Tag: economia

  • Le vacanze

    Avevo in mente di scrivere su due argomenti, uno sulla scia dell’analisi di Marcuse sullo spostamento della produzione verso il Sud del mondo, l’altro sulle differenze tra Facebook e Twitter e le conseguenze che esse comportano. Tuttavia, capirete che l’impellenza del momento non mi permette di sorvolare un terzo argomento, che nell’immediato è di gran lunga più notevole, ovvero: i parlamenti quest’anno non vanno in vacanza.

    Il tre agosto Berlusconi è stato chiamato in aula (non quella, quell’altra «sorda e grigia») per rispondere di ciò che sta facendo il Governo per evitare il tracollo di Piazza Affari, che potrebbe avvenire da un momento all’altro. Ovviamente, parlando dall’alto delle sue funzioni di presidente del consiglio italiano, ha invitato tutti ad acquistare le azioni delle sue aziende. Da non credere. Poi il parlamento ha deciso di sospendere le vacanze che erano previste per tutto il mese di agosto, così da poter trovare in fretta e furia una soluzione alla caduta libera della borsa.

    A Tottenham, un quartiere di Londra, il 4 agosto Mark Duggan, pregiudicato, è inseguito dalla polizia e durante l’inseguimento viene colpito alla testa da un proiettile sparato dalle forze dell’ordine. Il giorno sucessivo, un presidio pacifico organizzato dai familiari della vittima degenera in violenza come da decenni non se ne vedevano in Regno Unito. Dopodiché è tutto un susseguirsi di eventi intrecciati e autocatalitici, e l’Inghilterra è in fiamme. David Cameron ha richiamato il parlamento dalle vacanze per risolvere la crisi dell’ordine pubblico, dopo aver tagliato soldi alla polizia e allo stato sociale, dicendo: «nella nostra società c’è qualcosa che non va». Ma va, come ha fatto ad accorgersene? Be’, direte voi, almeno, al contrario di quella puttana della Thatcher, ha ammesso che la società esiste.

    Ieri, Francoforte era a -7 punti percentuali; un dato mostruoso, considerando che tutti vedono nella Germania la salvezza dell’Europa e della moneta unica.

    Niente vacanze quest’anno, per le sanguisughe, no holidays thisnyear for leeches! Ma forse è questo il futuro che ci aspetta: le città in fiamme e le borse a farsi fottere.

    Viva la decrescita!

  • La fine delle ideologie

    Ogni tanto, quando qualcuno dice qualcosa che finalmente abbia un senso, lo si taccia di ideologia, che nel linguaggio dei giornali, dei parlamenti e dei salotti è una parolaccia, pari a demagogia. L’ideologia è, per costoro, la maggiore causa del «rifiuto di ogni idea di innovazione» (vedi per esempio in Val di Susa), il capriccio di chi non vuole la crescita economica, di chi ha la testa nel mondo delle nuvole o dei sogni e non riesce ad approcciarsi alla realtà in con realismo politico, senza mitizzazioni. Per inciso, mi sfugge, allora, il perchè non dovrebbero puntare il dito anche contro Mazzini accusandolo di aver fatto dell’ideologia, ma questa è un’altra storia di cui ho già scritto di recente.

    Il messaggio che passa sugli schermi da quando il muro è caduto è che l’ideologia fa male, è per le persone con una mente chiusa, che sono incapaci di accettare qualsiasi cosa che cozzi con essa e i suoi dogmi. E questo nulla ideologico, questo vuoto di idee è proprio ciò che di più utile esiste per garantire un sano trasformismo. Per esempio, ma se n’è già parlato fin troppo, in Italia non c’è nessuna contrapposizione ideologica tra i partiti, anzi tra quelli che ancora conservano a parole una posizione ne emergono altri scandalosamente trasformisti e privi di qualunque programma e collocazione; in Spagna il PSOE attua «contro la crisi» le stesse misure che attuerebbe qualunque altro partito del parlamento spagnolo, compreso il Partito Popolare suo acerrimo avversario elettorale; in Grecia un socialista taglia il welfare nell’applicazione pratica di quella shock economy di cui scrive Naomi Klein; torniamo in Italia e tanto il Pd quanto il Pdl traboccano di imprenditori che da quando sono stati eletti (ma che dico, nominati!) hanno visto aumentare vertiginosamente il proprio reddito dichiarato. Se la caduta delle ideologie significa questo, allora converrebbe tornare sui propri passi e riabbracciare un po’ di sana ideologia.

    Ma converrebbe tornare sui propri passi in ogni caso, perchè quella che chiamano fine delle ideologie è in realtà l’inizio dell’Ideologia. Se gli ex-comunisti sono azionisti della Goldman Sachs e sostengono le guerre imperialiste in Libia e Afghanistan, forti del supporto mediatico di un cartello di testate che hanno spostato l’opinione pubblica a favore dell’intervento; se nessun governo italiano, di alcun colore, ha avuto la volontà di varare delle norme sul conflitto di interessi; se tutti in Occidente parlano ormai di crescita economica come se fosse la cosa più naturale del mondo; se Marchionne può fare il cazzo che gli pare, questo lo dobbiamo non alla fine delle ideologie ma all’affermazione totale e capillare del neoliberismo. Bene, vorrei informare chi crede alla favoletta della mano invisibile che il liberismo è un’ideologia, con le sue mitizzazioni e le sue idealizzazioni, come quella del self-made man, della crescita e delle missioni di pace, e con i suoi martiri, i suoi ideologi, i suoi eroi e le sue vittime.

    Quindi, quando in mezzo a questa bolgia di automi indemoniati e ipnotizzati qualcuno dirà qualcosa che abbia un minimo di senso, non fate come i giornali, i parlamentari e quelli dei salotti, non additatelo né accusatelo di essere «ideologizzato», ma rispondete citando Hemingway: «non possiamo raggiungere le stelle ma ci servono per tracciare la rotta». E ricordate, poi, che le stelle a volte sono state raggiunte.

  • Contro l’Ancien Régime

    Alla fine ho dato forma al mio motto. Non so in verità se avrei preferito evitare di ingabbiarmi lasciandomi andare a presentazione di me e del blog che, si sa, spesso lasciano il tempo che trovano, perchè una persona, un carattere, una mente, una vita, un pensiero, non si possono giudicare in qualche riga e assolutamente non si possono riassumere.

    Comunque, Contro l’Ancien Régime è una pagina ancora incompleta. È stata scritta stanotte per effetto di un raptus espressivo che minava seriamente alla base la mia concentrazione per affrontare lo studio. Come molti noteranno, non è ancora una pagina di presentazione del blog né di me stesso. Ma datemi un po’ di tempo.


    I borghesi hanno fatto la Rivoluzione Francese ma sembrano avere dimenticato che ciò che ha fatto della Francia une Grande Nation è stato il trinomio «Liberté, Égalité, Fraternité». Appena ne hanno avuto la possibilità, hanno abbandonato il cappello frigio dei sanculotti giacobini per sostituirlo con un ben più sontuoso cilindro di feltro nero da abbinare al panciotto e a dorati gemelli da camicia. Hanno inventato il mito del realizzarsi, si sono industriati come mai prima nella storia moderna per il progresso e la crescita economica in nome di una storiella, molto in voga all’epoca, che parlava di una mano invisibile. Hanno armato migliaia di uomini per reprimere le azioni e soffocare le voci di chi alla storiella non credeva o non poteva crederci, di fronte all’evidenza lampante della sua fallacità; hanno mandato quegli uomini con fucili e manganelli contro le folle affamate esattamente come poco tempo prima i Re e i Principi ne avevano mandati contro di loro; poi li hanno mandati in terre lontane, a imporre con la forza la nuova religione del dio denaro a popoli increduli e indifesi; alla fine non era più rimasto niente e li hanno mandati ad ammazzarsi tra di loro, come carne da macello. Non contenti di questo, hanno cominciato a monetizzare oggetti e concetti di ogni tipo, anche i più impensabili: dall’aria all’acqua, dalle parole alla musica, dalla scienza alla conoscenza, dalla vita alla morte, dall’immaginazione alla coscienza; e una volta monetizzati, comprarli è stato per loro facile come rubare le caramelle a un bambino.

    Non è molto diverso dall’Ancien Régime. Quale Liberté, quale libertà di scelta consapevole posso vantare di avere se quando compro qualcosa non c’è alcuna trasparenza tra il marchio e il consumatore? Se quando voto democraticamente indicando qualcuno le decisioni le prende qualcun altro? Se non posso scegliere che lavoro fare per contribuire allo sviluppo civile e alla vita collettiva? Se non c’è reale partecipazione in scelte decisionali i cui effetti ricadono sulla testa di tutti? Che libertà ho, di fare cosa? Libertà di religione? È uno strumento di controllo sociale e limita la libertà nella misura in cui si basa su dogmi. Libertà di parola? Gli sgherri manzoniani sono pronti in ogni momento a manganellare o a censurarti se ti lasci sfuggire verità scomode. Libertà di scegliere che lavoro fare? Appartengo ad una generazione precaria sul piano lavorativo e sul piano esistenziale. Libertà di pensiero? «Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate», diceva una canzone, «e in cambio pretendete» la libertà di indossare vestiti firmati, di avere l’ultimo modello del cellulare, di aggiornare il vostro profilo di Facebook, di seguire i reality show, di accendere la televisione per contare, sorridendo beffardi dentro di voi, quante disgrazie sono capitate oggi ad altri.

    Dov’è l’Égalité quando l’economia è controllata da un’oligarchia dispotica e strutturata nel modo più vicino al totalitarismo che l’Occidente abbia saputo produrre dopo i Fascismi del Novecento? Quando la ricchezza è distribuita con un’asimmetria impressionante, per cui un decimo della popolazione sfrutta nove decimi delle risorse, mentre i restanti nove decimi della popolazione sono costretti a patire la fame, la sete, la miseria, le malattie nonostante che l’esistente sarebbe sufficiente per tutti? Dov’è la ragionevolezza dei padri illuministi della Rivoluzione, in tutto questo?

    Che Fraternité posso dire di vedere in un mondo in cui si riesce a giudicare una persona, pur fatta di una sua individualità, basandosi sul colore della sua pelle o sulla forma dei suoi occhi, annullando così completamente ogni possibile forma di comunicazione e comprensione? Dov’è la fratellanza tra i popoli quando si sganciano bombe su civili inermi, e tra le persone quando alcune vengono rinchiuse per anni in lager di detenzione per scontare la pena per il reato di essere clandestini? E dov’è ancora quando, una volta usciti dai lager, li si infila in un bastimento come capi di bestiame per riportarli nell’inferno da cui provenivano? E, nell’eventualità che riuscissero a evitare questa triste sorte, dov’è la fratellanza e l’umanità quando, restando, non trovano che insulti e discriminazioni?

    Non ci sono dubbi, questo è ancora l’Ancien Régime.

  • Sardigna pesa, ischìda Sardigna

    Cosa esattamente nella testimonianza trasmessa da Annozero il 5 maggio lasci turbati non è facile da dire, perchè sono tante cose insieme.

    Prima di tutto essa stona con il contesto in cui viene a trovarsi: da una programmazione televisiva asservita al potere, che censura preventivamente ogni possibile riferimento al referendum popolare del prossimo 12-13 giugno, che distoglie gli italiani dai problemi del paese dirottando i loro interessi su pettegolezzi e modelli comportamentali che minano alla base le conquiste di millenni di civiltà come il dialogo e il predominio della ragione sugli istinti, che nasconde la natura della crisi e le sue conseguenze o, nei rari casi in cui non può permettersi di farlo, la minimizza e ne parla come di acqua passata, è difficile aspettarsi di ricevere informazioni che non siano di qualità minore di quegli articoli delle riviste che generalmente le persone tengono accanto al cesso.

    Eppure, la sera del 5 maggio la diretta è riuscita a evadere i giochetti della censura, che ha avuto una falla dalla quale si è riversato impetuosamente in studio un mondo diverso da quello dipinto dai telegiornali di partito, dai talk show, dai reality: era un mondo, quello reale, che si esprimeva senza filtri, senza copioni, senza cerone e altri trucchi  e senza mediazione tra la telecamera e la realtà. Insomma un mondo genuino, che appare così come è.

    Ed è sfruttato, dilaniato, oppresso, disperato e non ha paura di dire davanti a tutti, a volto scoperto, che «l’Africa è vicina» non solo geograficamente. Nel Sulcis è successo quello che potrebbe succedere ovunque sia portato ad estreme conseguenze il predominio dell’economico sul sociale, del finanziario sul politico. L’unico modo possibile di difesa che hanno trovato gli abitanti del Sulcis (120 mila abitanti, 30 mila disoccupati) è la condivisione delle rivendicazioni: artigiani, commercianti, operai, pastori, tutti padri e madri di famiglia che ogni mese devono «decidere se fare la spesa, pagare le tasse o licenziare dipendenti».

    In risposta a una politica cieca di fronte al disastro sociale, i comitati cittadini del Sulcis hanno organizzato una grande manifestazione regionale per giorno 12 maggio, che si terrà a Cagliari fin sotto gli edifici della Regione.

    E i giornali nazionali e l’informazione tutta… come hanno reagito di fronte alle ripetute esternazioni di rabbia del popolo? Ovviamente dando il minimo rilievo possibile alla notizia e, se possibile, ignorandola completamente: nessun telegiornale ne parla, tra i giornali nazionali solo L’Unità tratta della vicenda, limitandosi a scrivere che la Sardegna è come un laboratorio e che «in passato ha spesso anticipato tendenze politiche nazionali», mentre la rivoluzionaria La Repubblica vede bene di non farne assolutamente cenno (perchè certo non si sputa nel piatto in cui si mangia).

    Questo perchè la condivisione delle lotte al fine di rivendicare diritti dà comprensibilmente fastidio a tutti, in quanto questa volta la condivisione non parte dalla tanto balbettata esigenza di un “rinnovamento morale” né della trita riscoperta del senso di appartenenza all’identità nazionale ultimamente sbandierato a destra e a manca, bensì dal bisogno di soddisfare necessità materiali e di primaria importanza.

    Per questo il Movimento che si sta autorganizzando in Sardegna dovrebbe far paura a chi vive nel mondo dei sogni e dei paradisi fiscali; per questo lo si censura e si evita di fornire notizie sulla questione; per questo non ci viene detto dagli organi di informazione della grande protesta sarda che sta montando nell’isola e che per ora ha una data di riferimento: il 12 maggio.

    Sarebbe bene che gli studenti sardi si unissero alla protesta, portando al compimento il tentativo di unificare le lotte. E voglio anche un giuramento della pallacorda, un’Assemblea Costituente, una comune e dei comitati.

    FORZA PARIS! TUTTI INSIEME!

  • Sull’egemonia culturale

    Ecco quella che potrebbe essere la domanda di inizio di un saggio, anche interessante, ma che invece voglio destinare ad un’altra funzione: quella del dibattito e della riflessione. Sono sempre più convinto (e sempre più socialista..) che il marxismo sia un’ottimo strumento di analisi sociopolitica e sociologica in genere, ovviamente soprattutto nell’ambito economico, e non tanto per i suoi fini, la cui discutibilità e condivisione sono soggette all’arbitrio dei singoli e il cui valore è dunque soggettivo, quanto per il suo metodo, che è piuttosto oggettivo e sa indagare al cuore dei problemi in questione. La domanda è dunque:

    Cosa rende lo storico scienziato (“cosa rende il marxista” direbbe Gramsci) così persuaso della correttezzza della teoria gramsciana dell’egemonia culturale, così propenso ad accettare l’idea secondo cui il sistema valoriale della classe produttiva non è che un’imposizione camuffata, un’elaborazione pianificata e saggiamente studiata dalla classe dirigente per il mantenimento dello status quo, cioè del proprio potere?

  • Sull’estetica del conflitto [parte 1]

    Fin dai primi anni di elaborazione delle teorie marxiste e della conseguente presa di coscienza del conflitto sociale di classe, la struttura di quest’ultimo ha trovato sostegno pragmatico e giustificazione teorica nella pratica della minaccia.

    I movimenti operai  dei primi del Novecento contavano sulla possibilità reale di provvedere, se le istanze proprie della classe proletaria non fossero state prese in considerazione dalla classe proprietaria, alla costruzione di un modello organizzativo autonomo e autogestito che capovolgesse dialetticamente i rapporti tra capitale e lavoro salariato, così che, per dirla con Marx stesso, o meglio, per ragioni di precisione storico-filologica, con Hegel suo maestro, il servo potesse diventare «padrone del padrone» e viceversa, il padrone potesse diventare «servo del servo».

    Si pensi, per esempio, al cosiddetto biennio rosso (1918-20), periodo di intensi contrasti e fortissimi conflitti, anche parecchio sanguinarî, che sorsero spontaneamente in tutto il continente europeo e per due anni furono sul punto di mettere in ginocchio lo Stato borghese riducendolo progressivamente ad una condizione di timore che si risolse, secondo la situazione specifica di ogni paese, con l’istaurazione di governi reazionari, militaristi o addirittura, come nel caso della Germania e dell’Italia, totalitari o quasi-totalitari: durante il suddetto periodo l’efficacia della protesta dipendeva primariamente dalla capacità che avevano gli organi di resistenza economica e sociale (partiti rivoluzionari e camere del lavoro) di presentare alla classe non produttiva una minaccia, cioè la minaccia di rivoluzionare il sistema produttivo attraverso l’utilizzo di quella stessa disciplina e organizzazione che il vecchio sistema aveva insegnato, qualora gli esponenti del vecchio sistema e i magnati industriali non avessero sua sponte ceduto, infine, di fronte ad una crisi economica evidentemente irrecuperabile nel rispetto dei diritti umani, tra cui il diritto al lavoro, ad una vita vivibile e fuori dalla schiavità e dallo sfruttamento.

    Il fenomeno non è valido solo per il periodo circoscritto di cui sopra, ma è rappresentativo di un’epoca intera, in cui l’aut aut dato da chi protesta suona più o meno così: «visto che a lavorare e rendere operative le vostre decisioni siamo noi, o decidiamo anche noi, oppure lavoriamo da soli e, in assenza di chi lo renda operativo seguendo le vostre disposizioni, non avrà più alcun senso il vostro decidere». I soggetti di questa minaccia sono i consigli di fabbrica e le cooperative agricole, e gli strumenti per esprimerla e renderla manifesta sono gli scioperi, l’occupazione delle fabbriche e, anche sul piano sociale e cognitivo, i centri sociali, da considerarsi come mezzi di affermazione e diffusione dei saperi indipendenti in cui convergono e vengono incanalate le altre forme di lotta e, eventualmente, ne vengono elaborate nuove attraverso lapratica della consivisione e dello scambio democratico e dialogico.

    [continua…]

  • Prefazione al Manifesto del partito comunista

    Il Manifesto riconosce appieno il ruolo rivoluzionario giocato nel passato dal capitalismo. La prima nazione  capitalistica è stata l’Italia. La conclusione del Medioevo feudale e l’inizio della moderna era capitalistica sono segnate da una figura grandiosa : è un italiano, Dante, l’ultimo poeta medievale e insieme il primo poeta della modernità. Come nel 1300, una nuova era è oggi in marcia. Sarà l’Italia a darci un nuovo Dante, che annuncerà la nascita di questa nuova era, l’era proletaria? 

    Londra, 1° febbraio 1893
    Friedrich Engels 

    Povero illuso, Engels…