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  • La dignità del vivente

    Lo scorso dicembre, il podcast francese di ecologia politica Le monde d’après ha intervistato Alessandro Pignocchi, militante del movimento dei Soulèvements de la Terre conosciuto nei mesi successivi per aver organizzato la manifestazione del 25 marzo 2023 a Sainte-Soline. Ho trascritto, riadattato e tradotto l’intervista nel testo qui sotto, che è stato pubblicato su Jacobin Italia.

    Il 21 giugno, il governo francese ha ufficializzato la procedura di scioglimento dei Soulèvements de la Terre, movimento ecologista radicale, conflittuale e di massa che conta più di 140.000 simpatizzanti e quasi 200 comitati locali, assurdamente accusato di «ecoterrorismo» nel contesto della spirale repressiva degli ultimi mesi che ha visto un inquietante deterioramento della libertà di espressione, segnalato anche dall’Onu. Il movimento, nato nel 2021, è stato all’origine di decine di azioni dirette di massa negli ultimi due anni (occupazioni di terre, sabotaggi, «disarmo» di impianti e stabilimenti nocivi per l’ambiente) ed è stato capace di federare attorno a obiettivi materiali e concreti una grande rete di associazioni, collettivi, sindacati, gruppi militanti, personalità del mondo culturale, intellettuale e artistico.

    Alessandro Pignocchi è uno di questi: fumettista con un passato da ricercatore in scienze cognitive e sociali, ha scritto di recente, insieme all’antropologo Philippe Descola, il «saggio illustrato» dal titolo Ethnographie des mondes à venir. Il podcast francese Le monde d’après, che si occupa di questioni legate all’ecologia politica, lo ha intervistato. In questa traduzione si toccano le principali idee politiche e strategiche dietro alle pratiche di azione diretta del movimento ecologista in Francia.

    Nel libro, appoggiandovi all’antropologia, dite che il sistema oggi egemonico, il capitalismo con gli Stati-nazione, è un incidente di percorso nella storia dell’umanità.

    Le strutture in cui si cresce, si riceve un’educazione, si vive, tendiamo a considerarle universali e indiscutibili, e spesso non abbiamo neanche gli strumenti per riflettere su di esse. L’esempio più classico di cui parla l’antropologia è la distinzione tra natura e cultura, l’idea che esiste qualcosa là fuori, chiamata natura, che sia una realtà oggettiva distinta chiaramente dalla cultura e dalle attività umane. Solo osservando quanto mostrato da studiosi e da popolazioni che si organizzano in tutt’altro modo, che non hanno nemmeno un vocabolo per esprimere ciò che noi chiamiamo «natura», ci si accorge che le cose potrebbero essere differenti.

    Un’idea è pensabile e criticabile solo se si riesce a immaginare il suo contrario: ciò è vero per la distinzione natura-cultura, ma anche per lo Stato-nazione o il capitalismo. Per fortuna esistono la storia, l’antropologia, l’archeologia, tutte discipline la cui funzione è dare a una società la percezione della relatività dei propri valori, del fatto che le strutture potrebbero essere diverse. Non sono semplici esercizi di immaginazione, ma forme di organizzazione sperimentate di fatto da altri popoli altrove nel mondo o in altri momenti della storia.

    Nel libro chiamate «naturalismo» la distinzione tra natura e cultura. Perché è un problema distinguere cultura e natura?

    Non è necessariamente un problema in sé. Il problema è che distinguere nettamente le società umane dagli altri esseri viventi e dai fenomeni naturali, e soprattutto attribuire a questi ultimi uno statuto di oggetto, ha avuto magari alcuni risvolti positivi (per esempio ha dato un impulso allo sviluppo delle scienze moderne) ma anche un certo numero di inconvenienti: è infatti una condizione dello sfruttamento e della devastazione capitalista del mondo, poiché crea una vasta categoria di oggetti da cui si può attingere risorse e materiale senza alcuna remora, senza alcun dovere di reciprocità. Si tratta di un comportamento che alla scala della storia dell’umanità è estremamente insolito: gli altri popoli del mondo non tendevano a considerare gli esseri non umani come materia inerte. Questo è il problema contingente della crisi ecologica: non la distinzione tra natura e cultura, ma le idee che la presuppongono, che si materializzano in istituzioni e fatti sociali. Esistono poi altri problemi, in particolare la povertà dei modi di relazione che produce nei confronti di piante, animali e luoghi di vita: o li si sfrutta, considerandoli come risorse, o li si protegge, ma la protezione «all’occidentale» è anch’essa un modo di relazione relativamente povero che si limita più o meno alla contemplazione estetica, e in ogni caso li si considera come oggetti il cui valore deriva dai servizi che possono renderci.

    Nei rari luoghi dell’Amazzonia in cui il capitalismo e il naturalismo non sono ancora penetrati profondamente, le piante e gli animali sono considerati soggetti, esseri con una propria interiorità, e dunque i modi di relazione con essi sono relazioni sociali: con loro si discute, si patteggia, ci si sente in dovere di reciprocità; tutte le attività di sussistenza come caccia, raccolta, agricoltura, si realizzano secondo modi di relazione diplomatici: si devono continuamente risolvere conflitti d’uso, morali, negoziando in maniera più o meno ritualizzata per andare d’accordo con i coabitanti non umani. In termini di rappresentazione, d’emozione, di coinvolgimento sono molto più ricchi di una semplice relazione d’uso, il che apre a maniere di stare al mondo più intense e felici rispetto a quando ci si limita al semplice sfruttamento o alla contemplazione.

    Noi non sosteniamo ovviamente che si debba diventare animisti come i nativi dell’Amazzonia, ma che si debba abitare il mondo secondo istituzioni, differenti dalle nostre, che ci porterebbero a tenere spontaneamente conto degli interessi della foresta, delle praterie, degli animali di allevamento, eventualmente degli animali cacciati, degli animali selvatici e di quelli domestici. Il punto è politicamente importante perché se si critica il naturalismo, nel senso di natura oggettificata, in cui i soggetti sono dalla parte delle società umane, solo quando si criticano le responsabilità umane per la crisi ecologica si entra in azione per «evitare il peggio»; invece è molto più forte lottare non per evitare il peggio, ma per andare verso un meglio. Sono modi d’azione più forti di quando si reagisce semplicemente all’ansia e alla paura della catastrofe.

    Come si possono avere relazioni diplomatiche con persone che non sono della nostra stessa specie?

    Non è scontato per noi che viviamo in un mondo in cui la diplomazia è un fatto sociale e il sociale riguarda esclusivamente gli esseri umani, ma dopo tutto l’idea non è così assurda. Nel luogo a cui ci ispiriamo, la ZAD di Notre-Dame-des-Landes, si può dire che in generale chi ci abita mantiene delle relazioni diplomatiche con gli esseri non umani: quando si tratta di scegliere quale albero tagliare nella foresta di Rohanne, si pensa agli interessi delle attività agricole, al bisogno di legno, ma anche e altrettanto seriamente a questioni di rigenerazione della foresta, per esempio facendo spazio per permettere la ricrescita di altre specie, per creare una maggior diversità e una foresta più ricca; quando chi alleva si chiede su quale prato far pascolare le pecore, le sposta dove il giunco comincia a invadere e trasformarsi in foresta; e lo stesso vale per il modo di trattare gli animali allevati. Magari il termine «diplomazia» è un po’ pesante, ma sono gli interessi di questi esseri in quanto soggetti a essere spontaneamente presi in considerazione. Per noi, le piante coltivate e gli animali allevati sono pura risorsa, sono «animali-materia» per dirla con Charles Stépanoff, e le piante sono ancora più oggettificate. Al contrario presso altri popoli fin dalla prima infanzia si ascoltano i racconti dei genitori, si osservano comportamenti in cui le piante coltivate, per esempio, sono considerate dalle donne come dei figli. Esistono tanti altri modi di interazione molto più sofisticati, tanto con gli animali cacciati nella foresta quanto con le piante coltivate: sono interlocutori con i quali si discute, si tratta. Ovviamente noi non proponiamo di metterci a credere che le pecore e gli alberi della foresta di Rohanne possano venire a trovarci in sogno per chiederci questo o quello, ma di costruire un ambiente in cui le attività umane di abitazione, di sussistenza, siano pensate collettivamente considerando gli interessi degli esseri non umani con cui coabitiamo, formulati ed espressi dalle persone che sono a diretto contatto con la foresta e con le greggi. Non si può conoscere con precisione cosa sia l’interesse di un albero o di una pecora, ma esistono a grandi linee direzioni che si possono immaginare, senza prendere troppi rischi, come buone e da favorire. Per esempio, il criterio della diversità: una foresta non tende mai da sola alla monocoltura, l’interesse di un ecosistema è di essere più diverso possibile.

    “Non difendiamo la natura, siamo la natura che si difende” – Vignetta dal fumetto La recomposition des mondes di Alessandro Pignocchi

    Affermate nel libro che anche se a volte abbiamo dei rapporti affettivi con soggetti non umani, per esempio parlando con un gatto, un uccellino o una pianta, ciò «non viene istituito». Come si può andare verso un’istituzionalizzazione?

    Nella nostra società, anche se esiste una legittimazione della relazione con gli animali domestici, quest’ultima costituisce un’eccezione: effettivamente con loro si discute, si hanno rapporti empatici, ma in generale le istituzioni su cui si articolano le grandi dimensioni del nostro rapporto col mondo, in particolare le nostre attività di sussistenza, sono estremamente oggettificanti. L’agricoltura industriale che nutre la maggior parte di noi non si pone certo la questione dell’interiorità degli esseri non umani. La tendenza generale che consiste ad attribuire un’interiorità a piante e animali, che manifestiamo soprattutto con gli animali domestici e che i bambini hanno molto più forte degli adulti, è qualcosa che crescendo impariamo a inibire, perché in generale in Occidente abbiamo plasmato istituzioni oggettificanti e non solo rispetto agli esseri non umani ma anche rispetto agli esseri umani. Le istituzioni economiche sono la forza oggettificante per eccellenza: per una struttura come il nostro mondo, dominato dalle regole del gioco economico, ogni essere, ogni ora di lavoro, ogni oggetto deve poter entrare nel mercato con un valore numerico, un valore di mercato, ed essere scambiato con qualunque altro oggetto. Si possono scambiare solo degli oggetti: a partire dal momento in cui ti accordo un’interiorità, non sei più scambiabile con un’ora di lavoro o con un oggetto o con una somma di denaro. Per un bambino che cresce in una grande città all’inizio è senza dubbio un po’ strano passare le giornate a scavalcare persone senza fissa dimora come se fossero meri ostacoli. Lo stesso vale per qualunque imprenditore o dirigente politico: imparano a oggettificare, devono inibire le proprie facoltà soggettivanti per trattare gli esseri umani che dominano come semplici oggetti, parametri di un’equazione senza un’interiorità. Vediamo lo stesso con l’allevamento: molti piccoli allevatori si avvicinano al mestiere per avere relazioni ricche e dense con gli animali, ma presi nella morsa del gioco economico hanno un vincolo di profitto, devono ingrandirsi e rendicontare e a poco a poco devono maltrattare gli animali e inibire sempre di più le facoltà empatiche che li avevano spinti all’inizio a entrare in quella attività, fino a trovarsi in un rapporto puramente oggettificante. Cito nel libro un allevatore di vacche che una volta oltrepassate le cinquanta vacche ha smesso di chiamarle per nome, per non impazzire. 

    Come cambiare queste istituzioni non è affatto scontato: strutturano praticamente tutto il nostro mondo da almeno due secoli. La sfera economica, il fatto che l’insieme delle nostre scelte sia determinato da questioni di profitto, è la prima cosa di cui disfarsi. Nella ZAD di Notre-Dame-des-Landes attraverso il mutualismo, la pratica dei beni comuni e l’attuazione di una forma di autonomia alimentare e politica, la morsa della sfera economica si allenta e ci si può offrire il lusso di pensare l’insieme delle attività che organizzano il territorio non più secondo criteri di profitto economico ma secondo ciò che si decide collettivamente in assemblee generali, considerando come soggetti non solo gli altri esseri umani ma anche gli esseri non umani, integrando i loro interessi alle decisioni collettive. L’esercizio di fantapolitica che proponiamo è di moltiplicare i territori di questo tipo. Appena si allenta un po’ la morsa dell’economia, è abbastanza ovvio considerare tutti gli altri esseri che abitano il territorio come co-abitanti, interlocutori, compagni di oppressione oggettificati dalle stesse forze statali e capitaliste: si hanno nemici comuni e solidarietà comuni.

    Scavo preliminare da parte del collettivo Naturalistes de terre, per la realizzazione di uno stagno in cui possano trovare rifugio una serie di specie animali della foresta di Bord, vicino Rouen, durante la manifestazione del 6 maggio 2023

    Vorrei rimanere su quanto hai detto sull’economia. Nel libro, parlate di supremazia della sfera economica. Potresti spiegare cosa intendete dire?

    Sul piano materiale è semplicemente la creazione di un mercato del lavoro da parte della borghesia, dunque la proletarizzazione della popolazione. Il primo ingranaggio, la base perché si abbia un proletariato che metta la propria forza lavoro a disposizione della borghesia, è che la popolazione che lo forma abbia perso le condizioni della propria autonomia.

    Ci sono molti modi che gli Stati hanno usato e continuano a usare. Il principale è la privatizzazione della terra: quella terra che le popolazioni erano solite usare come bene comune, attingendo collettivamente a un insieme di risorse che permettevano loro di vivere. Dal momento in cui si disse «questo non vi appartiene più, a partire da oggi dovrete pagare per accedere o disporre della terra», non si ebbe più altra scelta se non andare a vendere la propria forza lavoro. Ci sono mille modi come questo usati per proletarizzare la popolazione. Nel corso del XVIII secolo, i fatti economici si distaccano e acquisiscono autonomia rispetto ad altri fatti sociali; allo stesso tempo, gli economisti e i filosofi teorizzano la creazione di una disciplina, l’economia, come sfera autonoma, un insieme di fatti sempre più indipendenti che assumono una posizione dominante sul resto della vita sociale: esiste il mercato, che si concepisce come dotato di vita propria, e i suoi alti e bassi determinano le decisioni politiche. Oggi si giustificano leggi oppressive, di impoverimento, perché sono al servizio del buon funzionamento economico del paese e della crescita: ecco la sfera economica che domina sul resto della vita sociale. Rimetterla al servizio della vita sociale significa tornare a sottomettere, com’è stato nella storia dell’umanità, tutte le decisioni che riguardano la sussistenza, l’abitazione, il vivere insieme, non a regole economiche astratte ma a decisioni collettive, decisioni politiche: ovvero, sottomettere l’economia alla politica.

    Parlate anche dell’idea di compensazione ecologica, secondo cui se si vuole distruggere un territorio, per esempio cementificandolo, bisogna compensare piantando degli alberi altrove.

    Questo è ciò che si chiama commensurabilità generalizzata: ogni cosa è commensurabile, cioè può essere schiacciata su un asse di valore unico secondo cui tutto si può scambiare. In un mondo economicizzato se distruggi un ecosistema da qualche parte ma poi costruisci altrove qualcosa di valore equivalente, allora va tutto bene. Ciò significa che i legami affettivi di una popolazione con quell’ecosistema non hanno alcun valore. Infatti, perché esista la compensazione ecologica, è necessario che la totalità dell’ambiente e dei suoi abitanti non umani siano degli oggetti, per poterli scambiare con altri oggetti a cui si attribuisce pari valore… ma ovviamente per una popolazione che è cresciuta lì, che ha intessuto dei legami affettivi e magari, come nel caso delle popolazioni indigene, dei legami simbolici estremamente forti, dire «sì, la distruggiamo, ma niente paura: ne costruiamo un’altra altrove» non ha assolutamente senso, sarebbe come dire «prendiamo un vostro familiare, ma niente paura: lo sostituiamo».

    Nel mondo a cui aspiriamo, non esiste uscita dalla crisi ecologica senza disfare queste istituzioni oggettificanti, in particolare quelle economiche. Si devono invece costruire collettivamente e con forza delle istituzioni soggettivanti. In un mondo del genere, la compensazione ecologica diventa qualcosa di completamente assurdo.

    Nel libro constatate il sentimento di impotenza politica di responsabili di Ong che non vedono più a cosa serve ciò che fanno, ma allo stesso tempo criticate l’idea di un capovolgimento rivoluzionario che non vedete all’orizzonte. Proponete una specie di sistema misto in cui ci sarebbero degli Stati ma anche delle comunità autonome.

    Le Ong e tutto il mondo dell’associazionismo si sono sviluppate sotto la socialdemocrazia, che è stata un periodo assai particolare: alla fine della Seconda guerra mondiale, per molteplici ragioni molto contingenti, le classi dominanti sono state inclini a fare concessioni. Bisogna prendere atto della fine di quel periodo: la socialdemocrazia ha essa stessa liberato le mani del capitale e sdoganato la possibilità dei movimenti internazionali di capitale. L’idea che l’argomentazione e la disamina scientifica possano influire sulle decisioni delle classi dirigenti deve semplicemente essere abbandonata, soprattutto ora che la crisi ecologica accresce ogni giorno gli antagonismi di classe: le classi dirigenti si sentono minacciate, pensano a mettersi al riparo e non certo a condividere le ricchezze.

    Un altro problema è l’idea relativamente diffusa che bisogna sensibilizzare più gente possibile. Ovviamente è sempre ottimo riuscire a sensibilizzare, ma oggi la priorità non è questa: ci sono persone sensibilizzate a sufficienza, che soffrono del proprio lavoro di merda completamente assurdo, privo di senso, distruttivo… la consapevolezza e il desiderio di trovare altri modi di sostentamento, non distruttivi e che permettano di avere relazioni più piene con gli altri esseri umani o non umani non mancano.

    Resta il capovolgimento rivoluzionario, il grande evento, e va benissimo continuare a pensarlo. Esistono tuttavia ragioni di dubitare della sua possibilità vista la potenza militare degli Stati e a che punto siamo diventati incapaci di organizzarci collettivamente. Abbiamo tutto da reimparare e l’idea di spazzare via le istituzioni per ricostruirle a tavolino, insieme, in armonia, sembra una prospettiva politica perlomeno azzardata. Provare a pensarci resta fondamentale, ma riteniamo che non possa essere l’unico orizzonte politico. Proponiamo una via alternativa che in effetti non è incompatibile con l’idea del grande evento: riprendersi i territori sfidando i modi di gestione della classe dominante, proponendo pratiche di organizzazione differenti. Invitiamo a pensare alle trasformazioni che tali territori autonomi potrebbero comportare per lo Stato. Non diciamo affatto che si dovrà segregare il territorio e che ci saranno da un lato territori autonomi che fanno la propria vita e dall’altro Stati che continueranno a esistere esattamente come prima. Diciamo che uno Stato che si trova, per un motivo o per l’altro, a dover convivere con dei territori autonomi non è più lo stesso Stato, perché i territori autonomi non sono compartimenti stagni, la popolazione si muove. Basandoci sull’antropologia e la storia recente, vediamo che in una vasta zona dell’Asia del Sud-Est la coabitazione tra Stati e territori organizzati ai loro margini era tipica, e negli ultimi 20.000 anni della storia dell’umanità questa era una situazione estremamente normale. Dei territori autonomi offrirebbero alle popolazioni che vivono sul territorio dello Stato una sorta di piano B: un altro modo di sostentarsi, di abitare, di nutrirsi, di vivere in società all’infuori dello Stato. Questo conferisce un potere di negoziazione, dei margini di manovra, che purtroppo l’organizzazione e la solidarietà operaia non riesce più a ottenere dagli anni Settanta quando gli Stati sono riusciti a distruggere il mondo del lavoro, a stroncare sul nascere ogni tentativo di sperimentare una potenza collettiva. Il tentativo di riprendersi le terre e di organizzarvisi diversamente è un’arma relativamente nuova che per adesso gli Stati gestiscono meno bene, per esempio, dei movimenti sindacali, e che avrebbe un potere di trasformazione potenzialmente molto grande: crea popolazioni estremamente mature sul piano politico, da alle persone che abitano sui territori dello Stato la possibilità di sperimentare qualcosa di diverso, traducendo in realtà prospettive altrimenti puramente astratte (e una prospettiva astratta non mobilita gli affetti allo stesso modo).

    Al contrario di quanto accusa una parte della sinistra più tradizionale, secondo cui si finirebbe semplicemente col farsi l’orto da qualche parte abbandonando il proletariato alla sua condizione, pensiamo invece che questi territori hanno delle virtù intrinseche e sono anche delle possibilità flessibili.

    Manifestazione a Sainte-Soline, 25 marzo 2023

    Com’è possibile che questi territori si mantengano considerato che gli Stati dispongono di una forza coercitiva enorme?

    Questo pone chiaramente un problema, ma immaginiamo una serie di situazioni in cui una coabitazione forzata fosse possibile. Per esempio, in una situazione di seria instabilità politica – come un movimento dei gilet gialli moltiplicato per dieci – lo Stato non avrebbe che una sola risposta, fortemente repressiva, e le classi dominanti avrebbero un mero comportamento di autodifesa, mentre tutte le strutture che avranno sviluppato con successo forme di solidarietà, di mutuo soccorso e di autonomia si troverebbero a sopperire a bisogni primari della popolazione, mantenendo condizioni di vita decenti, e da un tale periodo di instabilità si potrebbe uscire trovandosi in una situazione politica simile, al netto di alcune ovvie differenze, a quella conosciuta alla fine della Seconda guerra mondiale. Per esempio, se lo stato sociale si è affermato attraverso il voto è anche grazie al fatto che il Partito comunista usciva dalla guerra come resistente vittorioso, mentre i grandi industriali, seppure con qualche eccezione, si erano mostrati collaborazionisti. In una situazione simile tutte le forme di autonomia territoriale, di solidarietà locale, di movimento associativo, uscirebbero dalla crisi con tutte le virtù del caso, mentre lo Stato e i padroni sarebbero del tutto screditati e si troverebbero obbligati a riconoscere le strutture istituzionalizzate dei territori autonomi e soprattutto la loro creazione, estensione, organizzazione in reti. Ci sono poi altri scenari possibili, ma quella di costringere, in un modo o nell’altro, lo Stato, di questi tempi è in realtà una delle principali prospettive politiche che non è irragionevole avere.

    In effetti, mi sembra che si parli molto della possibilità di collettivi autonomi in campagna.

    Riunire e federare forme di solidarietà e mutualismo tra movimenti rurali, contadini e movimenti di occupazione urbana è una grossa sfida, ma esistono diversi modi. Il collettivo «Reprise de terre» si pone direttamente queste domande: gli orti urbani, la ripresa delle terre in città per permettere forme di sussistenza minima, sono cose che si sviluppano in parecchi posti. Nelle grandi città dell’America del Sud è così che la popolazione è sopravvissuta nel periodo delle restrizioni pandemiche… Potrebbe suonare come un semplice aneddoto ma non lo è: l’antropologia e la storia mostrano che in generale le popolazioni umane hanno sempre oscillato su base stagionale tra modi di vivere estremamente diversi, sia in termini di sussistenza che di organizzazione politica. Da qui possiamo immaginare movimenti di popolazione stagionali tra centri più urbanizzati e territori di produzione agricola in cui ciascuno in un modo o nell’altro potrebbe partecipare alle attività per una parte dell’anno. Nel prossimo futuro, sono sicuramente interazioni di questo tipo che bisogna immaginare e costruire.

    Alla fine del libro, difendete l’eterogeneità dei modi di stare al mondo, ovvero non difendete un modello che dovrebbe applicarsi ovunque.

    Riteniamo che un mondo vario e diverso sia più bello da vivere che un mondo noioso e uniforme. Un mondo in cui ci sia una sola regola del gioco, un solo modo di essere una persona valida, è un mondo completamente deprimente. Una proliferazione di territori con diversi modi di organizzazione politica, diverse maniere di sostentarsi e soddisfare i bisogni, diversi sistemi di valori, crea possibilità di emancipazione molto maggiori di un mondo uniforme in cui le condizioni di dominazione sono ovviamente più severe e violente che in un mondo in cui esistano molteplici possibilità di scelta.

    In generale insistiamo sul principio della diversità anche perché ci sembra un valore meno antropocentrico e etnocentrico di molti altri. Si può ritenere, senza correre troppo il rischio di proiettare e antropomorfizzare, che la diversità è anche nell’interesse degli ecosistemi, degli ambienti di vita. Ci sembra insomma un valore con un buon numero di virtù e possiamo forse considerare la diversità come l’unico valore veramente universale, da prendere come presupposto per pensare tutto il resto.

    L’otarda di legno che ha aperto uno dei tre cortei di Sainte-Soline, 25 marzo 2023
  • Chi fa scienza ha un ruolo politico

    La settimana scorsa, Lundi Matin ha pubblicato l’appello di una dottoranda per la politicizzazione delle cosiddette “scienze dure”. Si tende, per lo meno in Francia, a ritenere che le questioni politiche e sociali interessino poco chi si occupa delle cosiddette “scienze dure”, in quanto tali questioni ricadrebbero in una qualche maniera al di fuori del loro campo e sarebbero riservate piuttosto ai ricercatori in scienze sociali. Eppure, in questi ultimi anni, l’importanza assunta dalle questioni climatiche, ambientali ed ecologiche sta scombinando le carte e spinge sempre più scienziati e scienziate a partecipare al dibattito pubblico ed schierarsi politicamente. Proprio a ciò incoraggia questo testo.

    Il testo affronta una serie di questioni che in Italia sono già state discusse in maniera più o meno ampia a livello della teoria politica, ma forse non abbastanza metabolizzate sul piano della pratica e dell’impostazione discorsiva. L’ultima prova lampante è la quasi totale inconsistenza dei movimenti rispetto alle misure adottate in Italia in nome della pandemia, ma si potrebbero fare altri esempi in relazione alla fiducia cieca e al rispetto incondizionato che la generica sinistra “istruita” ripone nelle istituzioni scientifiche o nel Burioni di turno, a prescindere da ogni analisi che tenga conto dei rapporti di forza e dei conflitti che operano nella società, spesso a costo di reagire con una saccenza classista ed elitaria. Questo atteggiamento si chiama “scientismo” ed è esattamente quanto intende denunciare il testo che mi è sembrato opportuno tradurre. Visto che sono questioni già discusse in Italia, una parte di lettori e lettrici vi troverà asserite delle ovvietà, ma ripeterle di questi tempi non fa certo male, specie se si sottolinea la necessità di agire sul piano delle pratiche politiche e non fermarsi alla sola riflessione teorica.

    In materia di ecologia, il discorso scientifico occupa oggi una posizione considerevole, in particolare per quanto riguarda le scienze della natura (espressione qui usata per riferirsi a scienze come la meteorologia, l’oceanografia, la climatologia, la glaciologia, la biologia, l’ecologia scientifica, l’ornitologia, ovvero scienze il cui oggetto di ricerca rende conto, direttamente o indirettamente, delle devastazioni ecologiche attuali come il riscaldamento globale o l’erosione della biodiversità; si noti che si tratta di scienze la cui parola gode di una legittimazione forte da parte della stampa e che gli e le scienziate della natura sono relativamente poco politicizzati). Ogni nuovo rapporto dell’IPCC (gruppo inter-governativo sul cambiamento climatico, foro scientifico dell’ONU nato per studiare il riscaldamento globale) o del simile IPBES (piattaforma inter-governativa scientifico-politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici) è riportato e commentato dalla stampa. Le analisi scientifiche del cambiamento climatico e dell’erosione della biodiversità compaiono tanto sui cartelli alle manifestazioni quanto nei discorsi del ceto politico (si noti che in Francia, contrariamente al altri paesi, esiste un consenso abbastanza solido a tale riguardo e il “negazionismo climatico” resta molto minoritario). Gli e le scienziate della natura ne sono pienamente coscienti e considerano che il loro staturo conferisca loro un preciso dovere di divulgazione delle proprie conoscenze. Per varie ragioni, c’è tra loro chi raccomanda o si vede imporre la “neutralità”, sia in termini di discorso che di posizione. Sebbene tale tentativo possa apparire legittimo, esso si basa su ignoranze e fraintendimenti che confondono il metodo scientifico con la neutralità, l’ecologia in senso scientifico con l’ecologia in senso politico.

    Discorso neutro o discorso vuoto?

    Quando si tratta di descrivere gli oceani, le nuvole, le specie animali e vegetali, le foreste, i suoli, o quando si tratta di rendere conto delle attuali devastazioni ambientali, il solo modo di essere neutri sarebbe tacere, il che ovviamente non sarebbe affatto soddisfacente in termini di comunicazione scientifica.

    Infatti, la scelta delle parole riflette i valori, la cultura e la visione del mondo di chi parla. Se esiste una battaglia di idee in merito alle parole impiegate per descrivere le distruzioni ecologiche, è perché esse sono di fondamentale importanza politica. Il termine “antropocene” è un caso eclatante: benché usato spesso dai media e da scienziati e scienziate della natura, è stato fortemente criticato e diverse alternative sono state proposte per sopperire ai suoi limiti. Il problema è che identificando un’ipotetica umanità indivisibile come agente delle devastazioni ecologiche attuali, il termine reso popolare alla fine del XX° secolo dal meteorologo e chimico Paul Josef Crutzen non permette di cogliere la ripartizione ineguale delle responsabilità all’interno della specie umana. Per esempio, si considerano insieme le società industriali e i popoli cosiddetti autoctoni o indigeni (la versione originale parla anche di popoli “primitivi” o “selvaggi”, ma mi rifiuto di utilizzare questi vocaboli, NdT), eppure questi ultimi non hanno niente a che vedere con ciò che chiamiamo, per questo a torto, “antropocene”. Anzi, alcune delle società non industriali sembrano addirittura fornire la prova vivente del fatto che la specie umana può vivere in equilibrio con il suo ambiente e rappresentano una fonte di ispirazione per immaginare le profonde trasformazioni a cui le devastazioni ecologiche dovrebbero spingere le nostre società. Per questo, c’è chi preferisce parlare di “industrialocene” o ancora di “occidentalocene”. Oppure chi identifica nel capitalismo il principale responsabile del disastro, e parla allora di “capitalocene”. Quest’ultimo concetto ha il merito di puntare il dito sul fatto che anche all’interno delle società industriali la responsabilità non è ugualmente condivisa tra gli individui (per esempio, il 7% più ricco produce il 50% di emissioni di diossido di carbonio, il 45% più povero solo il 7% delle emissioni): sono coloro che amministrano il capitalismo e supportano l’ideologia corrispondente ad esser chiamati in causa.

    È dunque chiaro che la scelta del termine “antropocene” per designare l’epoca geologica attuale, sebbene sia comune in certi ambienti scientifici e giornalistici, non ha nulla di neutro e, come molti termini derivanti dal campo delle scienze della natura, ha acquisito un portato fortemente politico. Il suo utilizzo rinforza certi preconcetti che ci impediscono di immaginare un mondo desiderabile per il “dopo” e alimenta una visione misantropica secondo cui gli umani in generale sarebbero il virus che devasta il pianeta. Se è certo che l’uso della parola “capitalocene” costerebbe a una scienziata la qualifica, da parte della stampa e dei colleghi, di essere schierata, se non proprio accusata di non-neutralità, lo stesso non può dirsi del termine “antropocene”. Voler descrivere il mondo in una maniera che si presume neutra porta in fondo a plasmare il proprio discorso sull’ideologia dominante, favorendo quindi lo status quo.

    Neutralità e status quo

    Consideriamo il caso di una presentazione su delle proiezioni climatiche della temperatura della superficie terrestre, in cui la persona che presenta sia portata a mettere le proprie ricerche in prospettiva e fornire un contesto che inquadri e giustifichi il proprio lavoro. Si parlerà per esempio di “transizione ecologica” o ancora di “obiettivi di sviluppo sostenibile”. In generale, si darà per scontata la necessità delle attività industriali, la disponibilità delle tecnologie attuali, un livello elevato di consumo di energia e materiali (questo è l’approccio tenuto, per esempio, dall’IPCC e l’IPBES). Benché la sobrietà e il risparmio siano sempre raccomandati, non si precisa mai dove si colloca il limite tra la sobrietà e lo spreco. L’istituzione statale sarà presa come norma e considerata come forma democratica di gestione. Si condanneranno i danni all’ambiente unicamente nella misura in cui avranno effetti sull’umanità: per esempio, la scomparsa di specie vegetali a causa del cambiamento climatico sarà messa in evidenza per le eventuali proprietà medicinali di questa o quella pianta, non per il loro valore intrinseco. Nel proporre eventuali soluzioni si dimenticherà, come spesso accade, l’impatto che l’estrazione mineraria necessaria alla transizione energetica occidentale ha sulle popolazioni locali in Asia, in Africa o America Latina. Una visione contabile, antropocentrica, etnocentrica e sociocentrica del mondo animerà i propositi scientifici della persona che interviene. La stessa cosa potrebbe verificarsi per una presentazione sull’acidificazione degli oceani, lo scioglimento dei ghiacci o la circolazione atmosferica. Una tale posizione non sarà considerata “di parte”, eppure lo è.

    Scienziati e scienziate della natura che fanno propria tale visione del mondo potranno esprimerla senza arrossire, a volte senza neppure rendersi conto che le proprie affermazioni non sono ovvie e scontate. Chi invece nelle scienze della natura pensa che è necessario cambiare radicalmente prospettiva, rimettere in causa i valori e i modelli sociali attuali, non oserà difendere le proprie idee per timore della disapprovazione dei colleghi, o addirittura di vedere messa in dubbio la propria integrità scientifica. Eppure, la documentazione scientifica delle devastazioni ambientali dovrebbe proprio portarci ad uscire dallo status quo, a sovvertire il nostro immaginario per trovare soluzioni in cui la specie umana, le altre specie animali e il loro ambiente di vita siano preservati.

    L’illusione della posizione neutra

    È impossibile avere una posizione neutra in un contesto politico. Quest’ultimo è fatto di opposizioni, di rapporti di forza, di conflitti, di vittorie per alcuni e sconfitte per altri. Evitare di prendere posizione significa agire in favore dello status quo, avallare le oppressioni invece che combatterle. Tra l’altro, come fa notare Jean-Baptiste Fressoz, storico delle scienze e dell’ambiente, la questione della “militanza politica” delle persone di scienza viene sempre posta quando esse mettono in questione l’ordine sociale, mai quando lo sostengono. Credere nella possibilità di una posizione neutra ricade in una concezione idealizzata del dibattito politico, che si vorrebbe mero scambio di idee da cui risulterebbe una decisione comune organizzata democraticamente dalle istituzioni politiche. Non è affatto così. Le attuali forme di governo sono autoritarie, dalle aristocrazie elettive che sono gli Stati alle grandi imprese gerarchiche sottoposte esse stesse al mercato. In tale contesto, non prendere posizione significa lasciare il potere decisionale ai “responsabili” politici e alla “razionalità” economica che hanno portato proprio alla situazione attuale mettendo in pericolo le condizioni di vita e devastando il mondo vivente sulla Terra.

    La figura dell’esperto è il problema

    La ricerca di neutralità da parte delle persone di scienza deriva dalla posizione di “esperte” che è loro attribuita nella società e nel dibattito pubblico. I sistemi di governo autoritari che conosciamo sono fondati sul primato del sapere tecnico su ogni altra forma di sapere. Lo scientismo (che altrove è stato definito una “nuova chiesa universale”) ritiene che solo il metodo scientifico permetta di accedere alla verità e che quindi ogni decisione deve essere presa sulla base di fatti stabiliti scientificamente. Questo postulato conferisce alla figura dell’esperto uno statuto di autorità. Come persona di scienza è allora legittimo non voler prendere una posizione in nome della scienza in un dibattito di idee politiche, per non scalfire lo statuto di autorità per la difesa di posizioni personali. Questo proposito è in effetti ingannevole, perché la conoscenza scientifica non permette mai da sola di affermare se questa o quella posizione politica sono buone. D’altro canto, un tale abuso rischierebbe di mettere in crisi la credibilità della parola scientifica. Eppure, una persona di scienza non deve privarsi di esprimere la propria posizione come individuo, perché non si può non prendere posizione, come visto già sopra.

    Del resto, se una persona di scienza quando esprime la propria opinione come individuo deve mostrarlo chiaramente e non farlo in nome della scienza, ciò non deve dar l’impressione che il suo lavoro scientifico sia, in sé, neutro. Sbaglierebbe chi dicesse che chi fa scienza deve comunicare in modo esplicito separando i momenti in cui milita in quanto cittadino e quelli in cui si posizione in quanto ricercatore. Da un lato, l’individuo e il ricercatore sono indissociabili, dall’altro metodo scientifico non significa neutralità ma piuttosto attendibilità (essendo i risultati verificabili e riproducibili). Questi fatti sono da esplicitare fin dall’inizio quando una persona di scienza interviene in un dibattito pubblico.

    Inoltre, lo scientismo inibisce in chi fa scienza della natura la capacità di esprimersi su questioni di società diverse dall’oggetto diretto dei propri lavori di ricerca. Di fatto, se solo gli esperti hanno ragione, allora la parola di un non esperto non è mai legittima, così come un oceanografo non dovrebbe esprimersi in questioni di agricoltura, un biologo non dovrebbe esprimersi in questioni di produzione energetica e così via.

    Tuttavia, questo funzionamento tecnocratico ha dato prova di non essere capace di risolvere i problemi che produce, in particolare in materia di difesa della natura. La specializzazione a oltranza delle competenze tecniche impedisce agli individui di comprendere il mondo nella sua globalità e la delega delle decisioni a un’aristocrazia (sia pur eletta) porta all’accaparramento della natura da parte di una minoranza. Peraltro, nonostante la serie di nuove soluzioni tecniche ai problemi ambientali provocati dalle attività industriali, i danni non accennano a ridursi.

    Infine, va tenuto ben presente che la prospettiva di un potere autoritario “ecologico” in cui la gestione delle risorse naturali fosse assicurata da un estremo controllo della popolazione non è affatto felice. Lo spettro dell’ecofascismo è presente, incombe fin dal Rapporto sui Limiti dello Sviluppo e si avvicina sempre più con il fiorire delle “smart cities” (si suppone che le città intelligenti dovrebbero migliorare la gestione e la distribuzione delle risorse, ma sono un ottimo pretesto per il dispiegamento di politiche securitarie, di sorveglianza e controllo della popolazione, che spesso il capitalismo si affretta a dotare di un’aura verde ecosostenibile). Esistono svariate società possibili che prendano in considerazione i limiti del pianeta e non saranno gli esperti a poter decidere quale progetto politico ecologico sia “migliore”. Esiste una grande differenza tra ambientalismo ed ecologia politica: quest’ultima permette di comprendere che non esistono traiettorie univoche dettate da considerazioni ecologiche.

    La scelta del pubblico

    I rapporti scientifici dell’IPCC o dell’IPBES non vengono dal nulla: conformemente all’organizzazione tecnocratica delle nostre società, essi sono inizialmente destinati ai responsabili politici (così come da loro sono commissionati), per consentire loro di prendere quelle che si presumono le migliori decisioni. Questi rapporti hanno tuttavia assunto un peso considerevole nel dibattito pubblico: permettono ai non esperti, cioè cittadini e cittadine, di informarsi sulle devastazioni ecologiche, di comprendere meglio il funzionamento del mondo naturale in cui viviamo e sono anche un mezzo di fare pressione su chi governa. In questo modo le persone di scienza, attraverso uno strumento tecnocratico come i rapporti scientifici destinati a chi decide, alimentano paradossalmente una trasmissione di sapere e di potere verso il basso.

    Nelle scienze della natura, molte persone sono tuttavia persuase che i rapporti scientifici non siano abbastanza e che sia necessario andare incontro al pubblico per trasmettere le proprie conoscenze: si impegnano così nella divulgazione e nella comunicazione, e ciò non può che essere accolto positivamente. La scelta del pubblico cui si rivolgono ha anch’essa carattere politico. Il fatto che Jean Jouzel, ex-vicepresidente dell’IPCC nonché ex direttore dell’Institut Pierre Simon Laplace, tenga delle conferenze sul clima a bordo di navi da crociera di lusso è stato fortemente criticato da parte del movimento ecologista. Non si può considerare neutro neanche il fatto che Hervé Le Treut, neodirettore dello stesso istituto, abbia tenuto una conferenza a un meeting del partito di Macron, En Marche. In Francia, Valérie Masson-Delmotte è probabilmente la ricercatrice più attiva nella diffusione dell’informazione scientifica sul clima. Oltre a intervenire nelle università e nella stampa, sceglie di andare a incontrare chi milita nel movimento per il clima e anche di discutere con Assa Traoré (che lotta tenacemente per reclamare verità e giustizia dopo l’assassinio di suo fratello Adama Traoré da parte della polizia francese nel 2016). Tale iniziativa è di particolare importanza visto che la popolazione che si considera “ecologista” è in maggioranza bianca e proveniente da classi sociali agiate. Si vede dunque dalla diversità di pratiche che la scelta del pubblico a cui ci si rivolge non è mai neutra, proprio come la natura del discorso e la posizione assunta da chi parla in quanto persona di scienza.

    Chi fa scienza è un soggetto politico

    Se il metodo scientifico permette di controllare oggettivamente la veridicità di un’affermazione, l’oggetto di studio è comunque sempre definito da valori e priorità che sono, esse, politiche. Le istituzioni, le modalità di finanziamento e di funzionamento della scienza non sono né oggettive né razionali. È indispensabile che coloro che fanno scienza si approprino, se non lo hano ancora fatto, della dimensione politica delle proprie discipline. In realtà, molte persone sono impegnate in un impostazione di riflessione politica profonda, e attingono alle scienze umane e sociali informazioni preziose: cominciano a prendere posizione nelle tribune o in occasione delle presentazioni scientifiche, si impegnano in azioni sindacali, partecipano attivamente ai movimenti, creano collettivi di ecologia politica. Questo testo è un appello per l’amplificazione di questo movimento di politicizzazione delle scienze della natura.

    Verso la politicizzazione

    Per trasformarsi da scienze ridotte ad analisi tecniche in scienze capaci di assumere e cogliere la propria funzione politica, è necessario aprire i mondi della ricerca. Le scienze della natura non avrebbero che da guadagnare mescolandosi a discipline come l’antropologia, l’economia, la filosofia, la sociologia o la storia, essenziali per comprendere ciò che porta alle devastazioni ecologiche. Dei collettivi di ricerca, come l’Atécopol di Tolosa, si muovono già in quest’ottica di scambio tra le discipline. Questa impostazione permette di capire il mondo nella sua globalità per assumere una posizione politica piuttosto che allinearsi automaticamente a uno status quo potenzialmente devastatore. Una simile apertura e presa di posizione implicano di uscire dal ruolo di esperti ed esperte e di condannare la tecnocrazia, come alcuni collettivi quali Survivre et Vivre fecero già negli anni 1970. Il prolungamento naturale di questo percorso è l’apertura all’insieme dei non esperti che lottano per una nuova società in cui l’ecologia sia centrale e non si riduca a qualche aggiustamento marginale di pratiche invariabilmente distruttive.

  • La possibilità dell’ecofascismo

    Una versione ridotta di questo post, dal titolo Spettri di ecofascismo pandemico, è comparsa il 25 aprile 2020 su D Zine, in occasione della giornata di Resistenza antifascista, quando lo spettro di nuove forme di fascismo aleggia sulle vite di miliardi di persone ingabbiate nel dispositivo della quarantena.

    ***

    Di tutti gli innumerevoli aspetti dell’attuale crisi epidemica mondiale, solo alcuni sono stati sviscerati ampiamente. Altri, meno ovvi, meno urgenti, meno utili, ma non per questo meno necessari o profondi, restano confinati nel campo del sottinteso, dell’inconscio o del non ancora immaginato. Uno in particolare, non approfondito altrove, sarà preso in considerazione qui di seguito, e riguarda ciò che le reazioni alla pandemia ci dicono riguardo ai possibili scenari futuri plasmati dalla crisi.

    La mattina di domenica 15 marzo, i cittadini e le cittadine francesi hanno ricevuto un annuncio dal Ministero della Transizione Ecologica: i trasporti a lunga distanza via rotaia e ruota e gli spostamenti aerei saranno progressivamente ridotti nei giorni a venire.

    L’annuncio, vista l’emergenza sanitaria dovuta alla propagazione del COVID-19, non ha niente di strano, è anzi atteso da diversi giorni, in cui la Francia sembra molto meno reattiva e preoccupata rispetto a molti altri Stati europei e si muove timidamente e in ritardo per il contenimento del contagio, con misure blande e molto meno restrittive, di certo poco incisive.

    Nulla di strano neanche nel fatto che ad annunciare le misure intraprese per il contenimento di una potenziale emergenza sanitaria sia il Ministero deputato ai trasporti, e non quello deputato alla salute: le particolari misure riguardano gli spostamenti con mezzi pubblici o accessibili al pubblico ed è logico che ciò rientri nelle competenze del ministero che gestisce le infrastrutture.

    L’elemento interessante per chi non fosse avvezzo alle istituzioni francesi è invece che tale Ministero prende il nome ufficiale di Ministère de la Transition Ecologique et Solidaire (in italiano: Ministero della Transizione Ecologica e Solidale, denominazione di amara ironia pensando allo scempio neoliberista da esso avallato sistematicamente, che di ecologico e solidale non ha avuto che la retorica di facciata per indorare le pillole dei sacrifici in nome dell’austerità), che colloca il settore dei trasporti in un campo di azione pubblica molto più esteso: il concetto di transizione ecologica investe la sfera ambientale, socio-economica, culturale, ed è consapevolmente entro tale visione globale che il Ministero avrebbe vocazione di includere le infrastrutture e i trasporti. Che questo poi avvenga o meno nei fatti è adesso di scarsa importanza, piuttosto è interessante soffermarsi su ciò che tale nome evoca, e riflettere partendo da questo spunto.

    Della servità (comprensibilmente) volontaria

    Stiamo tutti vivendo, in questi giorni, qualcosa di inedito: in diversi paesi su tutti i continenti, gli spostamenti non essenziali sono vietati, le frontiere sono chiuse fino a diventare impermeabili, la produzione e la distribuzione sono fortemente limitate, i meccanismi di controllo e sorveglianza sono utilizzati in maniera abnorme, sono proibiti gli assembramenti di persone e annullate la maggior parte delle attività, si adottano misure draconiane per ridurre al minimo il contatto fisico tra le persone, determinando un brutale arresto del normale funzionamento della società, in maniera del tutto imprevedibile e inimmaginabile fino ad appena due mesi fa.

    Tutto questo è motivato dall’esigenza di contenere un’epidemia, quella del COVID-19 causata dal nuovo coronavirus SARS-CoV2, che si diffonde con rapidità a livello globale e mette in difficoltà anche i sistemi sanitari più preparati ed efficienti, così le varie misure adottate mirano a ridurre la probabilità di contagio per arginare il rischio di sovraccarico degli ospedali, limitando il numero di morti in attesa di un vaccino.

    Questo scenario dettato da un’innegabile emergenza sanitaria, saranno d’accordo in molti, è ai limiti dell’apocalittico e tale natura si riscontra anche nei suoi aspetti sociali, fosse anche solo per il fatto che centinaia di milioni di persone sono in questo momento rinchiuse in casa senza una prospettiva certa riguardo all’immediato futuro, controllate nelle loro attività, i loro spostamenti e le loro vite, e le loro libertà sono limitatissime. La quarantena e lo stato di emergenza imposte dalle autorità (e comprensibilmente accettate dalla stragrande maggioranza della popolazione) sta mettendo in luce conflitti e contraddizioni e producendo effetti molteplici (già egregiamente descritti altrove) con conseguenze che stanno solo cominciando ad emergere ma che si prospettano profonde e probabilmente durature.

    Foto di Alberto Pizzoli, AFP.
    Foto di Alberto Pizzoli, AFP.

    Facciamo ora un esperimento mentale. Immaginiamo che le stesse misure fossero prese nell’ambito della lotta al cambiamento climatico, anch’essa un’emergenza di cui sarebbe da criminali irresponsabili rinviare ulteriormente la risoluzione. Di fronte al rischio (o alla certezza) di una catastrofe planetaria dovuta, tra le altre cose, alle emissioni di gas serra, gli Stati potrebbero prendere severi provvedimenti per sanzionare qualsiasi spostamento ingiustificato e qualsiasi attività all’origine di emissioni: interi paesi sarebbero bloccati in una quarantena animata dalle migliori intenzioni, in attesa di un calo dell’inquinamento e un rientro dei livelli di gas serra a valori compatibili con gli equilibri ecologici globali.

    Così, in nome della Transizione Ecologica, lo Stato stilerebbe una lista di buone norme che tutti sarebbero tenuti a rispettare: i bravi cittadini con encomiabile sensibilità ecologica denuncerebbero chi prende un treno per andare a trovare un amico, chi l’automobile per andare in montagna o, peggio ancora, l’aereo per far visita al figlio che vive lontano. Se vi viene difficile immaginare situazioni del genere, provate a pensare se vi sarebbe venuto facile, qualche settimana fa, immaginare persone normalissime e sane di mente impegnate nella delazione di concittadini impegnati a passeggiare in spiaggia, a correre al parco o a prendere in prestito un libro da un conoscente.

    Qualcuno farà notare che la situazione di emergenza climatica non è comparabile con l’epidemia, perché nel particolare caso dell’epidemia ciascuno, mosso dalla paura per la propria incolumità, accetta misure che non considererebbe accettabili in altre condizioni, o, per dirla con Benasayag, “un’epidemia è il sogno del tiranno: tutti diventano obbedienti per propria volontà”. Si potrebbe obiettare dunque che la popolazione non accetterebbe mai misure tanto drastiche in assenza di motivi estremi come il rischio sostanziale per la propria salute, ma questa osservazione non prende in considerazione la possibilità che le misure adottate per far fronte all’emergenza sanitaria non siano tutte necessariamente giustificabili in termini sanitari (qui, qui, qui e qui qualche spunto di riflessione in merito). La facilità con cui la gente sta confondendo la reale tutela della salute e ciò che è decretato in suo nome è allarmante: cosa succederebbe se, una volta visto che tali misure sono possibili e che sono tollerate, si decidesse di attuarle per altri motivi?

    La popolazione sta dimostrando obbedienza alle regole. Certo lo fa credendo, molto spesso non a torto, di proteggere la salute propria e altrui. Ma sebbene molti dei comportamenti dettati dall’attenzione per le regole si sovrappongano parzialmente a quelli dettati dall’attenzione per la salute, le due cose non coincidono: non tutte le misure di controllo sono misure di sicurezza, e non tutte le misure di sicurezza sono misure di controllo. In questo caso è complicato separare i due aspetti, perché la legge è giustificata dalla tutela della salute… ma ciò significa che qualunque misura fosse motivata da obiettivi moralmente accettabili non troverebbe grandi ostacoli: dipende molto da come si costruisce la narrazione delle misure e degli obiettivi, da che linguaggio si usa per giustificarla, dalla cornice del discorso in cui viene inquadrata.

    Come società, stiamo già tollerando l’imposizione di norme che non hanno sostanziale legame con l’obiettivo in nome del quale sono prese, ma per le quali tale legame è socialmente costruito a livello del discorso politico. La popolazione sta già accettando, qui ed ora, misure di controllo che non hanno a che vedere con la reale tutela della salute, e che però sono decretate in suo nome. Tali norme non hanno necessariamente una giustificazione in termini di salute, ma si accettano perché si crede che la abbiano. E qualcos’altro si può raccontare in modo da far credere allo stesso modo. Come ogni credenza che si rispetti, l’arsenale di norme attuali è accompagnato a livello collettivo dall’elaborazione di rituali e linguaggi comuni, e sta in questi giorni prendendo forma una sorta di mitologia, atta a razionalizzare un nuovo tempo collettivo scandito dagli sviluppi dell’epidemia: numeri sui contagi e i decessi nel mondo completamente decontestualizzati ma sciorinati e aggiornati minuto per minuto, su tutti gli schermi indicazioni che collocano la registrazione dei programmi prima o dopo l’entrata in vigore dello stato di crisi, avvisi che ricordano le regole per essere considerati cittadini modello, ingresso del discorso epidemico praticamente in ogni argomento possibile e immaginabile. Tutto ciò plasma le forme di vita all’interno dello stato di crisi, norma i comportamenti e definisce nuove relazioni spaziali e temporali tra le persone, concepite puntualmente come necessarie, senza accettare critiche di alcuna sorta.

    Un esempio valga per tutti: si sta vietando, o scoraggiando, di “uscire di casa” con l’obiettivo di ridurre i contatti tra le persone e limitare così il contagio, ma quest’obiettivo di natura sanitaria è rapidamente messo da parte e sostituito nella prassi dall’accanimento contro chiunque esca di casa, a prescindere dal rischio che ciò potrebbe costituire. Così, benché uscire di casa non significhi necessariamente assembrarsi e avere contatti che mettono a rischio la salute propria e altrui, e benché, dunque, si possa benissimo essere responsabili pure uscendo di casa, siccome l’autorità ha deciso di raccontare la questione dicendo che “uscire di casa” mette a rischio la salute di tutti, allora non si distinguono più le cose e non si vede l’ora di denunciare comportamenti innocui. Questo è possibile perché il discorso politico che è stato costruito sulla necessità di restare a casa fa saltare l’obiettivo sanitario, e lo utilizza per legittimarsi.

    Torniamo quindi allo scenario immaginario in cui, per far fronte a un’emergenza di portata planetaria e che mette a repentaglio la salute dell’ecosistema e dunque di tutti, il potere usi la forza coercitiva per il controllo e la sorveglianza, riduca gli spostamenti al minimo e imponga la chiusura di ogni attività non essenziale. Se continuate ad avere difficoltà ad immaginare una situazione del genere, potrebbe esservi sfuggito che queste misure, adottate già in molti paesi, hanno sortito effetti sorprendenti dal punto di vista delle emissioni di gas serra e dell’inquinamento atmosferico, laddove questi parametri siano stati registrati e analizzati, e non deve stupire che già diversi giornali abbiano indirettamente ventilato se non direttamente alimentato questa ipotesi, e si tratta di giornali di squisitissima tradizione liberale.

    Immaginiamo allora sia questa la soluzione proposta dalle autorità per ridurre l’impatto sul clima: uno stato di polizia in nome della lotta all’inquinamento. La proposta non sarebbe campata completamente per aria, giacché l’inquinamento è già adesso responsabile di milioni di morti all’anno, e l’emergenza sanitaria è reale quanto quella del COVID-19. Se oggi la maggioranza delle persone non percepisce ancora l’inquinamento come una minaccia concreta e materiale alla propria incolumità, è perché il problema è affrontato da più parti come un rischio astratto, e la percezione del rischio non è mai totalmente razionale ma contiene sempre una componente di irrazionalità che può essere socialmente costruita (qui il principio è spiegato in merito al COVID-19 ma è di validità generale). Se, per qualche ragione, si smettesse di avere interesse nel minimizzare i rischi dovuti all’inquinamento e cominciassero campagne martellanti e ansiogene sulla sua pericolosità, la popolazione sarebbe propensa ad accettare l’iniziativa autoritaria e coercitiva di un eventuale potere protettore. Come già detto: molto dipende dalla narrazione che si costruisce e dal linguaggio che si usa nella gestione del problema.

    chinacorona
    In Cina è stata osservata una riduzione fino al 30% delle emissioni di biossido di azoto, a causa del crollo nei consumi di carbone e petrolio nelle prime settimane del 2020 (dati NASA).

    La legittimazione di uno scenario simile è in effetti cominciata: nel mondo dell’economia sta circolando l’idea che la crisi sanitaria, con le sue conseguenze economiche ed ecologiche, potrebbe essere un passo decisivo per l’affermazione di un nuovo modello economico “meno inquinante”. In risposta all’epidemia si sospende ogni attività non strettamente necessaria, si annullano fiere, conferenze, concerti, manifestazioni, eventi collettivi di ogni tipo, si intensificano abnormemente controllo sociale e sorveglianza, si crea una condizione di panico e paranoia che allenta la solidarietà e si dice: “Vedete? Fa bene all’ambiente!” ed ecco finalmente trovata una via allettante (per alcuni) alla sostenibilità ecologica.

    Esiste poi una correlazione interessante (inizialmente proposta, ma non studiata scientificamente) tra la qualità dell’aria e la mortalità associata alla malattia: sia in Italia che in Cina, le regioni più colpite sembrano corrispondere alle aree geografiche con inquinamento atmosferico più elevato, rappresentato da alti livelli di particolato PM10. Ad oggi, l’effetto dell’inquinamento sulla suscettibilità alla malattia non è stato analizzato, ma un primo studio scientifico in materia ha riportato una correlazione tra i livelli di particolato atmosferico PM10 e il tasso di contagi: gli autori della ricerca ipotizzano che il particolato faccia da vettore del contagio. Questi dati stabiliscono un legame tra l’epidemia di COVID-19 e l’inquinamento. Se l’ipotesi di una suscettibilità maggiore nelle zone più inquinate si dovesse rivelare fondata, il legame tra malattia, inquinamento e cambiamento climatico uscirebbe ulteriormente rafforzato nel discorso pubblico, e definirebbe una cornice del discorso più ampia.

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    Confronto tra i livelli di biossido di azoto registrati a metà febbraio e quelli registrati a metà marzo, due settimane dopo l’istituzione della zona rossa in Nord Italia, poi estesa a tutta la penisola (dati ESA).

    Un salto dal virus al clima

    Non è del tutto sorprendente che il cambiamento climatico compaia in un discorso formulato partendo da riflessioni su un’epidemia: entrambi i fenomeni, il cambiamento climatico e l’epidemia virale, hanno a che fare con il rapporto tra la specie umana e l’ambiente naturale, il presunto dominio che la prima avrebbe sul secondo, e derivano dal fallimento di tale dominio con conseguente perdita di controllo. Ma la somiglianza tra i due fenomeni non è solo concettuale, indotta dal paragone che viene proposto: il loro legame è più profondo, prettamente materiale, e affonda le sue radici nella biologia e nell’ecologia.

    Le zoonosi sono malattie che si trasmettono dall’animale all’uomo tramite un evento detto spillover o salto di specie. Non si tratta di un fenomeno insolito: si stima che questo meccanismo sia stato all’origine di circa due terzi dei virus in circolazione nelle popolazioni umane, attualmente o in passato.
    Tuttavia, negli ultimi trent’anni, la frequenza di nuove zoonosi emergenti è aumentata, e tra le cause ci sono anche lo stravolgimento diretto operato dall’uomo sugli ambienti e la crisi climatica. Per esempio, temperature più alte o una loro distribuzione anomala può favorire il ciclo vitale di animali che trasmettono le zoonosi all’uomo, come zanzare, zecche e probabilmente molti altri animali vettori inconsapevoli. O ancora, i processi di deforestazione e urbanizzazione, riducendo lo spazio vitale delle specie selvatiche, le spingono a contatti più ravvicinati con l’uomo. E così via, esiste una lunga serie di squilibri ecologici causati o favoriti dalle attività umane che possono contribuire alla diffusione involontaria di nuove malattie (come spiegato molto chiaramente qui e qui).

    Da parecchio tempo è già noto il rischio che il cambiamento climatico, comportando lo scioglimento delle calotte polari, scongeli agenti patogeni rimasti incastonati e surgelati nel ghiaccio per decine di migliaia di anni e a cui la nostra specie, come molte altre, non è mai stata esposta. Tali agenti patogeni potrebbero essere associati ad una mortalità molto elevata, per mancanza di immunità specifica.

    Alla luce di tutto ciò, tornando ancora una volta al nostro scenario ipotetico, allargandosi la portata del problema si allargherebbe anche la quantità e la natura dei motivi validi per misure di emergenza coercitive per la popolazione.

    Dopo il trauma collettivo che la popolazione mondiale sta vivendo a causa della pandemia, non sarebbe difficile far accettare, preventivamente e più o meno stabilmente, misure di contenimento di malattie contagiose ed associate a un alto potenziale epidemico non ancora in circolazione ma che potrebbero esserlo da un momento all’altro a causa degli effetti nefasti che le attività umane hanno sulla natura. Considerato poi che il COVID-19 potrebbe diventare una malattia stagionale, misure di tipo simile potrebbero continuare ad esser prese per evitare che l’inquinamento peggiori la situazione ogni volta che il rischio epidemico si ripresenti.

    Una volta stabilito un legame tra epidemia e cambiamento climatico (che è reale e scientificamente vero), si legittimerebbe quello tra emergenza sanitaria ed emergenza climatica (che è costruito politicamente), che potrebbero essere raccontate più agevolmente come facce della stessa crisi, da gestire con misure simili. Si assisterebbe così all’affermazione di un linguaggio codificato per affrontare una comune emergenza planetaria, nel nome dell’interesse di tutti.

    Un incendio ad Altamira, nello stato brasiliano di Par
    Un incendio ad Altamira, nello stato brasiliano di Pará. Nel 2019 sono stati registrati 74 000 incendi nella foresta amazzonica, corrispondenti a un aumento di oltre l’80% rispetto al 2018. All’aumento degli incendi contribuiscono significativamente le attività umane, in maniera diretta o indiretta.

    Si potrebbe obiettare che da provvedimenti del genere deriverebbero ingenti perdite economiche, che nessun governante potrebbe permettersi di vedere associate al proprio nome e che nessuna potenza economica potrebbe sopportare a lungo, come ovvio e come mostrato dalle enormi difficoltà economiche e finanziarie che il mondo intero sta affrontando in questo momento. Ciò è vero, ma solo se diamo per scontato che il potere e l’economia continuino a funzionare a tutela degli interessi degli stessi gruppi di potere, senza sconvolgimenti radicali negli attuali assetti che reggono il sistema economico. Non è impossibile immaginare un periodo di transizione (già, ancora quella parola…) in cui nascono nuovi poteri e se ne rafforzano alcuni già esistenti, con l’affermazione capillare di nuovi strumenti estrattivi basati sulla tecnologia del controllo e della sorveglianza, generando uno scenario in cui la produzione materiale cessa definitivamente di essere fulcro del sistema economico e comincia ad esserlo la sorveglianza, in modo da rendere sostenibile un modello differente, magari basato su produzione e distribuzione robotizzate per limitare al massimo il numero delle persone coinvolte e il contatto fisico tra di esse. Se è vero che tutto questo sembra fantascienza, è anche vero che fino al 9 marzo ci sarebbe sembrato fantascienza il 10 marzo. Difficile da immaginare adesso, ma non impossibile. Giganti come Google e Amazon (altre info qui, qui e qui) o servizi online di consegna di cibo a domicilio stanno già traendo profitto dall’attuale situazione di stallo di gran parte della produzione industriale non socialmente indispensabile, e un perdurare di queste misure darebbe loro un potere enorme, molto più grande di quello che già hanno, ridefinendo così gli assetti del potere economico nel capitalismo globale.

    Il pericolo di una continuità tra crisi sanitaria e crisi economica

    Il cambiamento climatico non è l’unica cornice in cui sarebbe possibile giustificare il prolungamento indeterminato e la normalizzazione dello stato di cose attuale. Come già accennato, diversi economisti hanno già cominciato a parlare dell’emergenza sanitaria come di uno spartiacque che segna il possibile inizio di un nuovo modello economico. Nel frattempo, però, incombe la crisi: la sospensione della normale vita economica messa in atto in risposta alla crisi sanitaria avrà infatti conseguenze disastrose e potrebbe provocare, accelerare o approfondire una recessione economica mondiale che si prevedeva comunque già da anni, di proporzioni maggiori di quella del 2008.

    Il ruolo cardine della Cina nelle relazioni di interdipendenza che connettono i centri dell’economia globale sta mostrando tutta la sua cruciale importanza dopo la dichiarazione dello stato di crisi e l’arresto della produzione, della distribuzione, degli spostamenti e dunque sia delle importazioni che delle esportazioni.

    Secondo il Financial Times, gli effetti economici della crisi sanitaria in Italia starebbero addirittura mettendo a rischio la tenuta dell’eurozona.

    Di fronte a queste prospettive, passata la crisi sanitaria i governi e le istituzioni di governance saranno chiamati a prevenire o attutire i danni economici. Il rischio è che si verifichi, come sta già parzialmente avvenendo, che la crisi economica venga raccontata come una crisi all’interno di quella sanitaria (nonostante sia piuttosto vero il contrario, alla luce di quanto detto sopra): ventilare una continuità tra l’attuale crisi sanitaria e la prossima crisi economica senza inquadrare veramente la prima all’interno della seconda e la seconda all’interno della questione ecologica è la premessa per il mantenimento, almeno in parte, delle misure messe in atto nell’ambito della crisi sanitaria. Se il sistema tenterà di socializzare le perdite e di privatizzare eventuali profitti, come c’è da aspettarsi, si assisterà a politiche di austerità draconiane senza precedenti. Con, in più, la sospensione a tempo indeterminato del diritto di sciopero, di tutte le manifestazioni e gli assembramenti, la messa ai domiciliari praticamente di tutta la popolazione, il controllo di ogni spostamento e la sorveglianza generalizzata in nome di norme di prevenzione sanitaria. La paura dell’epidemia (che, va ripetuto, è un rischio reale) continuerà ad essere agitata minacciosamente per molto tempo, e non senza fondamento giacché il sistema economico crea continuamente le condizioni per la sua nascita, propagazione e articolazione a vari livelli: ciò costituisce il preludio dell’ecofascismo.

    Scattata a Wuhan il 25 gennaio 2020. Foto: AFP.
    Foto scattata a Wuhan il 25 gennaio 2020. AFP.

    Prima di concludere, occorre fare una precisazione: di certo nessuno dotato di senno potrebbe pensare adesso che lo stato attuale, adottato in via del tutto eccezionale e in una situazione di emergenza, possa essere prolungato tale e quale più di tanto né diventare una condizione di normalità, ma le crisi aprono sempre delle possibilità non immaginabili nel paradigma precedente e in questo spazio di possibilità si possono produrre nuove prassi, regole, forme di vita che poi restano anche a crisi finita. Come dice Agamben, che peccando di eccessiva leggerezza e scarsa precisione scientifica è stato fortemente criticato per altre sue uscite precedenti a questa, “così come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare”.

    Può anche darsi che queste considerazioni siano esagerate e dettate da eccessiva paranoia, ma se lo sono è per controbilanciare la narrazione velleitariamente scientista e sostanzialmente totalitaria dell’epidemia, che vorrebbe dare tutto in gestione ai tecnici e che non tollera la messa in questione di alcuna decisione (viene in mente niente?). L’importanza dell’attuale emergenza sanitaria è reale, la forma che questa importanza assume e il modo in cui essa si articola nella società sono costruite e determinate dai rapporti sociali e da scelte politiche.

    In molti hanno salutato (sicuramente controvoglia e non certo col sorriso, ma si deve pur fare buon viso a cattivo gioco) queste settimane di quarantena come un’occasione per fermarsi a riflettere e interrogarsi sulla vita che conduciamo, in quello che è stato definito “il più grande esperimento sociale nella storia”.

    Bene, è riflettendo all’interno di questo esperimento sociale che è nato l’esperimento mentale qui condotto. Si tratta quindi di un esperimento mentale che prende le mosse dalla realtà delle misure prese, e che permette di immaginare la possibilità dell’ecofascismo: un potere autoritario che tragga la propria forza dalla necessità di far fronte agli squilibri ecologici (ma che di tali squilibri avrebbe incessante bisogno). La crisi da COVID-19 mostra quali forme potrebbe assumere un siffatto potere e si configura come precedente per l’affermazione di una prassi collaudata per affrontare emergenze planetarie: oggi è il COVID-19, domani potrebbe essere altro. In questo colossale esperimento sociale, si sta mostrando come la popolazione si comporta in determinate condizioni. Posta dinnanzi a condizioni simili o raccontate in maniera simile, la reazione potrebbe essere simile.

  • La fine del collasso

    Propongo un’ultima carrellata di considerazioni tratte dal saggio di Jared Diamond intitolato Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, che recentemente mi ha fornito abbastanza materiale da scriverci su diversi articoli: un discorso sui beni comuni che ha dato vita ad un dibattito sulla loro gestione, un altro sull’ambientalismo e, di riflesso, sulla teoria della decrescita; una riflessione sull’insegnamento che può esserci dato dalla storia dell’isola di Pasqua e di come i suoi abitanti finirono col distruggerne le risorse provocando la fine della prospera civiltà, un’altra sulla fine dei norvegesi in Groenlandia accompagnata da una serie di parallelismi con i tempi moderni; il tutto non senza suscitare qualche perplessità.

    Prima di tutto, al capitolo “Business e ambiente”, in cui si cerca di spiegare che la cura dell’ambiente produce non solo benessere ma anche vantaggi economici a lungo termine, ci sono esempi di grandi imprese che adottano, in merito al rispetto dell’ambiente, comportamenti virtuosi e altre che ne adottano di disastrosi. Lasciando da parte la diatriba già nota dell’inconsistenza del frame che contrappone capitalisti buoni da capitalisti cattivi, propongo piuttosto una storia tra tante.

    «In Asia sudorientale e nelle isole del Pacifico, l’industria del legno è prevalentemente nelle mani di multinazionali: […] operano comprando dai governi il diritto di taglio su foreste appartenenti alla gente del luogo, esportano i tronchi grezzi e non ripiantano gli alberi abbattuti. […] Spesso avviene che le multinazionali ottengano i contratti offrendo bustarelle ai funzionari governativi, e poi passano a costruire strade e a tagliare alberi ben oltre i limiti dell’area effettivamente presa in affitto. In altri casi, le aziende inviano semplicemente una nave cargo, stipulano accordi veloci con le comunità locali, portano via tutto il legno che riescono ad arraffare e fanno così a meno del permesso governativo. […] Il permesso delle comunità locali si ottiene corrompendo i capivillaggio. […] Spesso fanno promesse che non saranno mantenute, come quella di ripiantare la foresta e di costruire ospedali. In alcuni casi ben noti, avvenuti nel Borneo, sulle isole Salomone e in altri paesi, quando le multinazionali sono arrivate sul posto con un permesso del governo centrale e hanno incominciato ad abbattere gli alberi, la gente locale, resasi conto che ci avrebbe rimesso, ha cercato di far cessare il taglio bloccando le vie d’accesso o incendiando le segherie; a quel punto, le imprese sono ricorse alla polizia o all’esercito per far rispettare i loro diritti. Gli oppositori vengono anche minacciati di morte».

    Mi rendo conto che questo breve resoconto non aggiunge nulla di nuovo a storie che già si conoscono (come quella di Ken Saro Wiwa, resa celebre dal brano del Teatro degli orrori, di cui ho parlato in questo articolo), ma ho voluto riportarlo per ricordare che queste pratiche non sono esattamente un’eccezione nel panorama del commercio e della finanza internazionale.
    [youtube http://www.youtube.com/watch?v=sIn3Z54fi5Q]

    La seconda considerazione è un avvertimento che invita a diffidare dei comportamenti virtuosi sbandierati fin troppo facilmente da tante grandi imprese di produzione e distribuzione. Tanto per dirne una, esiste una organizzazione internazionale (FSC) senza scopo di lucro, imparziale e indipendente, che ha lo scopo di stabilire i criteri per definire una strategia di gestione forestale corretta e di valutare se una determinata azienda si conformi a tali criteri, azienda che in tal caso riceve un certificato di conformità. Dopo la nascita, nel 1993, di questa certificazione, sono nate tantissime organizzazioni di controllo che rilasciano simili “bollini verdi”: la loro indipendenza e imparzialità, però, non è altrettanto assicurata. Infatti, non richiedono che la certificazione sia effettuata da terzi, ma permettono alle imprese di autocertificarsi; gli standard non sono esattamente quantificabili, ma molto più vaghi e aleatori; infine non è prevista alcuna certificazione della filiera, con il risultato che se una segheria certificata acquista prodotti non certificati questi diventano ufficilmente certificati. Insomma non tutti i bollini hanno lo stesso valore (ne approfitto per ricordarvi un articolo di Precaria Guerrilla).

    L’ultima considerazione, che ho scelto non a caso, è tratta dal capitolo “Perché i popoli fanno scelte sbagliate?”. Si tratta del pensiero di gruppo, definito (fonte Wikipedia) come «sistema di pensiero esibito dai membri di un gruppo sociale per minimizzare i conflitti e raggiungere il consenso senza una messa a punto, analisi e valutazione critica delle idee». L’esempio maggiormente studiato è quello della gestione da parte del presidente Kennedy e del suo staff della questione della Baia dei Porci, che si rivelò con conseguenze disastrose e dunque una scelta sbagliata. Secondo gli studi sociologici in merito, generalmente le caratteristiche di una deliberazione che porta a prendere scelte sbagliate sono una sensazione prematura di apparente unanimità, la repressione di dubbi personali, la mancata espressione di punti di vista contrari, un leader che conduce la discussione tendendo a minimizzare il disaccordo.

    Mi domando se lo stesso discorso può applicarsi anche ai governi tecnici.

  • Il pelo nell’uovo

    Come dice Nello, «Diamond è come il maiale, di lui non si butta niente».
    Nonostante questa caratteristica, che deriva dalla scientificità e dalla quantità di informazioni fornite dalla lettura dei suoi libri, mi è capitato di trovare tra le righe affermazioni poco scientifiche e più ideologiche, che ho ricondotto (per esempio nella prima parte di questo articolo) all’adesione “conformista” a frame di interpretazione e di comunicazione (ovvero del linguaggio): per esempio quando, senza motivarlo adeguatamente, ritiene il capitalismo un passo avanti nello sviluppo delle società umane. Questo non toglie valore ai contenuti di saggi come Armi, acciaio e malattie (1997) e Collasso (2004), ma dovrebbe mettere in guardia chiunque dal comprensibile e frequente fenomeno per cui si condividono le parole del Maestro acriticamente: l’ipse dixit è stato uno dei memi culturali che più hanno ostacolato lo sviluppo del pensiero scientifico nella storia.

    Vorrei riportare, tanto per la cronaca, un’altra posizione dettata dalla velleitaria ricerca dell’imparzialità che si rivela però solo apparente, in quanto ideologica: nel capitolo XIII sull’Australia, Diamond parla degli effetti deleteri dello sfruttamento agricolo di un territorio ecologicamente fragile come il continente in questione, che comprendono in particolare la salinizzazione, un esempio di degrado ambientale la cui gravità, anche in caso di recupero, può permanere per diversi secoli, e la deforestazione, che in Australia interessa soprattutto le specie vegetali autoctone.
    Secondo Diamond,

    c’è da dire che il paese possiede un buon livello d’istruzione, un benessere elevato e istituzioni politiche ed economiche sane, relativamente agli standard mondiali. Per questo, i problemi australiani non possono essere spiegati come il frutto di cattiva gestione ambientale, di una società incolta e disperatamente povera, e di un establishment corrotto e incapace, come potrebbe forse dirsi in altri casi.

    Tuttavia, andando avanti nella lettura, si approfondisce la questione della deforestazione ed emerge che

    l’incessante abbattimento delle foreste antiche sta causando un acceso dibattito. I due maggiori partiti politici australiani, a livello sia statale sia federale, appoggiano il disboscamento. Nel 1995 il National Party ha annunciato il suo sostegno all’industria del legno in Tasmania, e poco dopo si è venuto a sapere che i tre maggiori donatori di fondi al partito erano tre società del settore.

    Considerando che questo è solo un esempio dei tanti che è possibile fare e che sono documentati in innumerevoli siti internet, saggi (questo compreso) e organi di informazione, direi che sì, i problemi ambientali dei paesi con «un buon livello d’istruzione e benessere elevato» in tantissimi casi sono determinati proprio da una cattiva gestione e da un establishment corrotto, che mette i beni comuni a disposizione degli interessi di pochi e che permette il controllo delle “istituzioni democratiche” da parte di gruppi di potere. Questa non è meno corruzione di quella del Ruanda o di Haiti.
    P.S. Sì, sono polemico e cerco il pelo nell’uovo. Buona lettura!

  • Quanto manca a Pasqua?

    Si resta affascinati ogni volta che si pensa a come l’isola di Pasqua fu colonizzata dai primi uomini che la videro, più di mille anni fa, a come riuscirono a vivere in completo isolamento, nel posto più sperduto dal mondo (migliaia di chilometri di oceano Pacifico in ogni direzione) per poi spegnersi improvvisamente lasciando ai posteri statue monumentali e altre prove di una ben più viva e florida civiltà, con la sua complessità sociale e politica.
    Mi era successo con Armi, acciaio e malattie, mi succede ancora con Collasso: ogni volta che Jared Diamond parla dei Polinesiani, della loro conquista dell’oceano a bordo di canoe, della loro capacità di adattarsi ai più vari ambienti e con le più diverse risorse, lascia stupefatti e fa innamorare di quei popoli.

    Quando i primi coloni giunsero sull’isola e attraccarono alla baia di Anakena, primo luogo di insediamento umano, trovarono un’isola già abitata da molte specie animali (in particolare uccelli) e vegetali che da tempo immemore la occupavano: una fitta vegetazione arborea, composta soprattutto di palme giganti, ricopriva la superficie ondulata e i rilievi testimoni dell’origine vulcanica dell’isola, formata a suo tempo dall’eruzione di ben tre vulcani adiacenti.

    Questa ricca flora locale, unita alla meno ricca fauna autoctona che fu comunque integrata con il pollame che i coloni avevano portato con sé in canoa, permise agli abitanti dell’isola di sviluppare una civiltà altrettanto ricca: con le foglie degli alberi, il legno, le radici delle piante, la coltivazione delle aree adatte, la pesca, la caccia degli uccelli e la raccolta delle uova, l’estrazione di pietra dalle cave lasciate dagli antichi vulcani, questo popolo si potè procurare tutto ciò di cui avesse bisogno: cibo, strumenti, riparo.

    In aggiunta alla soddisfazione di questi bisogni materiali, gli isolani onorarono gli antenati con la costruzione dei famosi moai, i misteriosi volti in pietra scolpita, alti fino a 10 metri e pesanti decine di tonnellate: erano modellati sul luogo di estrazione della roccia, poi trasportati nelle varie zone dell’isola, infine innalzati in posizione verticale, su enormi piattaforme in pietra, con lo sguardo rivolto verso l’entroterra.

    Come tante altre rovine testimoni di civiltà passate, i moai sono impressionanti soprattutto per le domande che di fronte ad esse si pone l’uomo moderno: quali sistemi dovettero utilizzare i loro costruttori per innalzarle senza macchine, con la sola forza delle braccia? quale megalomania dovette prendere l’animo degli scultori o di chi li commissionava, portando nel tempo alla costruzione di statue sempre più alte e pesanti? perché all’arrivo, nel corso del Settecento, degli esploratori europei, le statue furono trovate tutte cadute per terra, molte delle quali spezzate?

    Gli storici di vario genere (quindi anche biologi e geografi, non solo archeologi e paleografi) hanno delle buone risposte a questo tipo di domande. Per una trattazione completa e interessante consiglio vivamente il II capitolo di Collasso, Jared Diamond, 2005.

    Le statue erano innalzate sfruttando una tecnica che i discendenti degli isolani hanno raccontato volentieri quando finalmente qualcuno si è degnato di chiederglielo. Questa tecnica richiedeva l’utilizzo di molto legno, per costruire binari, funi e leve; inoltre richiedeva, ovviamente, la forza muscolare di centinaia di persone. Indirettamente, quindi, le risorse necessarie a questo lavoro erano la roccia delle cave per le statue e le piattaforme, le colture per sfamare chi lavorava senza poter produrre (era, in pratica, un impegno a tempo pieno), il legno degli alberi per cucinare il cibo e costruire gli attrezzi necessari. La necessità di un aumento demografico era soddisfatta allargando le colture ed estendendole ai terreni meno adatti.

    Tutte queste attività, cioè deforestazione, coltivazione, caccia, pesca, provocarono una serie di conseguenze gravi per l’ambiente dell’isola di Pasqua: la maggior parte delle specie autoctone di uccelli si estinse, i terreni cominciarono a essere poco produttivi, il legno iniziò a scarseggiare. Senza alberi, non si potè più pescare perchè le canoe non furono ricostruite; la terra fu dilavata dalle piogge, in quanto non più protetta dal fogliame, e divenne ancor meno produttiva; le statue non furono più costruite; come combustibile si iniziò ad usare l’erba secca, anche se poco efficace. La produzione alimentare non poteva più sostenere la popolazione che era cresciuta in un periodo di intenso sfruttamento del terreno: molti isolani morirono di fame perché il cibo non bastava per tutti, ma questo accadde non prima di una sanguinosa guerra civile, durante la quale, presumibilmente, furono abbattute le statue innalzate dai gruppi ora avversari. I superstiti si diedero al cannibalismo per poter sopravvivere. Non potevano salpare verso nuove isole, perché non c’era più il legno per le imbarcazioni.

    «Mi sono spesso domandato cosa pensasse l’abitante dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero di palma. Forse gridava: «Non alberi, ma posti di lavoro»? Oppure: «La tecnologia risolverà tutti i nostri problemi! Non temete, inventeremo un materiale sostitutivo per il legno»; o magari: «È possibile che ci siano altre palme nelle zone inesplorate dell’isola di Pasqua. Si rendono necessarie ulteriori ricerche, perciò il divieto di abbattere gli alberi è prematuro e sparge solo il panico tra la popolazione». […]
    L’isolamento di Pasqua spiega, probabilmente, perché il crollo di questa società ossessioni i miei lettori e i miei studenti. I paralleli che si possono tracciare tra l’isola di Pasqua e il mondo moderno sono così ovvi da apparirci agghiaccianti. Grazie alla globalizzazione, al commercio internazionale, agli aerei a reazione e a Internet, tutti i paesi della Terra condividono, oggi, le loro risorse e interagiscono, proprio come i dodici clan dell’isola di Pasqua, sperduti nell’immenso Pacifico come la Terra è sperduta nello spazio. Quando gli indigeni si trovarono in difficoltà, non poterono fuggire né cercare aiuto al di fuori dell’isola, come non potremmo noi, abitanti della Terra, cercare soccorso altrove, se i problemi dovessero aumentare».

  • Aiutiamo il vicino

    Se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo.

    Zygmunt Bauman in un’intervista del 07/08/2011

    Questo è l’esempio che ho citato in assemblea di facoltà ieri mattina per spiegare come sia illusoria la corrispondenza tra crescita economica e benessere e rispondere a chi sosteneva la necessità di stare con i piedi per terra ed evitare di rivendicare un aumento del benessere piuttosto che la ripresa economica.

    Innanzitutto vorrei farvi notare che questa pretesa di mantenere i piedi per terra è del tutto ideologica, perchè sperare che il mondo possa cambiare non è meno utopico che credere che le risorse di un mondo finito possano durare per sempre a ritmi di crescita positivi.

    Sembrava, dalle parole di alcuni, che gli obiettivi del movimento debbano essere la crescita economica e l’aumento del PIL.

    All’esempio di Bauman da me citato è stato ribattuto, a prima vista ragionevolmente, con l’osservazione che, se invece di aiutare il mio vicino a tagliare la siepe, gli regalo dei soldi perchè possa pagare un giardiniere professionista, il risultato non cambierebbe: l’aumento di benessere finale, non monetizzabile, sarebbe lo stesso, eppure l’economia crescerebbe in virtù della circolazione del denaro da me regalato al vicino e utilizzato da quest’ultimo per pagare un servizio.

    Ripensandoci, però, direi che non è esattamente così: aiutando direttamente il vicino con le proprie mani o regalandogli una certa somma di denaro si può naturalmente raggiungere lo stesso risultato materiale (la potatura della sua siepe) ma questo modo di ragionare non tiene conto del processo utilizzato per raggiungere suddetto risultato; e spesso è il processo ad essere determinante per il risultato meno palesemente materiale (il benessere).

    Tra i due modi di raggiungere lo stesso risultato c’è una differenza sostanziale a livello di relazioni: l’aiuto diretto attraverso le mie mani, il mio sudore, la mia capacità produce una relazione sociale che un aiuto indiretto che passa per l’intermediario monetario non produce.

    Comprendo che questo pensiero possa apparire come una ingenua e sterile demonizzazione del denaro (come anche mi è stato rinfacciato, sempre all’assemblea); in realtà il problema non sono neanche i soldi in sé. La questione è che il denaro il denaro rischia spesso di diventare, o diventa, strumento di sfruttamento e di disumanizzazione delle relazioni e causa di alienazione dalla rete di relazioni che dovrebbe essere la vita. È questo che va contrastato.

  • L’illusione del binomio liberismo-benessere

    Uno degli argomenti utilizzati più di frequente in difesa del sistema neoliberista è che garantisce il massimo benessere alla maggioranza della popolazione, infatti la nostra cultura e il nostro modello economico ci fanno star bene, qui nonostante tutto quasi tutti hanno l’indispensabile per vivere e abbiamo garantiti diritti civili il cui rispetto è impensabile in altre parti del mondo, dove pullulano teocrazie e governi formati da gerarchi e dittatori senza scrupoli.

    Quante volte si sente dire «non si sputa nel piatto da cui si mangia! Il sistema che tu critichi, intanto, ti garantisce la libertà di espressione, una certa sicurezza e una serie di diritti e comodità che nella solo  esso è in grado di dare»?

    In realtà, dall’adozione di un modello neoliberista non segue esattamente l’istaurazione e la maturazione degli Stati di diritto, quelli in cui tutti i cittadini, dal primo all’ultimo, sono uguali davanti alla legge, la libertà individuale è tutelata e l’agire dello Stato è vincolato dalle sue stesse leggi. Mettendo per un attimo da parte la constatazione che ciò, anche nei cosiddetti Stati di diritto, non sempre avviene, e che anzi in alcuni paesi (come l’Italia) la violazione di tale principio è sistematica, cerchiamo di capire che, dopo tutto, noi occidentali ce la passiamo piuttosto bene (o almeno così è stato finora) rispetto a un contadino nigeriano, brasiliano o bengalese che ogni anno deve far fronte alla siccità, alla desertificazione, al disboscamento o all’inquinamento rischiando di non avere niente da mangiare e morire di fame.

    Smontare la convinzione che il liberismo implichi benessere è facile: infatti tale implicazione nasconde un inganno, che dipende dall’illusione che il mondo finisca ai confini con l’Asia e l’Africa. Mi spiego meglio usando una semplice considerazione di natura termodinamica.

    (Potreste aspettarvi un’applicazione del secondo principio della termodinamica, considerando che la Terra è limitata ma il sistema economico teorizza la crescita; ma la mia osservazione sarà molto più banale.)

    Il binomio liberismo-benessere si potrebbe accettare se il mondo si esaurisse al confine italiano o ai confini dell’Europa: in tale ipotesi, potremmo guardarci intorno e osservare che la maggioranza delle persone ha tutto ciò che gli serve, cibo, vestiti, casa, addirittura un mezzo di trasporto, e potremmo concludere che l’attuale stato di cose è preferibile a qualunque altro, che tende all’utopia dell’uguaglianza e del benessere totale, che è vero che il nostro sistema economico fa star bene tutti. Ma non siamo soli, né possiamo dividere il mondo in due mondi, uno formato da Stati di diritto che adottano il libero mercato, l’altro da Stati dittatoriali che non lo adottano.

    Nella scienza, che parte sempre dall’osservazione, si divide l’universo in sistema e ambiente, il primo è oggetto dell’osservazione e dello studio, il secondo è tutta la parte di universo che non è sistema. L’inganno che porta alla corrispondenza tra liberismo e benessere per tutti deriva da una scelta parziale del sistema di osservazione. Infatti, piuttosto banalmente, scegliendo come sistema l’occidente (quello noto con l’odiosa espressione Primo mondo) la corrispondenza è vera: il liberismo ha portato benessere alla maggior parte delle persone. Ma, come già detto, non siamo soli e non esiste nessun primo, secondo, terzo o quarto mondo: esiste un mondo solo e dentro ci siamo tutti. Prendendo come sistema di osservazione il mondo intero, si scopre ancora più banalmente che il liberismo non porta al benessere della maggioranza, ma al benessere di una minoranza sulle spalle di una maggioranza povera e sfruttata.

    Lo stesso vale per il rispetto dei diritti umani e per la garanzia della libertà individuale: sebbene siano variabili omogenee all’interno del sistema occidente, non lo sono affatto nel sistema mondo.

    Allora ciò che deve essere chiaro è questo: che il libero mercato non crea Stati di diritto, crea Stati di diritto e Stati dittatoriali fantocci degli Stati di diritto, e a lungo andare assoggetta tutti gli Stati, di diritto e non, al mercato e al potere del capitale.

    Un esempio che valga per tutti è il caso della Nigeria, in cui da decenni multinazionali come la Shell e l’Agip sfruttano le risorse petrolifere del paese senza che i popoli locali ne traggano alcun beneficio, derubandoli della ricchezza nazionale e danneggiando i loro territori, spesso non più adatti alla coltivazione a causa dell’inquinamento legato alle raffinerie e ai pozzi. Contro un’ingiustizia e un furto di ricchezza di tale entità, oltre che per bisogni materiali di sussistenza, sono nate diverse organizzazioni (quali NDPVF, MEND, MOSOP) che intendono colpire il profitto e porre fine allo sfruttamento da parte delle multinazionali.

    Tale movimento culminò in Nigeria nel 1993, con una manifestazione di centinaia di migliaia di persone e la guida dell’attivista Ken Saro-Wiwa. Il movimento era diretto anche contro il governo militare, responsabile di scelte in materia economica che favorivano le multinazionali.

    Dietro pressioni della Shell, ormai accertate, Ken Saro-Wiwa e altri attivisti furono incastrati con un’accusa di omicidio basata su false testimonianze, incriminati e impiccati il 10 novembre 1995, dopo un processo di dubbia regolarità che attrasse l’attenzione di molti movimenti per i diritti umani.

    Ditemi voi se questo è il rispetto dei diritti e delle libertà individuali che il liberismo dovrebbe garantire, se il liberismo ha portato benessere alla maggior parte del popolo Ogoni in Nigeria: i poveri e gli sfruttati nel mondo sono la maggioranza.

    Se posso comodamente uscire e comprare al supermercato ciò che mi serve invece di produrlo (e il processo di produzione è nascosto il più possibile e rimosso dalla coscienza collettiva dei consumatori occidentali, con il preciso obiettivo che non si facciano nessuno scrupolo a comprare; a proposito, all’inizio degli anni novanta, da un’indagine svolta a New York, risultò che la metà dei bambini era convinta che il latte fosse un prodotto industriale completamente artificiale, alla stregua della Coca-Cola o del chinotto. Lascio a voi le considerazioni.) non è perché con il liberismo tutto è più comodo per tutti, ma è solo perché qualcun altro, lontanto geograficamente da me ma unito a me dagli stessi rapporti di produzione, lavora per me come uno schiavo e fatica al posto mio.

    Se non soffro la fame non è perché il liberismo dà cibo a tutti, ma perché lo toglie ad alcuni per darlo ad altri, quando invece basterebbe per tutti.

    È per questo che, anche se non lo sai, voti ogni volta che compri. Nella società di massa del consumismo l’atto dell’acquisto è un atto importante più del voto, e se non si vuol essere complici di violazioni dei diritti umani, di guerre e omicidi, di sfruttamento, di furti e devastazione delle risorse, non restano che due possibilità, proprio come nel voto: o l’astensione, che si traduce nell’autoproduzione, o il consumo critico e consapevole, che si traduce nella riduzione dei consumi e nel boicottaggio.

    Ovviamente cercare di trarsi fuori dal problema con queste strategie non basta: non far più parte del problema non significa già far parte della soluzione, ma è un presupposto secondo me necessario.

    Probabilmente ho scritto una banalità dopo l’altra e niente che non si sapesse già, ma ho sentito l’esigenza di scriverle per ribattere a chi difende il libero mercato adducendo come giustificazione il benessere che a questo sarebbe connaturato.

    Viva la decrescita! (anche se quello della decrescita è un argomento controverso che mi lascia perplesso su alcuni punti e su cui presto scriverò qualche considerazione)