Tag: cultura

  • Le culture non esistono

    «La cultura araba non rispetta le donne», «la cultura araba è bigotta», «la cultura araba è teocratica». Sono tutte frasi che è facile sentire pronunciare e che sono sempre più comuni e socialmente accettate. Simili generalizzazioni riguardo ad altri gruppi umani sono appannaggio di una relativamente ristretta cerchia di razzisti dichiarati e militanti xenofobi, mentre opinioni dello stesso tipo rivolte agli arabi (o ai musulmani, giusto per intorbidare le acque visto che non è la stessa cosa) sono ormai non più prerogativa di pochi ma fanno parte del senso comune, di quelle verità socialmente costruite che si danno per scontate nel dibattito pubblico e nell’informazione di massa.

    Con spirito critico, intendo ragionare sulla logica fallace che sottende l’utilizzo di categorizzazioni come “cultura araba”, che possono essere efficaci nell’immediata comunicazione quotidiana ma hanno pesanti ripercussioni sul senso politico esplicito ed implicito dei discorsi che ne fanno usi poco attenti e circostanziati.

    Per parlare di categorizzazioni, iniziamo trattandone una particolare, che nel mondo contemporaneo storicamente è stata la categorizzazione per eccellenza: la razza. Il razzismo biologico come ipotesi scientifica, nonostante sia passato di moda, è duro a morire ed esistono ancora oggi suoi sostenitori nella comunità scientifica. Nella logica del metodo scientifico è legittimo chiedersi se le razze esistano e provare a dimostrarlo. Come spiegato impeccabilmente dal genetista Guido Barbujani in L’invenzione delle razze, la teoria che propone la divisione della specie umana in razze, nelle sue varie formulazioni e nelle diverse modellizzazioni che sono state proposte, è stata sottoposta ad analisi scientifica a più riprese, con tecnologie sempre più precise e sofisticate, ed è emerso che tale teoria semplicemente non funziona: non permette di produrre modelli che descrivano adeguatamente la realtà, dunque il suo valore scientifico è nullo e chiunque sostenga di poter dimostrare scientificamente il contrario lo fa in cattiva fede. Come riporta l’Enciclopedia Treccani (qui), «il concetto di razza umana è considerato destituito di validità scientifica, dacché l’antropologia fisica e l’evoluzionismo hanno dimostrato che non esistono gruppi razziali fissi o discontinui».

    Per una spiegazione esaustiva di come si è giunti a questa conclusione rimando al saggio di Barbujani, ma il principio è piuttosto semplice e si può riassumere facilmente. Per descrivere una razza, si dovrà elencare un insieme di caratteristiche condivise da tutti gli individui che la compongono e che permettano di dire con certezza di ogni individuo se è di quella razza oppure non lo è. Esiste nelle popolazioni una variabilità genetica data dalla presenza, in individui diversi, di versioni diverse dello stesso gene: tali differenze sono misurabili e si possono utilizzare per provare ad operare una categorizzazione su base genetica.

    Gli studi di genetica umana dicono che se si considerano singoli caratteri, o meglio singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. Nessun gene può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra. Le popolazioni umane sono geneticamente molto simili le une alle altre, c’è invece una grande variabilità genetica tra gli individui. La variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni, per esempio tra gli europei o gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni, tra gli italiani e gli etiopi, per esempio, sono modeste e pressocché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni. Questa differenza si può quantificare e il risultato è che, come misurato a partire dal 1970, l’85% della variabilità genetica umana è presente all’interno delle singole popolazioni, il 5% tra popolazioni del medesimo continente e il 10% tra popolazioni di diversi continenti. C’è maggiore differenza tra due italiani posti all’estremo di un profilo genetico, che non tra un italiano e un etiope posti al centro dei profili delle rispettive popolazioni. Insomma, definire le razze umane non è utile neanche al fine pratico di descrivere le differenze presenti nella specie umana. Anzi, sostiene Barbujani: «più si studiano nuovi geni, più si fa esile la speranza di trovare chiari confini fra gruppi umani a cui possiamo dare il nome di razze».

    Occorredunque tenere a mente queste tre importanti conclusioni interconnesse, che inficiano ogni fondamento del razzismo biologico:

    1. Assenza di geni assolutamente caratteristici di una particolare popolazione
    2. Grande variabilità genetica tra gli individui
    3. Variabilità interna alle popolazioni maggiore della variabilità tra le popolazioni

    Per dare un’idea più chiara ed intuitiva, se non bastassero i numeri, ricorrerò ad un banale esempio pratico. Prendiamo una popolazione qualunque, e supponiamo di voler descrivere la razza a cui appartengono gli individui di tale popolazione. Supponiamo di scegliere come primo criterio il colore dei capelli: ovviamente non è sufficiente, perché nella razza sarebbero inclusi tutti gli individui che hanno i capelli di quel colore, anche quelli che non appartengono a quella popolazione. Si deve dunque affinare la descrizione aggiungendo un’altra caratteristica, per esempio considerando la forma del naso. Non è sufficiente, perché innumerevoli individui nel mondo avranno sia i capelli di quel colore sia il naso di quella forma. Dunque è necessario affinare ancora la descrizione con altre caratteristiche, per escludere gli individui “presi nel mucchio”, cioè individui che, per come è definita la razza in questione, saranno casualmente inclusi anche se non c’entrano niente. Questi individui intrusi, qualunque sia la descrizione della razza, saranno sempre troppo numerosi, renderanno il modello inaccettabilmente poco preciso e costringeranno ad aggiungere ulteriori caratteristiche per affinare la descrizione. Finché, a un certo punto, l’elenco è talmente lungo e la descrizione talmente specifica che ad ogni caratteristica aggiunta cominciano ad essere esclusi individui che dovrebbero essere inclusi, perché insomma, si tratta di una popolazione che vogliamo descrivere come razza, ma non si può certo pretendere che gli individui che la compongono condividano veramente tutte quelle caratteristiche, neanche fossero fatti con lo stampino. Il numero di inclusi che dovrebbero essere esclusi è sempre troppo grande, il numero di esclusi che dovrebbero essere inclusi è sempre troppo piccolo. Questo rende conto della particolare configurazione della diversità umana, che si rifiuta di essere categorizzata in razze. L’unica soluzione scientifica è considerare la specie umana divisa in tante razze quanti sono gli individui.

    Tornando ora alla questione iniziale, dovrebbe esser chiaro il senso di questa lunga premessa: lo stesso identico ragionamento si può fare riguardo al concetto di cultura. Per definizione (qui) con “cultura” si intende «il complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico». Ogni società nasce dall’incontro di interessi particolari, e in una visione di sinistra (in una qualunque visione di sinistra, dato che si tratta del minimo sindacale per poter sperare di essere considerata tale, come detto qui) non può che essere vista come campo di forze in cui si articola il conflitto tra innumerevoli interessi contrapposti. Se la cultura è il complesso di tutti quei comportamenti che caratterizzano la vita di una società, è espressione di tanta diversità quanto diversi sono gli interessi e i conflitti che la percorrono, con buona pace di chi sostiene che le culture siano monolitiche peccando di ingenuità o ignorando un fatto che si può riassumere con estrema facilità: la realtà è complessa, molto complessa. In ogni gruppo umano esistono interessi contrapposti, e che non sono mai solo bianco e nero. Ci sono progressisti e conservatori, ma tra i progressisti ci sono i riformisti e i rivoluzionari e tra i conservatori ci sono i moderati e i reazionari, poi tra i reazionari ci sono gli estremisti violenti armati e i reazionari istituzionali, e tra questi quelli più aperti su alcune questioni e quelli che lo sono meno, e tra quelli aperti ce ne sono che lo fanno per motivi di convenienza politica e compromesso e altri che lo fanno per sincera convinzione personale, mentre tra i rivoluzionari ci sono quelli disposti ad allearsi con altre forze popolari e quelli intransigenti, e tra gli intransigenti quelli che vogliono far subito la rivoluzione e quelli che vogliono preparare il terreno in attesa di tempi migliori… inutile continuare; questo esempio, che pure si limita esclusivamente alle posizioni politiche che si possono assumere all’interno di una stessa società, rende conto della straordinaria varietà possibile.

    Si possono prendere in prestito gli argomenti contro il razzismo biologico, riformulandoli per mettere alla prova la convinzione che la varietà del comportamento umano in società sia effettivamente organizzata in culture ben definite (in maniera oggettiva, aldilà delle impressioni e delle autorappresentazioni).

    Il primo argomento è che la descrizione generale di una cultura difficilmente può adattarsi bene a tutti i comportamenti individuali. Come nel caso delle razze, non esiste elenco di caratteristiche culturali che funzioni per tutti, senza essere violato dall’interno di quella specifica cultura da parte di individui che staranno pure agli estremi dello spettro di convinzioni, pratiche, modelli e valori, ma che di quella cultura fanno comunque innegabilmente parte. D’altra parte, non esistono elementi di una cultura che assolutamente non esistono nelle altre culture.
    Esiste invece una grande variabilità “culturale” tra gli individui in termini di credenze, modelli e valori, e in tutte le culture è rappresentato largamente lo spettro delle possibilità, in proporzioni che dipendono dal contesto storico entro cui la cultura si articola e si esprime.

    Nel caso della “cultura araba” o musulmana, come probabilmente in tutte le culture umane esistenti ed esistite, è possibile riscontrare la validità di queste osservazioni. Se «la cultura araba è teocratica», a che cultura appartengono tutti i musulmani laici che hanno preso parte ai processi di riappropriazione democratica e alle rivolte del 2011 e che combattono oggi contro il tentativo di gruppi come Daesh di imporre un ordine teocratico? E i tanti arabi atei che lottano per il riconoscimento sostanziale della libertà di non credere? Se «la cultura araba è violenta», che dire dei milioni di arabi a cui piacerebbe vivere senza alcuna violenza, come alla maggior parte degli esseri umani sulla faccia del pianeta? Se «la cultura araba non rispetta le donne», a che cultura appartengono le sempre più rumorose femministe arabe? E gli autonomisti curdi che con l’esperimento sociale del Rojava hanno invidiabilmente costruito una sostanziale parità di genere? E a che cultura appartenevano quei paesi mediorientali in cui negli anni Sessanta non esistevano limitazioni religiose alla libertà delle donne?

    Cosa significa questo? Che si deve accettare un fatto: la varietà esiste, anche nella “cultura araba”, ed esiste sempre una complessità irriducibile a semplificazioni con l’accetta. C’è maggiore differenza tra due individui di “cultura occidentale” posti all’estremo dello spettro di credenze e valori, che non tra un individuo medio di “cultura occidentale” e un individuo medio di “cultura araba”. Per esempio, io mi sento (e spero di essere) molto più simile a un non credente di sinistra tunisino che non a un cattolico conservatore siciliano; così come mi sento molto più vicino ad un anarchico inglese che non ad un fascista italiano. Come le presunte razze, le presunte culture presentano limiti ontologici e implicano un salto logico che non è razionalmente giustificabile.

    (Il fatto che confutando chi sostiene la superiorità di alcune culture si finisca facilmente per utilizzare gli stessi argomenti adatti a confutare chi sostiene la superiorità di alcune razze dovrebbe suggerire qualcosa sulla funzione sociale e politica assunta dal razzismo culturale. Ontologicamente ed eticamente, non c’è nulla di diverso tra credere che esistano razze superiori e credere che esistano culture superiori. Se la prima opzione è meno socialmente accettabile è più per una ragione storica che intellettuale: in generale, il razzismo biologico disgusta perché innesca un meccanismo riflesso che richiama la memoria condivisa del Demonio nazista, non perché è stato dimostrato che è scientificamente infondato. Diversamente, sostenere l’inferiorità di certe culture è considerato socialmente accettabile. Per capire cosa intendo dire, provate a sostituire la parola «arabi» con la parola «ebrei» in tutti i luoghi comuni che si dicono sugli arabi. Converrete con me che molta meno gente sarebbe disposta ad ascoltarvi senza storcere il naso.)

    Qualcuno potrà legittimamente chiedersi se non sia questa un’opera di sapiente mistificazione della realtà ordita dai buonisti apologeti in difesa del politicamente corretto volta a nascondere l’evidenza che le società del mondo arabo qualche problema in materia di diritti delle donne innegabilmente ce l’hanno, così come qualche problema con la laicità dello Stato e le libertà individuali e sociali. Osservazione sensata, se non fosse che qui nessuno sta negando che questi problemi esistano, bensì che siano dovuti alla “cultura araba”. Non serve a molto affidarsi alla mera evidenza empirica senza un’elaborazione intellettuale, perché altrimenti dovremmo credere che un legnetto dritto immerso nell’acqua si spezza e diventa più corto. Se ogni cultura comprende una diversità che spazia tra gli estremi dello spettro di credenze, convinzioni, modelli e valori, il prevalere di certe credenze, convinzioni, modelli e valori nell’articolarsi della vita sociale è da attribuirsi allo sviluppo storico, al contesto sociopolitico, piuttosto che alla cultura in sé (che invece contiene tutte le sfumature possibili, dominanti e non).

    I fascismi novecenteschi europei non erano dovuti alla cultura occidentale più di quanto i movimenti socialisti fossero dovuti alla stessa cultura: se negli anni Trenta i fascismi trionfarono fu per cause materiali ben individuabili, per i rapporti sociali di forza, non certo per un’impalpabile e astratta ineluttabilità intrinseca alla cultura occidentale. Analogamente, lo stesso vale per l’attuale mondo arabo: se, per esempio, esiste una creatura mostruosa come l’ISIS, è perché le condizioni politiche, economiche e militari lo hanno permesso. La “cultura araba” non spiega l’esistenza dell’ISIS, ma solo le forme della sua esistenza. Se l’ISIS fosse sorto in una cultura diversa, non sarebbe stato meno mostruoso e non avrebbe avuto meno difficoltà ad affermarsi (l’esempio dei fascismi europei è calzante). Ancora, il peso del contesto storico è esemplificato dalla condizione delle donne in Afghanistan, che negli anni Sessanta potevano uscire di casa, guidare, iscriversi all’università ed è ovvio che queste libertà sono state perse a causa degli avvicendamenti squisitamente geopolitici che hanno segnato la storia del paese, mentre il popolo è in maggioranza musulmano dagli inizi dell’Islam e l’occupazione sovietica non ha certo annullato secoli di cultura musulmana popolare.

    Due studentesse di medicina afgane discutono di anatomia umana con la loro professoressa, a Kabul nel 1962

    Quello che avviene quando si attribuiscono alla cultura gli eventi sociali politici economici è uno scambio dialettico tra struttura e sovrastruttura, che porta a non riconoscere che la cultura non è causa dei comportamenti, ma è i comportamenti (le cui cause sono squisitamente materiali e risiedono nei rapporti forza, produzione e dominio esistenti nelle società).

    Insomma, nessuno nega l’esistenza e la gravità dei problemi che affliggono purtroppo buona parte del mondo arabo. Si tratta di contestualizzare e di analizzare la complessità del reale, senza sostenere l’esistenza di culture monolitiche, in cui la diversità e i conflitti sono neutralizzati. Non si tratta di politicamente corretto: ciò che opprime, reprime, soffoca e limita le libertà individuali e sociali va combattuto, sempre, in quanto tale, in ogni cultura. Per questo motivo, si deve lottare contro tutto ciò che nella “cultura araba” è autoritario, violento e repressivo e per farlo occorre non neutralizzare i conflitti, ma anzi riconoscerli per sostenere ciò che al contrario è liberante ed emancipatore. Se di una cultura si considera arbitrariamente solo ciò che non piace e se ne fa una questione di cultura, allora tutte le culture sono conservatrici (se arbitrariamente si è scelto di vederne solo la componente conservatrice) o progressiste (se arbitrariamentre si è scelto di vederne solo la componente progressista). Chi invece riconosce il conflitto con le sue contraddizioni e ambiguità, riconosce che la cultura protestante ha prodotto le chiese strutturate autoritarie e istituzionali dei luterani ma anche i movimenti zwingliani e anabattisti; la cultura cattolica ha prodotto la Santa Inquisizione ma anche frati francescani che difendevano i diritti dei popoli colonizzati e la teologia della liberazione; la cultura marxista ha prodotto lo stalinismo ma anche il socialismo libertario; la cultura francese moderna ha prodotto l’assolutismo ma anche l’età dei lumi; la cultura illuminista ha prodotto la democrazia ma anche il capitalismo; la Rivoluzione francese ha prodotto i giacobini ma anche Napoleone; e così via.

    Ecco perché, anche se il nazismo è nato ed cresciuto nella “cultura occidentale”, non viene detto che la “cultura occidentale” sia nazista. Anzi, oggi viviamo nella stessa cultura ma non ci sono nazisti al potere: non è cambiata la cultura, ma il contesto sociopolitico entro cui tale cultura è espressa. Non si capisce per quale motivo lo stesso non debba valere per la “cultura araba” quando si dice che è teocratica o che non rispetta i diritti delle donne. Ecco perché non esiste nessuno scontro di civiltà.

    Infine, soprattutto, chi da questa sponda critica la “cultura araba” perché teocratica, bigotta, intollerante, discriminatoria, sessista, dovrebbe prima di tutto guardarsi in casa (anche se mi rendo conto che avere i fascisti in giardino non è assolutamente un buon motivo per astenersi dal criticarli quando sono nel giardino del vicino); inoltre rendersi conto che il modo migliore per combattere quanto di teocratico, bigotto, intollerante, discriminatorio, sessista esiste nella “cultura araba” è proprio evitare di immaginare una “cultura araba” in quanto tale. Per esempio, attualmente la concreta opposizione agli autoritarismi nel mondo arabo è quasi interamente composta da musulmani o gruppi in tutto e per tutto interni al mondo arabo. Parlando di “cultura araba” si comprendono nello stesso campo semantico, mentale e di riflesso anche politico, tanto l’autoritarismo quanto la maggioranza di coloro che lo stanno combattendo. Se l’obiettivo è sconfiggere l’estremismo autoritario, a che serve un concetto di “cultura” così definito, che traccia una immaginaria linea di confine in base alla quale l’autoritarismo e chi lo combatte stanno sullo stesso lato? Se si vuole migliorare le condizioni di vita del genere umano, le linee di divisione non vanno tracciate tra le culture, ma tra oppressi o oppressori.

  • La tristemente diffusa opinione sugli insegnanti come lavoratori privilegiati

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    «Più sfruttamento, meno lamento»: può essere considerato sia un’incitazione, come si vedrà, sia un’amara descrizione della realtà.
    Due giorni fa, Gianni Riotta ha avuto la brillante idea di chiedere pubblicamente: «I professori dicono di non poter lavorare un’ora in più al giorno. Secondo voi hanno ragione o torto?». Lasciando da parte, nonostante la grave distorsione della sostanza dei fatti, la parzialità e l’incompletezza della domanda posta (giacché non dice che queste ore di lavoro sarebbero prestate senza un corrispettivo aumento della retribuzione, né che i professori protestano per tale gratuità e non strettamente per il carico di lavoro, né che si sta riferendo ai docenti di scuole elementari, medie e superiori e non quelli universitari), che possiamo giustificare tirando per i capelli la necessità di sintesi, visto che ci troviamo su Twitter dove il massimo è 140 caratteri, trascurando, dicevo, questa pecca nella formulazione della domanda, c’è anche un altro elemento molto importante: Gianni Riotta chiede di parlare di un argomento serio a una platea (circa 80 mila persone ricevono automaticamente i suoi messaggi e chiunque in rete può leggerli) che difficilmente sa essere seria. Si tratta di una platea particolare, che si sente obbligata a commentare e dire la propria, anche quando a voce non saprebbe cosa dire (c’è chi l’ha chiamata psicologia della stronzata), ed ecco che risponde pappagallescamente con luoghi comuni e con disgustose opinioni ottenute acriticamente per sentito dire.

    Riporto di seguito alcune delle risposte ottenute dal “popolo della rete”, quello che secondo la Repubblica, il Corriere della Sera e Beppe Grillo (to’ che strana accoppiata) è informato, attivo, consapevole, critico, non dimentica e fa esplodere la rabbia sul web e dilagare il tam tam su internet.


     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    La cosa più triste è che molte di queste persone si dichiarano “di sinistra”, o almeno, così pare da ciò che pubblicano e condividono sui loro profili, dagli argomenti cui si interessano, dai canali con cui sono in contatto. Questo dovrebbe bastare a mostrare come lo spirito critico abbia abbandonato tutte le teste, tanto a destra quanto nella cosiddetta sinistra, al tempo del pensiero unico.

    Da tutti questi commentori, di cui quelli mostrati sono una piccolissima porzione, ne emerge uno specifico che mi ha colpito particolarmente e da cui deriva un’altra amarissima conclusione.
    Il personaggio risponde alla domanda di Riotta:

     

     

     

     

     

    Di fronte a cotanta superficialità, io non posso che rispondergli di informarsi meglio prima di sputare sentenze, perché il suo commento si basa su due assunzioni: la prima è che si stia parlando di una protesta per l’aumento delle ore, cosa non esattamente vera, la seconda richiama l’opinione diffusa che i professori siano una categoria lavorativa privilegiata, che lavora pochissimo e con stipendi d’oro.
    Ecco cosa risponde quando faccio notare l’erroneità delle prima assunzione:

     

     

     

     

     

    Ed ecco come reagisce invece al secondo appunto, quando osservo perentorio che «evidentemente il luogo comune degli insegnanti che non fanno nulla durante l’anno e un cazzo durante le vacanze ha fatto proseliti»:

     

     

     

     

     

    Bene, a questo punto uno si dice: tutte queste persone stanno parlando di cose che non conoscono, riferiscono per sentito dire, si mettono in coda tra le fila di quella buona parte della società che bistratta gli insegnanti non riconoscendone l’importantissimo ruolo sociale; che li considera dei fannulloni, senza sapere che le 18 ore che saranno aumentate a 24 settimanali sono solo nominali, che in queste ore non sono comprese né pagate quelle a casa per correggere i compiti e preparare la lezione, né i consigli di classe, i collegi dei docenti, gli scrutini, i ricevimenti, le ore di servizio volontario per coprire supplenze e buche, le ore di disponibilità durante mensa e intervallo; che si tratta dei lavoratori laureati che guadagnano meno, che avanzano solo per anzianità e restano comunque pagati poco fino a fine carriera; che le 18 o 24 ore di cattedra non sono affatto leggere ma si svolgono in classi pollaio affollate oltre i limiti consentiti dalle norme di sicurezza e in edifici il più delle volte fatiscenti e pericolosi, non costruiti secondo le norme antisismiche e di sicurezza generale; che altro che «devono stare seduti ad insegnare e basta», qua si tratta di formare persone, non macchine tutte uguali, perché l’educazione, tanto meno è diversificata, tanto più è indottrinamento.

     

     

     

     

     

    Uno, dicevo, quando legge certi commenti pensa tra sé queste cose: stanno parlando così perché non sanno cosa significa lavorare in quelle condizioni, in situazioni di sfruttamento in cui praticamente la maggior parte del lavoro non viene retribuito e in cui, di conseguenza, un’ulteriore aggiunta di 6 ore settimanali gratuite non è che l’ennesima vessazione ed elemento di sfruttamento. Invece no. Ad un altro commentatore che gli rimproverava di «parlare senza sapere un cazzo», il nostro risponde:

     

     

     

     

     

    Quindi lo sa. Lo sa! È sfruttato e chiede di essere ancora più sfruttato, condannando le lamentele e le proteste contro lo sfruttamento. Chissà in giro quanti ce n’è come lui.

     

     

     

     

     

    E così si chiude una triste finestra sul panorama del “popolo della rete”.

  • L’orgasmo della mente

    «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo».
    Mahatma Gandhi

    Non esiste aspetto della nostra vita che non sia in qualche modo influenzato dai rapporti sociali che, come singoli, intratteniamo con i nostri simili. Fin da quando nasciamo, il nostro cervello ancora in sviluppo risente della presenza dell’ambiente culturale, della rete di relazioni interpersonali, della simbologia del linguaggio: da queste cose esso è plasmato, sia metaforicamente che materialmente. Il nostro modo di vivere, di parlare, di pensare, di amare, di relazionarci, dipende in ultima analisi dall’influenza che la società esercita su di noi, attraverso la creazione e trasmissione di valori, l’insegnamento della cultura, i condizionamenti cognitivi del linguaggio, la tendenza all’omologazione, la pressione conformista. Siamo imbrigliati in ogni nostra azione, siamo vincolati da gabbie invisibili che confinano l’Io alle sole regioni permesse dai rapporti sociali.

    Prendere coscienza di questo è il primo passo verso la liberazione individuale, che precede, accompagna e segue la liberazione sociale: senza la prima, la seconda è vuota; senza la seconda, la prima è sterile. Una rivoluzione per potersi definire tale deve comprendere, in senso etimologico, la rottura, la discontinuità, nell’approccio che il singolo ha rispetto alla società e alla natura: deve comportare un ribaltamento nella visione del mondo.

    Potrebbe forse sembrare, da ciò che si è detto, che liberazione individuale e liberazione sociale siano due cose separate, nettamente distinguibili. Non è così. Le due cose possono commistionarsi insieme a dare una liberazione dell’Io in funzione della liberazione sociale, la quale risulta dall’incontro degli Io liberati e dal conseguente potenziale di rottura esplosiva.

    Quando si dice che noi «dobbiamo essere i primi a cambiare» si intende questo: la necessità di stravolgere gli schemi e i canoni imposti. A partire dalla scelta del prodotto da acquistare, per finire con il modo di camminare, definito dalla psicogeografia situazionista, passando per il modo di interpretare le azioni di altre persone e addirittura di noi stessi, per l’atteggiamento che adottiamo quando viviamo un’esperienza nuova, per la scelta di ciò che mangiamo, per il modo di usare uno strumento di comunicazione, per il nostro modo di vivere le relazioni sociali e affettive, i nostri amori, le nostre soddisfazioni, le nostre delusioni. Si può diventare un ingranaggio inceppato. Un ingranaggio inceppato ostacola il funzionamento della macchina. Non serve moltiplicare i propri punti di rottura. A volte ne basta uno per scatenare un’energia con forte carica rivoluzionaria. È un atto politico, di lotta. Un atto che inizia dalla mente, dalla persona.

    La forza politica si produce quando le alternative si traducono in reale, invadono la vita delle persone, la abbracciano, si compenetrano in essa. Quando l’arte, la cultura, il linguaggio, le singole azioni, entrano nella lotta, assumono un significato permeando la nostra vita in ogni suo momento e unificando la vita stessa con la lotta. Allora forse si può vincere.

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  • Contro l’Ancien Régime

    Alla fine ho dato forma al mio motto. Non so in verità se avrei preferito evitare di ingabbiarmi lasciandomi andare a presentazione di me e del blog che, si sa, spesso lasciano il tempo che trovano, perchè una persona, un carattere, una mente, una vita, un pensiero, non si possono giudicare in qualche riga e assolutamente non si possono riassumere.

    Comunque, Contro l’Ancien Régime è una pagina ancora incompleta. È stata scritta stanotte per effetto di un raptus espressivo che minava seriamente alla base la mia concentrazione per affrontare lo studio. Come molti noteranno, non è ancora una pagina di presentazione del blog né di me stesso. Ma datemi un po’ di tempo.


    I borghesi hanno fatto la Rivoluzione Francese ma sembrano avere dimenticato che ciò che ha fatto della Francia une Grande Nation è stato il trinomio «Liberté, Égalité, Fraternité». Appena ne hanno avuto la possibilità, hanno abbandonato il cappello frigio dei sanculotti giacobini per sostituirlo con un ben più sontuoso cilindro di feltro nero da abbinare al panciotto e a dorati gemelli da camicia. Hanno inventato il mito del realizzarsi, si sono industriati come mai prima nella storia moderna per il progresso e la crescita economica in nome di una storiella, molto in voga all’epoca, che parlava di una mano invisibile. Hanno armato migliaia di uomini per reprimere le azioni e soffocare le voci di chi alla storiella non credeva o non poteva crederci, di fronte all’evidenza lampante della sua fallacità; hanno mandato quegli uomini con fucili e manganelli contro le folle affamate esattamente come poco tempo prima i Re e i Principi ne avevano mandati contro di loro; poi li hanno mandati in terre lontane, a imporre con la forza la nuova religione del dio denaro a popoli increduli e indifesi; alla fine non era più rimasto niente e li hanno mandati ad ammazzarsi tra di loro, come carne da macello. Non contenti di questo, hanno cominciato a monetizzare oggetti e concetti di ogni tipo, anche i più impensabili: dall’aria all’acqua, dalle parole alla musica, dalla scienza alla conoscenza, dalla vita alla morte, dall’immaginazione alla coscienza; e una volta monetizzati, comprarli è stato per loro facile come rubare le caramelle a un bambino.

    Non è molto diverso dall’Ancien Régime. Quale Liberté, quale libertà di scelta consapevole posso vantare di avere se quando compro qualcosa non c’è alcuna trasparenza tra il marchio e il consumatore? Se quando voto democraticamente indicando qualcuno le decisioni le prende qualcun altro? Se non posso scegliere che lavoro fare per contribuire allo sviluppo civile e alla vita collettiva? Se non c’è reale partecipazione in scelte decisionali i cui effetti ricadono sulla testa di tutti? Che libertà ho, di fare cosa? Libertà di religione? È uno strumento di controllo sociale e limita la libertà nella misura in cui si basa su dogmi. Libertà di parola? Gli sgherri manzoniani sono pronti in ogni momento a manganellare o a censurarti se ti lasci sfuggire verità scomode. Libertà di scegliere che lavoro fare? Appartengo ad una generazione precaria sul piano lavorativo e sul piano esistenziale. Libertà di pensiero? «Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate», diceva una canzone, «e in cambio pretendete» la libertà di indossare vestiti firmati, di avere l’ultimo modello del cellulare, di aggiornare il vostro profilo di Facebook, di seguire i reality show, di accendere la televisione per contare, sorridendo beffardi dentro di voi, quante disgrazie sono capitate oggi ad altri.

    Dov’è l’Égalité quando l’economia è controllata da un’oligarchia dispotica e strutturata nel modo più vicino al totalitarismo che l’Occidente abbia saputo produrre dopo i Fascismi del Novecento? Quando la ricchezza è distribuita con un’asimmetria impressionante, per cui un decimo della popolazione sfrutta nove decimi delle risorse, mentre i restanti nove decimi della popolazione sono costretti a patire la fame, la sete, la miseria, le malattie nonostante che l’esistente sarebbe sufficiente per tutti? Dov’è la ragionevolezza dei padri illuministi della Rivoluzione, in tutto questo?

    Che Fraternité posso dire di vedere in un mondo in cui si riesce a giudicare una persona, pur fatta di una sua individualità, basandosi sul colore della sua pelle o sulla forma dei suoi occhi, annullando così completamente ogni possibile forma di comunicazione e comprensione? Dov’è la fratellanza tra i popoli quando si sganciano bombe su civili inermi, e tra le persone quando alcune vengono rinchiuse per anni in lager di detenzione per scontare la pena per il reato di essere clandestini? E dov’è ancora quando, una volta usciti dai lager, li si infila in un bastimento come capi di bestiame per riportarli nell’inferno da cui provenivano? E, nell’eventualità che riuscissero a evitare questa triste sorte, dov’è la fratellanza e l’umanità quando, restando, non trovano che insulti e discriminazioni?

    Non ci sono dubbi, questo è ancora l’Ancien Régime.

  • La conoscenza è un atto politico

    Per chi oggi non avesse comprato Terra, quotidiano nazionale, con il supplemento della Rete della Conoscenza, pubblico qui il mio articolo dal titolo “La conoscenza è un atto politico”

    Cosa succede quando decine se non centinaia di migliaia di studenti in tutta Italia decidono di riempire le piazze delle loro città, di occupare le proprie scuole costruendo un’idea di riforma alternativa, di riunirsi in gruppi di lavoro e di discussione mettendo in pratica lo strumento indispensabile della condivisione e dell’orizzontalità democratica, di stabilire una fitta rete di informazione sul piano nazionale e, spesso, a livello territoriale?
    Finché tutto ciò si risolve con manifestazioni di piazza organizzate durante quelle che dovrebbero essere le ore di lezione, l’effetto immediato ed evidente è un rallentamento l’attività didattica.
    Niente di meglio per il regime dell’ignoranza contro cui le manifestazioni sono indirizzate.
    Ma se quelle manifestazioni diventano non l’ultimo effetto passeggero della naturale tendenza ribelle insita nei giovani, passionale, istintiva, quasi ingenua, per trasformarsi in passi singoli di un progetto organico, insomma se il corteo diventa uno strumento da sfruttare al massimo anziché un fine da perseguire, il regime trema.
    Se in quelle assemblee si fa informazione, un’informazione vera, non distorta dalle lenti del potere ma generata dalla volontà di chi è protagonista dei fatti raccontati di comunicare, di descrivere oggettivamente, di sfuggire agli strumenti del “quarto potere” ufficiale, il regime trema.
    Se in quei dibattiti ci si rende conto che il primo passo per superare la crisi economica globale e il sistema che l’ha prodotta non può che essere quello di “produrre cultura”, si forgia l’arma che meglio di tutte le altre può essere usata contro il regime dell’ignoranza, e il regime trema.
    Se in quelle riunioni si elaborano strategie di lotta nuove e idee nuove per costruire non solo una scuola diversa ma una società diversa, alternativa a quella esistente, lontana dalle disparità, dalle disuguaglianze e dalle discriminazioni, il regime trema.
    Ci vuole più informazione, più responsabilità, più attaccamento folle a ogni singolo possibile frammento di cultura esistente nel nostro Paese, da parte di ciascuno di noi, da parte di tutti. Quello che vogliamo non si ottiene soltanto con la doverosa partecipazione a manifestazioni di piazza ma in definitiva con la scelta di uno stile di vita che sia conforme ai valori che abbiamo deciso di abbracciare.
    Il sapere in sé non ha un colore politico, eppure in una società che premia l’ignoranza, l’apparire e la corruzione piuttosto che la cultura, l’essere e la legalità, la conoscenza un colore politico ce l’ha: chi è onesto e consapevole dei propri diritti non può sostenere queste politiche governative di disfacimento dell’apparato scolastico e universitario italiano, questa politica dei privilegi, della disinformazione e dell’individualismo.
    La storia ci sta chiamando: sentiamola e rispondiamo con tutte le nostre forze. La conoscenza è un atto politico.

    Piero Lo Monaco