rivendicazioni quali l’equità salariale tra i due sessi e il diritto al matrimonio tra omosessuali per abbracciare lotte per una maggiore presenza femminile nelle bibliografie universitarie e una maggiore visibilità dei gay in televisione. Secondo Naomi Klein, «da sempre si era dato per scontato che il principale handicap delle donne e delle minoranze etniche fosse l’assenza di modelli visibili in posizioni sociali di potere; inoltre, gli stereotipi propugnati dai media e radicati nella struttura stessa del linguaggio, avevano la funzione di rafforzare ulteriormente la supremazia del “maschio bianco”». Questa visione non è intrinsecamente errata, ma la funzione che tale visione assume può diventare deleteria per i movimenti nel momento in cui, in assenza di strategie chiare più ampie e, per dirla con Žižek, onnicomprensive, diventa lo strumento di lotta preponderante, riconducendo così quasi tutti i problemi sociali al ruolo sostenuto dai mezzi di comunicazione e di formazione che perpetuano stereotipi negativi o semplicemente tacciono su certe tematiche.

    Quando questo succede, le critiche sono rivolte principalmente alla rappresentazione, per esempio, delle donne all’interno delle strutture del potere e non più all’economia che sorregge quelle strutture; e «la prospettiva di cambiare qualche pronome e accogliere qualche donna e qualche membro delle minoranze in TV e nei consigli di amministrazione non mette realmente in discussione i principi di accumulazione del profitto» osannati a Wall Street.

    Questa tendenza è diventata sempre più importante con il processo di mediaticizzazione della politica, evidentissimo in Italia: sulla stessa linea si possono collocare i vari “movimenti” del panorama peninsulare che richiedono a gran voce «visibilità», convinti che l’obiettivo di una manifestazione sia ottenere le prime pagine e “farsi vedere”, o che la questione di genere si possa risolvere con la buffonata delle “quote rosa” (che in realtà sono un chiaro esempio di femmaschilismo). Quanto ci si metterà a capire che il problema non è spartirsi le fette della torta ma il fatto che le fette a disposizione sono sempre più piccole e il resto della torta finisce gradualmente nelle mani di sempre più pochi?

    Detto questo, devo ammettere che è abbastanza fastidioso imbattersi in schermate del genere (su http://www.peragendamonti.it/):

    agendamonti
    Secondo l’agenda Monti, la rappresentazione del ruolo della donna deve cambiare. Dall’immagine non sembra proprio.

  • Femmaschilismo

    Ho trovato, non importa dove né scritta da chi, la seguente affermazione: «non capiamo come un maschio possa dirsi femminista».

    Tale convinzione rivela una strana visione delle disuguaglianze e dell’oppressione di genere: una visione che non ambisce a scardinare la logica sessista, la sua retorica e i suoi contenuti, ma per cui le disuguaglianze sono anzi destinate a perpetuarsi. Me l’ha insegnato proprio il femminismo che la pratica del capovolgimento dei tradizionali rapporti sociali inizia nella nostra mente, nel personale modo che ciascuno adotta affrontando le situazioni che vive, nella nostra percezione delle cose che accadono, nel linguaggio usato per descriverle e comunicarle.

    Ora, un’affermazione del genere pare proprio in difetto di questo capovolgimento, in quanto si basa sull’assunzione che l’opinione politica di un individuo non possa prescindere dal sesso biologico o dal genere inteso come ruolo sociale.

    Eppure, il femminismo mi ha insegnato anche che quello di “femminismo” è un concetto parallelo se non coincidente con quello di “antisessimo”. Citando Wikipedia (sì, un movimento o una corrente di pensiero è difficile da riassumere in una definizione, soprattutto se lo sviluppo storico è diversificato, adattabile a vari contesti, plastico tanto da parlare di “femminismi” al plurale, ma mi si risparmino questa critica e questi discorsi e si accetti che “in linea di massima più o meno quasi ci siamo e non è poi malaccio”) il femminismo è definibile in tre modi. Non c’è motivo ragionevole per cui ad un essere umano di sesso maschile dovrebbe essere politicamente precluso o tecnicamente impossibile un percorso di maturazione delle opinioni e di costruzione di lotte che ricadono in una di queste tre macro-definizioni. In particolare, commentando singolarmente ciascuna:

    La posizione di chi sostiene la parità politica, sociale ed economica tra i sessi, ritenendo che le donne siano state e siano tuttora, in varie misure, discriminate rispetto agli uomini e ad essi subordinate

    Perché un uomo non può sostenere programmi di emancipazione femminile ed essere fermamente convinto della necessità di raggiungere l’uguaglianza in diritti e di garantire la sua realizzazione? Inoltre, perché dovrebbe essergli impossibile riconoscere che il genere femminile sia stato, in passato e oggi, colpito da una particolare forma discriminazione basata sul sesso, direttamente o indirettamente? Si potrebbe obiettare che l’uomo è stato storicamente la figura oppressiva del genere femminile, quella che ha costruito società maschiliste e che è dunque nel suo interesse garantire la trasmissione delle credenze connesse a queste ultime e dei rapporti sociali che le esprimono. In quest’ottica, un maschio femminista può apparire poco credibile, ipocrita e imbonitore, come un funzionario del sistema borghese che, avvicinandosi in giacca e cravatta e tendendo la mano con un grosso sorriso dipinto sul volto, dichiari con affabilità di essere convintamente anticapitalista. La differenza, tuttavia, risiede nel fatto che il rifiuto del capitalismo può assumere molte forme, anche diverse tra loro e totalmente opposte, così che l’anticapitalismo di per sé non implica niente, nella misura in cui è pars destruens ma non ancora pars construens; il rifiuto della disuguaglianza, al contrario, implica l’uguaglianza.

    La convinzione che il sesso biologico non dovrebbe essere un fattore predeterminante che modella l’identità sociale o i diritti sociopolitici o economici della persona

    Ancora: perché un uomo non può pensarla così? Solo in virtù del proprio sesso? Dire questo significherebbe affermare che gli uomini, letteralmente, «ragionano con il cazzo», nel senso che le loro opinioni derivano dal sesso biologico; il che non farebbe altro che ravvivare stereotipi sessisti in linea con la discriminazione di genere (la violenza di genere non è necessariamente maschile, ma piuttosto maschilista. E non è la stessa cosa: si veda qui).

    Il movimento politico, culturale e sociale, nato storicamente durante l’800, che ha rivendicato e rivendica pari diritti e dignità tra donne e uomini e che – in vari modi – si interessa alla comprensione delle dinamiche di oppressione di genere

    In più rispetto ai due punti precedenti, c’è l’interesse per la comprensione delle dinamiche sociali e dei meccanismi che caratterizzano l’oppressione di genere. Di nuovo, perché questo interesse non può essere vivo in un individuo di sesso maschile? La storia del movimento femminista fornisce anche esempi di intellettuali, scrittori, studiosi, teorici e pratici che hanno aderito alla lotta femminista e l’hanno arricchita di strumenti e contenuti. Erano in mala fede, oppure forse infiltrati del patriarcato?

    Insomma, non capire come un uomo possa definirsi femminista significa aderire ad una visione secondo cui le idee di ciascuno dipendono da ciò che una persona ha tra le gambe. Aspetto che qualcuno mi spieghi in che modo il fatto di avere un pene e due testicoli anziché due paia di labbra e una clitoride debba comportare la mia impossibilità di essere sinceramente antisessista.

     

  • Pseudofemminismo dell’otto marzo

    Oggi è la Giornata Internazionale della Donna, meglio conosciuta come Festa della Donna.

    Ed è dunque per restare in tema che vi propongo alcune mie considerazioni su recenti dichiarazioni; se, come al solito, vi aspettate che parli del famigerato puttaniere fascista, vi starete sbagliando ancora una volta. Infatti, voglio parlare di una dichiarazione di ieri rilasciata da Umberto Veronesi, l’oncologo complottista a favore del nucleare e degli inceneritori come fonti di energia.

    Secondo Veronesi, «è inevitabile che le donne prenderanno in mano tutti gli affari del mondo nei prossimi 20-30 anni, ma gli uomini devono ancora capirlo». Da cosa è motivata questa insolita dichiarazione? La risposta risiede in una sfilza di luoghi comuni e dati alla rinfusa: hanno «potenza, equilibrio e fantasia»; sono «più istruite degli uomini», considerando che «le laureate sono più dei laureati»; vantano «un sistema immunitario migliore, si lamentano meno» e, soprattutto, la loro missione è scritta nel DNA: «difendere la pace e garantire la prosecuzione della specie»; per questo «il loro destino è dominare il pianeta».

    Insomma, tutto questo ha un’aria da best-seller fantascientifico. Sarebbe interessante capire come, partendo da questi dati, si possa giungere ad affermare, anzi ad annunciare, che entro due decenni le donne controlleranno l’economia, la politica o comunque qualcosa del mondo. Perdipiù parlandone in questi termini, come se “le donne” fossero una specie di setta o di loggia massonica.

    Il significato di queste frasi è da inquadrare nel contesto della giornata odierna: alla vigilia dell’8 marzo, si sottolinea ancora una volta la straordinaria potenza del gentil sesso. Infatti, puntualmente, a conferma la FAO presenta un rapporto dal messaggio inequivocabile: «una maggiore eguaglianza di opportunità e mezzi per donne contadine di tutto il mondo potrebbe essere l’arma cruciale per vincere la lotta alla fame» commenta Jacques Diouf, Direttore Generale.

    Dal rapporto emerge che se le donne delle zone rurali avessero le stesse opportunità degli uomini in termini di accesso alla terra, alla tecnologia, ai servizi finanziari, alla scolarizzazione ed ai mercati, la produzione agricola potrebbe aumentare ed il numero delle persone che soffrono la fame potrebbe ridursi di 100-150 milioni.

    Per chiunque sappia interpretare un rapporto statistico, sarà chiaro che è sbagliato sbandierare sui giornali elogi delle donne coltivatrici come se l’eventuale aumento di produzione fosse dovuto al sesso di chi coltiva piuttosto che «all’accesso alla terra, alla tecnologia, ai servizi finanziari, alla scolarizzazione ed ai mercati», com’è scritto proprio sul rapporto.

    Praticamente, invece, si è preferito costruire lo scoop, il sensazionale, lo spettacolare, con dichiarazioni che forzatamente usano i dati come mezzo per dare un po’ di speranza alle donne oggi maltrattate e sfruttate e un po’ di sollievo a chi le maltratta e le sfrutta, che potrà continuare a comportarsi come ha sempre fatto, dopo aver dato un contentino al popolino incredulo il giorno dell’8 marzo, un giorno che non dovrebbe avere nulla di diverso da qualsiasi altro giorno del calendario.

    Rendiamo onore, piuttosto, ad una donna particolare, che contro questo modo di pensare, ingannevole e dannoso, combatté per tutta la vita e che per questo fu uccisa, proprio giorno 8 marzo dell’anno 415: Ipazia d’Alessandria, martire della ragione.

    Andate in pace, e che tutti i giorni siano della Donna e dell’Uomo.