Tag: crisi

  • I forconi e i vuoti

    Il 15 gennaio è stata indetta attraverso un comunicato su Youtube una protesta in tutta la Sicilia, con l’annuncio che sarebbe durata 5 giorni a partire dall’indomani.
    L’iniziativa è stata salutata con grande partecipazione, soprattutto da parte di lavoratori agricoli, di pescatori e di autotrasportatori, che hanno bloccato fisicamente snodi centrali della viabilità regionale con lunghe file di tir.
    Vorrei raccogliere qui le mie prime impressioni a caldo su questo Movimento dei Forconi.

    Prima di tutto, mi sembra che il fenomeno confermi la mia ipotesi sul fatto che i movimenti “né destra né sinistra”, quelli che dicono «né bianchi né neri, ma siculi pensieri», che non si collocano (almeno consapevolmente) in un’area politica definita, che si dichiarano orgogliosamente apolitici (min 1:10 secondo video: «dietro non vi è nessuna forza, nessun movimento politico») considerando ciò una garanzia, sono molto più facilmente dirottabili da destra che da sinistra. Vediamo come.

    1) La cosa più preoccupante è l’appoggio di Forza Nuova alla protesta, sia a Palermo che a Catania, che è stato tollerato di buon grado dal Movimento per i primi due giorni (proprio per il fatto che non sono stati posti vincoli di tipo politico), per poi essere respinto dalla pagina Facebook “ufficiale” usando le parole di un membro di Forza Nuova e citandolo come “camerata”. Insomma, niente prese di posizione assunte dal Movimento, e ciò che timidamente sembra essere presa di posizione è in realtà l’opinione di un neofascista.
    Non solo: oggi, dopo tre giorni di paralisi dell’isola, la protesta si estende anche alla Calabria e alla Puglia (per ora solo sul web). E indovinate chi è che coordina le iniziative da Bari, a livello regionale? Vito Cantacessi, Forza Nuova, con un bel curriculum alle spalle: arrestato nel 2004 per aver organizzato spedizioni squadriste con altri fascisti successivamente condannati per undici pestaggi, minacce al docente universitario Luciano Canfora, intimidazioni al segretario dell’Arcigay di Bari.

    2) A Modica i partecipanti ai presidi minacciano i commercianti che non aderiscono “volontariamente” alla protesta, ma grazie a contatti su internet apprendo, di prima mano, che altre pratiche discutibili sono adottate in altri posti: per esempio al blocco di Catania qualcuno chiede il “pizzo” per lasciar passare.

    3) Il movimento si dichiara apolitico, non solo apartitico. E lo è, nel senso che è del tutto privo di elaborazione politica, basta andare sul neonato sito “Forza D’Urto” per rendersene conto: è praticamente vuoto. E fa paura il vuoto da riempire, perché chiunque lo può riempire come vuole. Quando si scrive «né bianchi né neri, ma siculi pensieri» non si capisce bene quali siano questi pensieri. Con questo slogan si intende semplicemente porre tra il movimento e la politica la massima distanza. Però tra i principali animatori spiccano Mariano Ferro, ex militante di Forza Italia candidatosi in passato durante le elezioni amministrative, poi passato all’Mpa e vicino a Lombardo, e Martino Morsello, fino al 1990 assessore PSI a Marsala. Entrambi menzionati in questo articolo.

    4) Aldilà delle accuse di fascismo, è fuori di dubbio che una protesta così diffusa e determinata sia sintomo di rabbia e malcontento sociale. Se solo pratiche del genere fossero applicate durante gli scioperi! C’è chi si chiede dove siano i movimenti e i partiti siciliani di sinistra, la cui assenza sta permettendo alla destra di monopolizzare la protesta. È già successo nel 1970 a Reggio Calabria, quando una rivolta popolare fu lasciata in balia dei missini. Rischia di succedere ancora.
    Come consigliano gli anarchici, dovremmo riprenderci metro per metro gli spazi che l’estrema destra ha ci sottratto.
    Dovremmo far sì che la rima baciata alla fine di questo video torni alle sue origini, per esser pronunciata da sinistra.

  • Una certa cultura locale – Riflessioni sul 14 gennaio ibleo

    Ragusa è una città che non ha mai brillato per impegno politico, inteso nella sua forma partecipativa, che coinvolge e connette partiti, movimenti e associazioni. A parte alcune personalità che si distinsero per l’adesione attiva a campagne di progresso sociale, non ha prodotto, dal punto di vista politico, che mostri informi pronti alla qualunque pur di ottenere il plauso del pubblico ibleo, a patto ovviamente di compiacere il padrone di turno. Quando, nel 1963 e nel 1968, a due successive tornate elettorali, il gerarca fascista Filippo Pennavaria si candidò al Senato, ottenne valanghe di voti dai cittadini ragusani. Non c’è da stupirsi, visto che – fa notare Giuseppe Nativo, studioso di storia iblea – «una certa cultura locale si attarda ancora su pregiudizi, stereotipi e vecchi campanilismi». Campanilismi che, radicati ancor oggi, permettono per esempio il perdurare da anni del dibattito sull’opportunità o meno di piazzare in centro storico una statua in onore del fascista Pennavaria, come se, in un paese civile e democratico, non dovesse essere scontato l’esito di una tale proposta.

    È lo stesso campanilismo ad alimentare strani fenomenicome quello che domani (14 gennaio) promette di portare in piazza un cartello trasversale di associazioni che sposta il confronto dal piano locale al piano nazionale e, con provincialismo paraleghista, addita Roma come causa di tutti i problemi dell’economia iblea.

    Cominciamo dal principio: in virtù del mio passato di studente “attivo”, ho ricevuto una e-mail dal direttore dell’ANCE Ragusa (“Associazione Nazionale Costruttori Edili”) che desiderava «fornire ragguagli inerenti alla manifestazione di giorno 14 gennaio recante il titolo “Tutti insieme per il rilancio ibleo” promossa dal Tavolo provinciale dello sviluppo e del lavoro di Ragusa che vede riunite tutte le organizzazioni datoriali, sindacali, ordini e collegi professionali, consumatori e le Diocesi di Ragusa e Noto. Il manifesto della manifestazione reca 5 proposte per sostenere le famiglie, difendere il lavoro, sviluppare le imprese e sarà esplicitato al termine dell’evento». Infine, mi si informava che «Oggi 10 gennaio il Presidente della CCIAA di Ragusa si è recato dal Provveditore agli Studi per chiedere l’adesione delle istituzioni scolastiche e consentire una massiccia partecipazione degli Studenti Iblei, futura classa dirigente del nostro Paese».

    Molte cose non quadrano da questa prima presentazione: mancano i contenuti e le rivendicazioni della manifestazione, che si riducono ad un generico sviluppo, ad un “rilancio ibleo” e a 5 punti poco esplicitati; si chiede ai cittadini di partecipare all’evento promettendo di esplicitare eventuali contenuti soltanto dopo la manifestazione; si chiede (e si ottiene) l’adesione, a questo punto cieca, degli studenti, addirittura da formalizzare attraverso provvedimenti delle istituzioni scolastiche (non sapevo che una manifestazione di piazza dalle velleità politiche potesse ottenere appoggio istituzionale).

    Prima di andare avanti è doveroso precisare quali siano le perplessità, di primo acchito, riguardo i cinque punti programmatici, riportati di seguito: piano straordinario per il lavoro, infrastrutture coerenti e integrate, misure contro l’evasione fiscale e l’abusivismo, semplificazione burocratica, abbattimento dei costi della politica. La perplessità nasce dal fatto che alcuni di questi punti vogliono dire tutto e il contrario di tutto, e questo sincretismo spiega la partecipazione di sigle che vanno dalla CGIL a Confindustria, soggetti sociali che in questo periodo sono in netto contrasto (e sull’art.18, mica bazzecole). È un cartello così trasversale che dentro potresti trovarci di tutto (come nel M5S), o forse solo una cosa.

    Bastino un paio di esempi per mettere in guardia. Primo, anche lo smantellamento degli ammortizzatori sociali, l’eliminazione dell’articolo 18, la smania per la “flessibilità” lavorativa e il precariato possono essere considerati , a detta dei tecnici, “piano straordinario per il lavoro”; secondo, anche il Tav e il Ponte sono infrastrutture, bisogna vedere chi ne gestisce la costruzione e con che grado di trasparenza (senza allontanarsi troppo da Ragusa, anche il porto di Marina di Ragusa è un’infrastruttura, ma a che pro? E anche l’ampliamento del porto di Scoglitti lo è, ma fa crollare siti archeologici).
    Insomma, chiedere sviluppo non significa nulla, bisogna specificare (perché non è scontato) che tipo di sviluppo, a favore di chi, in che direzione: entrare nel merito.

    Si può cercare di risolvere queste perplessità andando a chiedere chiarimenti sulla pagina facebook (già linkata) sollecitamente creata per l’occasione, con tanto di account twitter, canale youtube (con uno spot di vaghissime frasi fatte pronunciate da una voce fascinosa e persuasiva come quelle delle pubblicità): lì gli organizzatori risponderanno che «tutte le parti sociali, nessuna esclusa, tutti gli ordini professionali, le diocesi di Ragusa e Noto, hanno convenuto su 5 proposte concrete» e rimanderanno al primo comunicato, del 17 dicembre, assicurando che vi si possono trovare «molte risposte alle tue domande»; tuttavia si trova lo stesso elenco ambiguo di cui sopra e niente di più.

    Perché prima si è parlato di provincialismo paraleghista del tipo “Roma ladrona”? Per capirlo, un altro esempio: quello dell’abusivismo. A detta degli organizzatori è un problema che deve risolvere il governo, perché la colpa è dei governi che, negli anni, a partire dal 1982, hanno condonato a destra e a manca per garantire un certo afflusso nelle casse dello Stato ma, aggiungo io, soprattutto per ottenere voti (e quindi garantire un certo afflusso nelle tasche di singoli eletti). Ma la colpa è solo dei governi o anche di una caratteristica fauna locale che li rappresenta, che anche lei specula e mangia soldi, e che ha ricevuto una valanga di voti dagli elettori ragusani, magari parte dei quali sarà in piazza a protestare? Roma sarà ladrona, ma Roma chi l’ha eletta? Se si fosse voluto veramente combattere l’abusivismo si sarebbe dovuta abbattere sul nascere la cementificazione di una buona metà della costa iblea, anziché lamentarsene ora. Ad aver consentito che questo modello di gestione della costa prendesse piede non è stato il governo nazionale; se i ragusani vogliono trovare responsabili o complici si guardino allo specchio.

    Per non parlare di punti sulla semplificazione burocratica e sull’abbattimento dei costi della politica, che vengono coinvolti in una protesta di carattere territoriale quando invece riguarda l’intero paese. Intendiamoci, non che sia sbagliato puntare a questi obiettivi, ma è insensato farlo chiamando in causa l’identità locale: questo sposta inevitabilmente il conflitto (se in questo caso di conflitto si può parlare) dal piano sociopolitico al piano geopolitico, una mossa già abilmente condotta da criptofascisti rossobruni.

    Dopo la ripetizione dei soliti cinque punti, sulla pagina facebook è calato il silenzio.
    Si saranno forse risentiti per la chiusura dell’intervento? Quella che fa:

    Aggiungo una nota a lato sulla partecipazione delle diocesi di Ragusa e Noto: generalmente non sono contrario alla partecipazione a iniziative locali da parte di rappresentanti di Stati esteri, in quanto la cooperazione tra gli stati e le comunità è quanto di più auspicabile si possa volere; tuttavia, non posso che notare una certa faziosità nell’invitare sempre rappresentanti dello stesso Stato estero; la prossima volta raccomando una delegazione del Costa Rica e una del Burundi.

    Già, si saranno risentiti. Ma si sa, «una certa cultura locale si attarda ancora su pregiudizi, stereotipi e vecchi campanilismi».

    P.S. Non ho inserito il seguente paragrafo nell’articolo perché non ho trovato le fonti dei dati, anche se mi ricordo di averle solo “sentite dire”. Se qualcuno fosse in grado di fornire fonti attendibili gliene sarei grato.
    Mi sono chiesto anche come possano i costruttori edili lamentarsi degli affari in provincia, quando solo il capoluogo conta circa 70 mila abitanti ma ha un numero di unità abitative sufficiente per sostenerne 200 mila. Dopo aver investito e mangiato cemento hanno il coraggio di lamentarsi?

  • La manovra di Ferragosto e la shock economy

    Da più parti e alle persone più inaspettate sento pronunciare commenti e apprezzamenti del tipo «per una volta mi trovo a dire che il Governo mi è piaciuto!» che dimostrano definitivamente quale sia la percezione della crisi nell’immaginario collettivo costruito sapientemente dietro controllo mediatico: la crisi viene percepita come se fosse un fenomeno naturale e una calamità inevitabile. Se un terremoto colpisce il territorio abruzzese o una tromba d’aria devasta la costa ionica del catanese, che colpa può averne il governo, la burocrazia o chiunque altro? Lo stesso ragionamento, grazie ai martellamenti continui del pensiero unico attraverso ogni canale di informazione, si impossessa automaticamente della mente di tanti, che di fronte a una crisi finanziaria si convincono di avere a che fare con una crisi sismica. Ma come potrebbe questo non accadere dal momento che è proprio l’inevitabilità il carattere di una crisi che tutti ci dicono piovere dall’alto?

    Bene, voglio svelarvi un segreto: la crisi non è inevitabile né imprevedibile, è connaturata al sistema economico liberista e dunque è inevitabile solo finché non si mette in discussione il sistema stesso e si parla del liberismo come se fosse lo stato di natura (eppoi certo che la crisi sembra un fenomeno naturale!). Mi sembra invece che la manovra di Ferragosto decretata dal governo non faccia altro che ribadire la sua supremazia, o meglio la sua unicità nel panorama politico, visto che l’opposizione (tre volte virgolettata) ormai non fa più neanche ridere (Bersani: «è ora che la crisi la paghi chi non l’ha mai pagata!» ma senza dire chi, perchè il Pd ha paura).

    Beatificazione del contratto di Mirafiori, liberalizzazioni (finirà come l’Argentina?) in barba allo spirito referendario (ma tanto lo sapevamo che sarebbe finita così!), festività accorpate o addossate alle domeniche per guadagnare qualche giorno di produttività nei prossimi anni (ma il turismo in Italia vive dei ponti), dal prossimo anno si lavorerà il 25 aprile e il primo maggio (ma proprio quest’ultima cosa, siamo sicuri che l’abbiano chiesta l’UE e la BCE?)

    Non voglio entrare nei dettagli, perchè so di non averne le competenze necessarie, mi piuttosto dico: tutti contenti della manovra, ma nessuno pensa alla shock economy? In tanti sono disperati ma rassegnati, perchè «tutti dovremo fare qualche sacrificio». Ma se una banca fallisce, perchè il sacrificio lo devo fare io e non chi l’ha fatta fallire? E comunque, mai sentito parlare di shock economy? Si approfitta di un disastro (le cui cause peraltro in questo caso hanno un nome e un cognome) per far passare leggi e norme che non avrebbero mai il consenso popolare; dopodiché quelle norme rimarranno in vigore, per quanto possano sostenere i difensori dell’austerity, in buona o cattiva fede. O vi risulta che le leggi antiterrorismo degli anni di piombo siano state ritirate? E le straordinarie misure di sicurezza repressive della war on terrorism? Sono ancora là. E i cittadini del New Orleans che dopo l’uragano Katrina scoprono che non avranno mai più scuole e ospedali pubblici? Si può continuare a lungo l’elenco di episodi in cui il potere ha approfittato di situazioni di crisi per approvare delle scelte che mai la popolazione accetterebbe.

    Allo stesso tempo mi chiedo se non sarebbe più socialmente giusto e più sensato ed efficace far pagare l’ICI alla Chiesa Cattolica; tassare i patrimoni sopra il milione di euro; combattere l’evasione fiscale; tagliare drasticamente le spese militari; ritirare i soldati italiani dall’Afghanistan e dalla Libia; abolire tutte le province.

    Ma questo la «losca confraternita dei borghesi produttori di profitto» (sic!) non lo farà mai.

  • Contro l’Ancien Régime

    Alla fine ho dato forma al mio motto. Non so in verità se avrei preferito evitare di ingabbiarmi lasciandomi andare a presentazione di me e del blog che, si sa, spesso lasciano il tempo che trovano, perchè una persona, un carattere, una mente, una vita, un pensiero, non si possono giudicare in qualche riga e assolutamente non si possono riassumere.

    Comunque, Contro l’Ancien Régime è una pagina ancora incompleta. È stata scritta stanotte per effetto di un raptus espressivo che minava seriamente alla base la mia concentrazione per affrontare lo studio. Come molti noteranno, non è ancora una pagina di presentazione del blog né di me stesso. Ma datemi un po’ di tempo.


    I borghesi hanno fatto la Rivoluzione Francese ma sembrano avere dimenticato che ciò che ha fatto della Francia une Grande Nation è stato il trinomio «Liberté, Égalité, Fraternité». Appena ne hanno avuto la possibilità, hanno abbandonato il cappello frigio dei sanculotti giacobini per sostituirlo con un ben più sontuoso cilindro di feltro nero da abbinare al panciotto e a dorati gemelli da camicia. Hanno inventato il mito del realizzarsi, si sono industriati come mai prima nella storia moderna per il progresso e la crescita economica in nome di una storiella, molto in voga all’epoca, che parlava di una mano invisibile. Hanno armato migliaia di uomini per reprimere le azioni e soffocare le voci di chi alla storiella non credeva o non poteva crederci, di fronte all’evidenza lampante della sua fallacità; hanno mandato quegli uomini con fucili e manganelli contro le folle affamate esattamente come poco tempo prima i Re e i Principi ne avevano mandati contro di loro; poi li hanno mandati in terre lontane, a imporre con la forza la nuova religione del dio denaro a popoli increduli e indifesi; alla fine non era più rimasto niente e li hanno mandati ad ammazzarsi tra di loro, come carne da macello. Non contenti di questo, hanno cominciato a monetizzare oggetti e concetti di ogni tipo, anche i più impensabili: dall’aria all’acqua, dalle parole alla musica, dalla scienza alla conoscenza, dalla vita alla morte, dall’immaginazione alla coscienza; e una volta monetizzati, comprarli è stato per loro facile come rubare le caramelle a un bambino.

    Non è molto diverso dall’Ancien Régime. Quale Liberté, quale libertà di scelta consapevole posso vantare di avere se quando compro qualcosa non c’è alcuna trasparenza tra il marchio e il consumatore? Se quando voto democraticamente indicando qualcuno le decisioni le prende qualcun altro? Se non posso scegliere che lavoro fare per contribuire allo sviluppo civile e alla vita collettiva? Se non c’è reale partecipazione in scelte decisionali i cui effetti ricadono sulla testa di tutti? Che libertà ho, di fare cosa? Libertà di religione? È uno strumento di controllo sociale e limita la libertà nella misura in cui si basa su dogmi. Libertà di parola? Gli sgherri manzoniani sono pronti in ogni momento a manganellare o a censurarti se ti lasci sfuggire verità scomode. Libertà di scegliere che lavoro fare? Appartengo ad una generazione precaria sul piano lavorativo e sul piano esistenziale. Libertà di pensiero? «Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate», diceva una canzone, «e in cambio pretendete» la libertà di indossare vestiti firmati, di avere l’ultimo modello del cellulare, di aggiornare il vostro profilo di Facebook, di seguire i reality show, di accendere la televisione per contare, sorridendo beffardi dentro di voi, quante disgrazie sono capitate oggi ad altri.

    Dov’è l’Égalité quando l’economia è controllata da un’oligarchia dispotica e strutturata nel modo più vicino al totalitarismo che l’Occidente abbia saputo produrre dopo i Fascismi del Novecento? Quando la ricchezza è distribuita con un’asimmetria impressionante, per cui un decimo della popolazione sfrutta nove decimi delle risorse, mentre i restanti nove decimi della popolazione sono costretti a patire la fame, la sete, la miseria, le malattie nonostante che l’esistente sarebbe sufficiente per tutti? Dov’è la ragionevolezza dei padri illuministi della Rivoluzione, in tutto questo?

    Che Fraternité posso dire di vedere in un mondo in cui si riesce a giudicare una persona, pur fatta di una sua individualità, basandosi sul colore della sua pelle o sulla forma dei suoi occhi, annullando così completamente ogni possibile forma di comunicazione e comprensione? Dov’è la fratellanza tra i popoli quando si sganciano bombe su civili inermi, e tra le persone quando alcune vengono rinchiuse per anni in lager di detenzione per scontare la pena per il reato di essere clandestini? E dov’è ancora quando, una volta usciti dai lager, li si infila in un bastimento come capi di bestiame per riportarli nell’inferno da cui provenivano? E, nell’eventualità che riuscissero a evitare questa triste sorte, dov’è la fratellanza e l’umanità quando, restando, non trovano che insulti e discriminazioni?

    Non ci sono dubbi, questo è ancora l’Ancien Régime.

  • Sardigna pesa, ischìda Sardigna

    Cosa esattamente nella testimonianza trasmessa da Annozero il 5 maggio lasci turbati non è facile da dire, perchè sono tante cose insieme.

    Prima di tutto essa stona con il contesto in cui viene a trovarsi: da una programmazione televisiva asservita al potere, che censura preventivamente ogni possibile riferimento al referendum popolare del prossimo 12-13 giugno, che distoglie gli italiani dai problemi del paese dirottando i loro interessi su pettegolezzi e modelli comportamentali che minano alla base le conquiste di millenni di civiltà come il dialogo e il predominio della ragione sugli istinti, che nasconde la natura della crisi e le sue conseguenze o, nei rari casi in cui non può permettersi di farlo, la minimizza e ne parla come di acqua passata, è difficile aspettarsi di ricevere informazioni che non siano di qualità minore di quegli articoli delle riviste che generalmente le persone tengono accanto al cesso.

    Eppure, la sera del 5 maggio la diretta è riuscita a evadere i giochetti della censura, che ha avuto una falla dalla quale si è riversato impetuosamente in studio un mondo diverso da quello dipinto dai telegiornali di partito, dai talk show, dai reality: era un mondo, quello reale, che si esprimeva senza filtri, senza copioni, senza cerone e altri trucchi  e senza mediazione tra la telecamera e la realtà. Insomma un mondo genuino, che appare così come è.

    Ed è sfruttato, dilaniato, oppresso, disperato e non ha paura di dire davanti a tutti, a volto scoperto, che «l’Africa è vicina» non solo geograficamente. Nel Sulcis è successo quello che potrebbe succedere ovunque sia portato ad estreme conseguenze il predominio dell’economico sul sociale, del finanziario sul politico. L’unico modo possibile di difesa che hanno trovato gli abitanti del Sulcis (120 mila abitanti, 30 mila disoccupati) è la condivisione delle rivendicazioni: artigiani, commercianti, operai, pastori, tutti padri e madri di famiglia che ogni mese devono «decidere se fare la spesa, pagare le tasse o licenziare dipendenti».

    In risposta a una politica cieca di fronte al disastro sociale, i comitati cittadini del Sulcis hanno organizzato una grande manifestazione regionale per giorno 12 maggio, che si terrà a Cagliari fin sotto gli edifici della Regione.

    E i giornali nazionali e l’informazione tutta… come hanno reagito di fronte alle ripetute esternazioni di rabbia del popolo? Ovviamente dando il minimo rilievo possibile alla notizia e, se possibile, ignorandola completamente: nessun telegiornale ne parla, tra i giornali nazionali solo L’Unità tratta della vicenda, limitandosi a scrivere che la Sardegna è come un laboratorio e che «in passato ha spesso anticipato tendenze politiche nazionali», mentre la rivoluzionaria La Repubblica vede bene di non farne assolutamente cenno (perchè certo non si sputa nel piatto in cui si mangia).

    Questo perchè la condivisione delle lotte al fine di rivendicare diritti dà comprensibilmente fastidio a tutti, in quanto questa volta la condivisione non parte dalla tanto balbettata esigenza di un “rinnovamento morale” né della trita riscoperta del senso di appartenenza all’identità nazionale ultimamente sbandierato a destra e a manca, bensì dal bisogno di soddisfare necessità materiali e di primaria importanza.

    Per questo il Movimento che si sta autorganizzando in Sardegna dovrebbe far paura a chi vive nel mondo dei sogni e dei paradisi fiscali; per questo lo si censura e si evita di fornire notizie sulla questione; per questo non ci viene detto dagli organi di informazione della grande protesta sarda che sta montando nell’isola e che per ora ha una data di riferimento: il 12 maggio.

    Sarebbe bene che gli studenti sardi si unissero alla protesta, portando al compimento il tentativo di unificare le lotte. E voglio anche un giuramento della pallacorda, un’Assemblea Costituente, una comune e dei comitati.

    FORZA PARIS! TUTTI INSIEME!