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  • La resa dei conti in Africa occidentale: imperialismi e rivoluzioni

    Il 26 luglio, il presidente nigerino Mohamed Bazoum è stato posto in stato di arresto dalla propria guardia presidenziale, il cui capo Abdourahamane Tchiani ha preso il potere appoggiato dall’esercito. La giunta militare ha immediatamente preso possesso delle comunicazioni, dei palazzi governativi, ha chiuso le frontiere e indetto un coprifuoco a tempo indeterminato.

    Sono state già scritte e dette molte cose sul significato storico del colpo di Stato in Niger come sintomo del declino del controllo della regione da parte della Francia, come risultato dell’instabilità crescente degli Stati del Sahel, preda di gruppi armati capaci di strappare loro porzioni sempre più grandi di territorio, e come terremoto geopolitico che delineerebbe una strategia di influenza della Russia in Africa.

    Tuttavia, nelle varie analisi e letture degli eventi che stanno circolando, due cose non traspaiono adeguatamente: una traspare ma senza darle la dovuta importanza, l’altra sembra del tutto assente.

    L’Africa: immenso serbatoio di risorse

    Quello che sta succedendo nel Sahel e in Africa occidentale da un decennio dovrebbe essere oggetto di attenzione e preoccupazione da parte di chiunque intenda capire a fondo i processi che interesseranno il mondo intero nei prossimi anni, tra cambiamento climatico, devastazione ecologica globale e ristrutturazione del capitalismo.

    L’Africa è un immenso serbatoio di risorse economiche. Per via della sue caratteristiche geologiche, detiene circa un terzo delle risorse minerarie del pianeta, la qual cosa ha fatto di essa una torta da spartire tra le potenze dominanti fin da quando il capitalismo coloniale ha creato una rete di sfruttamento planetario basata sullo schiavismo. In Africa sono presenti tra il 20% e il 90% delle riserve mondiali di 11 minerali necessari per la transizione energetica (e alcune stime potrebbero essere al ribasso): da solo, il Sudafrica ha il 91% delle risorse mondiali di platino, il Marocco il 70% di quelle di fosfato, la Repubblica Democratica del Congo il 50% delle riserve di cobalto, e il continente detiene oltre il 90% delle riserve di metalli del gruppo del platino (rutenio, rodio, palladio, osmio, iridio, platino e renio). La lista è lunga ed è ovvio che faccia gola alle potenze che intendono accaparrarsi le risorse necessarie per controllare la filiera tecnologica dei mercati emergenti, come pannelli fotovoltaici, turbine eoliche, veicoli elettrici, produzione di idrogeno verde e catalizzatori automobilistici.

    Per non parlare dell’energia fossile: notoriamente gas naturale, petrolio e carbone abbondano in diverse regioni del continente. In aggiunta ai siti di estrazione attivi e ai giacimenti conosciuti, solo dal 2017 a oggi sono state date concessioni esplorative su un’area del continente di quasi 900 000 km2, equivalente alla superficie di Francia e Italia insieme. Questi progetti alimentano speranze di arricchimento rapido e hanno l’effetto di allontanare molti paesi attualmente privi di idrocarburi dal proprio potenziale di investimento nelle risorse rinnovabili.

    Tutto lascia pensare che l’Africa sarà nel prossimo decennio il principale campo di battaglia per il controllo delle risorse energetiche o dei materiali per il loro sfruttamento e, conseguentemente nel contesto attuale, per la supremazia economica: il controllo degli impianti di estrazione, lavorazione e smistamento delle risorse minerarie sarà decisivo, e senz’altro non per l’eliminazione della cause del riscaldamento globale e il ripristino degli equilibri ecologici. Al contrario, l’approvvigionamento di suddette risorse sarà all’origine di disastri ambientali e umanitari ancora maggiori e i tanto sbandierati obiettivi “verdi” saranno sacrificati (esattamente come adesso) sull’altare della corsa al profitto.

    Miniera di uranio di Tamgak, ad Arlit, Niger

    Il portato politico

    In questa cornice, le strategie di influenza delle varie potenze assumono una valenza molto più significativa. Se la competizione per il controllo economico è il motore cruciale che determina interessi e obiettivi delle forze in gioco, esiste anche una diversità di processi prettamente politici da cui dipende la forma dell’espressione e dell’attuazione di tali desideri di controllo.

    Questa è la prima delle due cose che mancano nelle letture attuali: il portato politico profondo. Il punto traspare solo superficialmente dalle analisi di questi giorni. Per esempio, quando si nota che il 25% dell’uranio che alimenta le centrali nucleari europee viene dal Niger e che il governo francese si è affrettato a precisare che un taglio alla fornitura nigerina non comprometterebbe in alcun modo la produzione energetica francese (mentre comunque il colosso minerario francese Areva-Orano continua a operare in Niger nonostante il golpe), ci si concentra sul dato economico ma non su quello politico. Il Kazakhstan è il maggiore produttore mondiale di uranio (oltre il 40%) nonché il maggiore fornitore della Francia (43% a fronte del 18% dal Niger) e le rivolte del gennaio 2022 ebbero un impatto sul prezzo dell’uranio nel mercato globale, ma all’epoca il governo francese non si scomodò a rilasciare alcuna dichiarazione e le sole rassicurazioni vennero da Areva-Orano.

    Perché delle tensioni in Kazakhstan con un reale impatto materiale sulle forniture di uranio non suscitano alcun appello alla calma, mentre delle tensioni in Niger senza impatto materiale spingono il governo francese a esprimersi? L’incertezza per ciò che rappresentano politicamente. Allarghiamo lo sguardo.

    L’intervento militare francese nel Sahel, cominciato nel 2013 con l’intento di coordinare la lotta contro il terrorismo islamico nella regione, con l’operazione Serval poi ribattezzata Barkhane, non è stato affatto capace di arginare la minaccia. Al contrario, la situazione si è aggravata: la presenza dell’esercito francese ha spinto migliaia di giovani verso la ribellione jihadista e oggi i gruppi armati controllano ampie regioni rurali, minacciano di espandersi a sud verso la costa toccando paesi prima al sicuro (Benin, Togo, Costa d’Avorio), e il tasso di violenza criminale, religiosa e politica è aumentato vertiginosamente.

    Carta pubblicata su The Economist basata sui dati ACLED sulla violenza armata in Africa occidentale.
    Africa coup belt
    La “cintura di instabilità”, carta ideata da Ken Opalo e pubblicata sulla sua newsletter

    Dopo anni di relativa calma, sono tornati in voga i colpi di Stato, tentati o riusciti: in Mali, Burkina Faso, Guinea, tradizionalmente allineati alle politiche neocoloniali francesi, hanno preso il potere giunte militari golpiste ostili: l’esercito francese è stato espulso dal Mali nel novembre 2022 e si è ritirato dal Burkina Faso del febbraio 2023, il Mali ha vietato radio e associazioni finanziate dalla Francia, e l’operazione Barkhane è stata dichiarata terminata così come la missione di pace dell’ONU in Mali (MINUSMA) nata inizialmente per stabilizzare il paese dopo la rivolta Tuareg del 2012. La Francia è stata costretta a rimodulare la propria presenza nel Sahel, sia in termini militari, con il trasferimento delle forze da Mali e Burkina Faso verso Niger e Ciad, sia in termini di strategie utilizzate, per renderla meno visibile sul piano politico e militare.

    Lo sfaldamento degli equilibri in Africa occidentale

    Questa ridotta visibilità è il punto cruciale, perché rispecchia un minore riconoscimento della Francia come cane da guardia della regione. La rete di alleanze e interessi intessuta in secoli di colonialismo si sta sfaldando sempre più clamorosamente e il campo filofrancese sta perdendo la prima indiscussa posizione dominante, aprendo un vuoto politico. A riprova di questo, un crescente sentimento “anti-francese” (potenzialmente anticolonialista) serpeggia tra la popolazione di tutta l’Africa occidentale, che si permette ormai di esprimerlo apertamente e in forme conflittuali (da slogan e bandiere bruciate ad attacchi a simboli del dominio francese, incendi e saccheggi di multinazionali).

    Questo vuoto è oggetto di contese tra forme politiche concorrenti. Da un lato è occupato dai regimi militari, che per parte della popolazione sembrano essere diventati la forma preferibile per l’espressione del sentimento “anti-francese”; da un altro dalle ribellioni tradizionaliste e fondamentaliste guidate dai numerosi gruppi armati jihadisti; infine, in paesi con una più solida tradizione democratica, da movimenti di opposizione popolari dichiaratamente anticolonialisti, che il campo filofrancese non riesce più a tenere sotto controllo.

    Quest’ultimo è il caso del Senegal, dove il governo filofrancese di Macky Sall è da mesi alle prese con un’opposizione in stato di mobilitazione permanente in difesa di Ousmane Sonko, carismatico militante panafricanista e potenziale candidato alle prossime elezioni presidenziali, sostiene l’uscita dal franco CFA, strumento coloniale per eccellenza che strangola le economie delle ex-colonie francesi. Il governo ha risposto con il pugno di ferro: esercito e squadracce armate per strada, decine di morti, arresti indiscriminati, blocco di internet, oscuramento dell’unico canale televisivo vicino all’opposizione, scioglimento del principale partito di opposizione.

    Il 26 luglio, nel solco di questa dinamica di riconfigurazione dei rapporti di forza tra i vari attori istituzionali e sociali, gruppi di interesse e gruppi militari nel Sahel, si è aggiunto alla lista il colpo di Stato in Niger.

    La fragilità dell’ascendente della Francia si riflette anche nell’incapacità della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, ECOWAS in inglese) ad accordarsi su una linea politica riguardo alla gestione della situazione in Niger. Finora, la linea dominante era sempre stata quella che favoriva la tutela degli interessi francesi nella regione: anche dopo i colpi di Stato in Mali, Guinea e Burkina Faso, la sospensione di questi paesi aveva mantenuto l’allineamento.

    Dopo il colpo di Stato in Niger, la CEDEAO, presieduta per adesso dalla Nigeria e forte dell’appoggio di esponenti di spicco della diplomazia occidentale (da Parigi, Washington, Bruxelles), ha staccato l’erogazione di corrente elettrica al Niger (fornita al 70% dalla Nigeria) e ha dato un ultimatum per ripristinare l’ordine costituito entro una settimana, pena l’uso della forza militare. In reazione, i governi militari di Mali e Burkina Faso, hanno annunciato che in caso di intervento entrerebbero in guerra in difesa del Niger. Ovvero, in guerra contro altri Stati della stessa CEDEAO di cui fanno parte, sebbene sospesi.

    Non solo: per dar seguito alla minaccia, il presidente della Nigeria ha sottoposto al parlamento nigeriano la richiesta di intervento militare, ma la proposta è stata respinta a larghissima maggioranza. La maggior parte degli altri Stati membri, pur approvando l’idea, non ha mobilitato le forze armate e la Nigeria è l’unico Stato con una forza militare che conterebbe qualcosa in questo frangente. Insomma, il presidente della CEDEAO è partito fiducioso di raccogliere l’usuale consenso, ma non ha avuto l’approvazione neanche del proprio paese. Difficile immaginare una disfatta politica più goffa. Quello che conta in questa analisi è che solitamente quel consenso era dato dall’allineamento sugli interessi francesi. Oggi non è più così e si assiste a un’accelerazione importante del processo di sfaldamento degli equilibri politici della regione.

    Le mire espansionistiche russe

    L’assenza di un cane da guardia nella regione si manifesta in un’ultima dinamica, da non sottovalutare: l’avanzamento delle mire espansionistiche russe.

    In questo, il Mali del generale Assimi Goïta è stato un caso lampante: mentre espelleva l’esercito francese, chiudeva i canali diplomatici e vietava associazioni e radio francesi, la giunta militare faceva accordi con il gruppo Wagner assumendolo come “supporto militare” e concedendo sottobanco lo sfruttamento di diversi siti minerari. Il Mali è diventato un modello da manuale: il Burkina Faso ha seguito rapidamente; e nel giro di solo una settimana i golpisti in Niger hanno preso molte delle misure osservate in Mali negli ultimi anni. Mentre le giunte al potere negano, la diplomazia russa conferma. Quando il primo ministro maliano Choguel Kokalla Maïga si è schierato a favore dei golpisti in Niger, lo ha fatto da San Pietroburgo, dove presenziava il vertice Russia-Africa.

    La giunta filorussa in Mali è la forma politica visibile delle ambizioni espansionistiche della Russia, ma la presenza di forze che tutelano gli interessi russi è attestata in diverse altre forme più discrete. Per esempio, il gruppo Wagner è presente nella Repubblica Centrafricana dal 2018 tramite due società prestanome che forniscono “supporto militare” (leggasi: massacri di civili) e si assicurano il controllo delle miniere di oro. La COSI (agenzia prestanome) il 31 luglio ha diramato un comunicato di appoggio al golpe in Niger, strumentalizzando la legittimità del sentimento anticoloniale.

    Una carta che riassume le “operazioni militari” del gruppo Wagner in Repubblica Centrafricana, tratto dal rapporto ACLED del 2 agosto 2023.

    Altre strategie si collocano nel solco del soft power costruito pazientemente nel corso di anni o decenni,, tramite l’apertura, il finanziamento e la coordinazione di centri studi, associazioni culturali, organi di informazione, gruppi di pressione che hanno fatto circolare materiale in linea con gli interessi strategici del blocco espansionista e imperialista russo, in maniera simile a quanto successo in Donbass.

    Questo spiega la presenza di così tanti slogan pro-Putin, rivendicazioni filorusse e bandiere russe nelle manifestazioni di piazza degli ultimi anni, dal Mali alla Repubblica Centrafricana, fino ad arrivare agli attacchi dell’ambasciata francese a Niamey.

    Una disamina dettagliata delle attività che indicano la volontà del blocco imperialista russo di impiantarsi nella regione approfittando della crescente instabilità e vuoto di potere, sostituendosi almeno in parte al blocco neocolonialista francese, sarebbe ancora molto lunga. Il punto principale che emerge, ancora una volta, è che gli equilibri in Africa occidentale stanno saltando e che solo un’analisi prospettica di lungo termine può cogliere le implicazioni degli eventi in corso.

    L’altra risorsa economica dell’Africa

    All’inizio di queste considerazioni, è stato detto che due cose non traspaiono adeguatamente nelle letture attuali. Una è lo sfaldamento generale di tutti gli equilibri istituzionali e sociali in Africa occidentale, che spesso viene colto solo di sfuggita. L’altro punto invece sembra completamente assente. Qual è?

    Come citato sopra, l’Africa detiene un’enorme quantità di risorse e per molte di queste addirittura il primato delle riserve mondiali. Di questi dati si parla molto nelle analisi geopolitiche, negli studi delle relazioni internazionali e nelle valutazioni politiche di buona parte della sinistra. Tuttavia, in una prospettiva rivoluzionaria e materialista, manca qualcosa di fondamentale, e cioè la presa in considerazione di un’altra risorsa economica dell’Africa: la forza lavoro.

    Complessivamente, l’Africa detiene di gran lunga il primato mondiale per la crescita democrafica, con un tasso medio del 2,45% dal 2000 in poi. Il Niger registra il tasso di fertilità più elevato al mondo (6,89%) e ha la popolazione più giovane del pianeta (il 50% ha meno di 15 anni). Entro una quindicina d’anni, la popolazione totale dell’Africa potrebbe agevolmente superare i 2,5 miliardi di persone.

    Nonostante la disponibilità in materie prima e risorse di immenso valore economico, l’Africa detiene il primato per tasso di povertà e per indice di sviluppo umano medio. Sui motivi di questo divario, sono già stati scritti fiumi di inchiostro e gran parte della responsabilità è da attribuirsi a secoli di colonialismo europeo che hanno devastato e saccheggiato territori e popolazioni sottoponendole a incredibili livelli di violenza politica e economica. L’Africa non è povera: è impoverita, o per dirla con Walter Rodney, “è stata sottosviluppata“.

    Percentuale della popolazione sotto la soglia di povertà nel 2019 (soglia di povertà: 2,15 $ al giorno, corretta tenendo conto di inflazione e costo della vita). Fonte: Our World in Data.

    Negli ultimi anni, molti Stati africani hanno registrato altissimi tassi di crescita economica, tra i più alti al mondo. Se l’Africa cresce così tanto ma la popolazione anche così tanto povera, dove va a finire tutta questa ricchezza? Non serve chissà quale perspicacia per capire che esistono due processi paralleli e parzialmente sovrapposti: l’appropriazione neocoloniale e lo sfruttamento capitalistico.

    I dati mostrano che nell’ultimo decennio si è assistito a un aumento delle disuguaglianze economiche nella maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana, con una distribuzione della ricchezza che ha visto il 10% più ricco della popolazione concentrare nelle proprie mani quote sempre maggiori, e un 1% che da solo detiene fino al 36% della ricchezza (per informazione: in Niger detiene tra il 16% e il 19%).

    E questa è solo una parte della ricchezza non redistribuita: una grossa parte è direttamente spostata al di fuori dei confini seguendo schemi neocoloniali che tengono le popolazioni africane strette in una morsa micidiale.

    Imperialismi e rivoluzioni

    Ricapitolando: l’Africa produce sempre più ricchezza e ha un potenziale strategico sempre maggiore; questa ricchezza è sempre più concentrata nelle mani di pochi sia nei paesi africani che nelle potenze neocoloniali; e questo avviene nonostante l’espansione demografica, il che crea ulteriore “scarsità” per la popolazione povera a cui questa ricchezza viene sottratta.

    Questo scenario di “scarsità” delle risorse dovuto alla competizione di forze concorrenti, con aumento di violenza economica e politica intra- e interstatale a opera di attori istituzionali e non, è lo scenario che si prospetta a livello mondiale nel prossimo futuro, di cui la situazione in Africa e in particolare nel Sahel è un’anticipazione.

    Bisogna considerare un punto cruciale: la popolazione povera dell’Africa lavora per produrre tutta questa ricchezza. Sarebbe difficile che continuasse ancora a lungo a vedersi depredata, senza battere ciglio, della ricchezza che produce da parte di cricche locali in combutta coi padroni coloniali, di aziende multinazionali eredi indirette (e a volte dirette) dello schiavismo atlantico, di signori della guerra senza scrupoli.

    In questa prospettiva, molte delle forze citate sopra assumono una funzione storica precisa: quella di scongiurare la nascita di un movimento rivoluzionario che faccia seguito alle logiche rivendicazioni di redistribuzione della ricchezza, scardinando i principi chiave dell’appropriazione coloniale e dello sfruttamento capitalistico.

    L’uso del sentimento anti-francese da parte del blocco imperialista russo, appiattendo ogni narrazione su un piano geopolitico e “multipolare” in cui è naturale che i territori del mondo si dividano in sfere di influenza tra grandi potenze regionali, soffoca l’emergere potenziale di un blocco anticolonialista rivoluzionario. Per la Francia e il resto dell’Occidente, nonostante la competizione con la Russia in Africa sia un piatto indigesto, è comunque preferibile rispetto all’affermarsi di un movimento rivoluzionario, che avrebbe un potenziale di destabilizzazione del capitalismo mondiale molto più pericoloso dal punto di vista della borghesia in quanto arriverebbe a toccare la madrepatria coloniale.

    I movimenti rivoluzionari che lottarono per l’indipendenza nell’impero coloniale portoghese condussero alla fine della dittatura di Salazar: armandosi per la liberazione dei propri paesi, contribuirono alla liberazione del Portogallo dal fascismo. Le colonie italiane conobbero una dinamica simile: la prima Resistenza antifascista fu quella anticoloniale, condotta da Omar al-Mukhtar in Libia a partire dal 1923 e seguita da movimenti di guerriglia in Etiopia e Eritrea contro il colonialismo e l’occupazione da parte dell’Impero italiano.

    In quest’ottica, non sarebbe azzardato tracciare un parallelo tra la crescita del sentimento “anti-francese” nel Sahel e l’aumento della conflittualità politica in Francia, particolarmente elevata rispetto agli altri paesi europei nell’ultimo decennio, partendo dal movimento dei gilet gialli alle rivolte dello scorso giugno, passando per il movimento contro la riforma delle pensioni, accompagnati da una svolta autoritaria e repressiva dello Stato francese, che è oggi possibile includere nel club delle “democrazie illiberali”.

    Questa idea dell’imperialismo come argine alla rivoluzione non riguarda solo ciò che la Francia subisce in Africa occidentale, ma anche ciò che attivamente promuove. Come già ricordato, l’intervento francese nel Sahel e la conseguente militarizzazione del conflitto alimentano i gruppi armati conservatori e fondamentalisti: questi ultimi trovano nel sentimento anti-francese terreno fertile su cui far leva e incanalano in ribellioni e insurrezioni di carta tendenze che altrimenti potrebbero finire per organizzarsi politicamente colpendo il cuore del sistema economico.

    I vertici dello Stato francese ne sono coscienti, ma preferiscono questo scenario di morte e distruzione piuttosto che alleggerire la pressione della morsa del capitalismo neocolonialista: scelgono di impedire preventivamente la nascita di un movimento anticoloniale radicale, popolare e rivoluzionario. Sanno che arriverà un momento in cui coloro che da secoli producono ricchezza per il resto del mondo chiederanno inevitabilmente i conti.

    Repressione contro le proteste a Dakar, 3 giugno 2023.
  • Le rivolte in Francia sono una questione di classe

    Queste riflessioni sono state pubblicate anche su Napoli Monitor.

    Il figlio che non è abbracciato dal villaggio
    lo brucerà per sentirne il calore
    (proverbio)

    L’ennesima esecuzione razzista da parte della polizia francese ha innescato una rivolta per certi versi molto più esplosiva di quella del 2005. Le reazioni del governo, della borghesia, di una parte della sinistra, sono di una cecità agghiacciante, lontana anni luce dalla comprensione dell’origine sociale dello scoppio di tale rivolta. All’Onu, che chiede alla Francia di rivedere i metodi della propria polizia e di assicurarsi di prevenire e punire ogni comportamento discriminatorio, il governo di Macron risponde che nella polizia francese non esiste alcun razzismo. Al raro giornalismo ancora lucido che fa notare che la legge votata nel 2017 dall’attuale ministro dell’interno Darmanin ha portato alla quintuplicazione del numero di morti ammazzati dalla polizia, il ministro semplicemente nega che tale aumento sia mai avvenuto, in barba alle statistiche e ai documenti ufficiali.

    Invece di parlare di ciò che ha condotto all’omicidio di Nahel, si evoca la sua morte solo come presunto “pretesto” per bruciare tutto. Se l’omicidio di Nahel è un pretesto, qual è il vero motivo? Secondo Macron sono i videogiochi. Per alcuni osservatori, anche in Italia, incapaci di dissimulare il razzismo, il motivo è semplicemente la provenienza della popolazione in rivolta: irrazionale e presa da una furia immotivata, sarebbe costantemente in attesa di una qualunque scusa per bruciare tutto senza un perché.

    La vera questione neanche si tocca: l’origine di gran parte della popolazione in rivolta è coloniale. Il trattamento che questa popolazione riceve quotidianamente da parte delle istituzioni è coloniale. La gestione politica razzista è coloniale. Le rivolte delle “banlieues” a cui si assiste ciclicamente sono solo un’infinitesima parte della violenza coloniale su cui da secoli si basa la società francese.

    La scarsa conoscenza della questione coloniale francese rischia però di essere letta in maniera limitata da un pubblico italiano. Il colonialismo è ben più del “semplice” razzismo, che ne costituisce il lato culturale: resta il piano economico. Riducendo tutto al razzismo, l’aspetto economico strutturale rischia di passare inosservato. Il colonialismo è stato ed è innanzitutto un sistema che gerarchizza gli esseri umani per colore, nazionalità, origine, statuto amministrativo, e opera su questa base per estrarre ricchezza e distribuirla in maniera socialmente iniqua. Storicamente, il colonialismo ha consentito in maniera sostanziale l’accumulazione originaria, l’appropriazione di risorse e lavoro da parte degli uomini d’affari europei, e ha contribuito allo sviluppo del capitalismo. Oggi, la gestione coloniale della popolazione povera e di origine straniera è ancora la più forte forma di disciplinamento che tiene in piedi il sistema di sfruttamento.

    Le rivolte di questi giorni esprimono ampiamente una rabbia contro questo sistema. Poco importa che non ci siano rivendicazioni politiche ufficiali. La stragrande maggioranza degli oltre mille incendi di edifici ha colpito particolari obiettivi: commissariati, stazioni di polizia, caserme, municipi. La rivendicazione è sotto gli occhi di tutti: basta volerla vedere.

    Inizialmente sono stati attaccati i luoghi del potere poliziesco e delle istituzioni. In un secondo tempo è stato appiccato il fuoco anche ad altri luoghi del servizio pubblico, come scuole e biblioteche. Molta gente, pur comprendendo la rabbia per il razzismo e l’omicidio di Nahel, ha interpretato questi atti come puramente criminali, senza alcun contenuto politico, dimenticando che scuole e biblioteche, per quanto possa dispiacere, sono di fatto strumenti di esclusione sociale. Nonostante il suo valore emancipatore ideale, la scuola è per molti giovani la prima istituzione in cui le disuguaglianze sociali si trasformano in disuguaglianze scolastiche, in cui si subiscono discriminazioni razziste e disciplinamento poliziesco: addirittura, alcuni presidi collaborano direttamente con la polizia segnalando gli allievi più “vivaci”. In questo senso, la scuola non è che un’estensione del sistema poliziesco. In molte biblioteche di quartieri in cui la maggior parte delle famiglie a casa non parla francese, è difficile trovare materiale in lingue diverse. Anche in questo caso, un encomiabile intento emancipatore assume le sembianze concrete di uno strumento di esclusione o di imposizione culturale. L’attacco a questi luoghi è da leggersi come un attacco al sistema di esclusione sociale che opera quotidianamente nei quartieri. Non è un attacco ai “simboli” di tale sistema, ma proprio ai luoghi in cui materialmente esso prende forme visibili.

    In risposta a chi sostiene che la rivolta non abbia rivendicazioni concrete, è ancora più significativo il fatto che rapidamente si siano diffusi a macchia d’olio i saccheggi di negozi di ogni tipo fino ad arrivare al cuore dei quartieri ricchi delle maggiori città – qualcosa che non era mai avvenuto in contesti simili. Come spiegare questa evoluzione? Numerose scene dai quartieri in rivolta testimoniano del dispiegarsi di un momento di apertura, in cui tutto sembra possibile. Cadono i freni inibitori sociali, guardiani del desiderio, e la gente pare voler fare tutto ciò che normalmente è vietato. In questa disinibizione, in questo slancio desiderante, immediatamente emerge il bisogno-volontà di redistribuzione della ricchezza: quella ricchezza da cui il sistema capitalista-coloniale esclude socialmente.

    In questa dinamica di apertura è storicamente normale che capiti un po’ di tutto, e spiace dover fare l’avvocato del diavolo, perché significa che c’è qualcuno che in questa dinamica vede, appunto il diavolo, trasformandola in una questione morale. Perché ci si indigna per delle macchine ribaltate e bruciate e non per le migliaia di ingiustizie quotidiane considerate normali? Il sistema capitalista-coloniale fa in modo che certe categorie di persone abbiano meno possibilità di accedere agli studi; se vi accedono, hanno meno possibilità di concluderli; se li concludono, hanno meno possibilità di trovare un lavoro; se lavorano, hanno meno possibilità di essere ben pagati. Si tratta di una questione prettamente sociale, e sollevarla è squisitamente politico, che lo si faccia scrivendo comunicati ben impaginati o saccheggiando centri commerciali.

    Come mostra il caso di scuole e biblioteche, si potrebbe trovare una motivazione praticamente per ogni edificio dato alle fiamme nell’ultima settimana; a prescindere dalla sua funzione teorica e ideale ci si accorge che si tratta sempre di luoghi in cui si manifestano le disuguaglianze. Perché il sistema di oppressione e di esclusione dalla ricchezza è ovunque, e quando la rivolta esplode riesce a rendere visibile la sua presenza. Per dirla con Brecht, “tutti vedono la violenza del fiume in piena, ma nessuno quella degli argini che lo costringono”.

    Le rivolte in Francia sono una questione sociale. Davanti all’esacerbarsi sempre più intenso della questione delle disuguaglianze, lo stato francese si trova a un bivio: da una parte, l’emancipazione e la redistribuzione sociale della ricchezza, ovvero la costruzione di una società più inclusiva, egalitaria ed emancipatrice; dall’altra, il pugno di ferro per ristabilire l’ordine che produce e perpetua tali disuguaglianze, la violenza nuda e cruda a difesa degli interessi del potere capitalista razzista e coloniale, ovvero la strada del fascismo. In linea con la tendenza degli ultimi anni, acceleratasi vistosamente negli ultimi sei mesi e precipitata apertamente la settimana scorsa, il governo francese ha scelto il fascismo. (monsieur en rouge)

  • La colonizzazione del sapere: la storia nascosta dietro le piante medicinali

    Una versione ridotta di questo post è stata pubblicata su Carmilla Online. Buona lettura.

    “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Generalmente, l’immagine suggerita da questa formulazione è quella di un oggetto che sotto l’influsso di un insieme di forze cambia forma. Pensando in questo modo, tuttavia, si sorvola su un fatto: anche l’insieme delle forze, agendo, si trasforma e anche gli oggetti che le producono sono a loro volta trasformati. Ogni trasformazione ne implica infinite altre, se si allarga lo sguardo.

    Questo fa il libro La colonisation du savoir di Samir Boumediene, pubblicato nel 2017 in francese e purtroppo non tradotto in italiano: allarga lo sguardo partendo dalla storia moderna delle piante medicinali del “Nuovo Mondo”, e lo fa in maniera intelligente, radicale, appassionante. Che molti prodotti oggi parte integrante delle abitudini di centinaia di milioni di persone in Europa siano originari dell’America (si pensi al tabacco, al cacao, al pomodoro) è un fatto risaputo; ma ridurre tutto a meri spostamenti di risorse attraverso l’Atlantico significherebbe non cogliere le implicazioni sociali, religiose, politiche, economiche. Ogni oggetto ha una storia incorporata inscindibile dalla materia tangibile. La colonisation du savoir prova a raccontarla prendendo le piante medicinali come indicatori dei rapporti di forza nella società e spiegando che, visto che la storia è incorporata negli oggetti, “tutti i giorni inghiottiamo dei morti” (pag. 8).

    Il riflesso coloniale

    La prima cosa analizzata nel libro è il rapporto contraddittorio e in costante evoluzione tra i popoli colonizzatori e il sapere dei popoli colonizzati. Quando gli europei giungono in America, si trovano al cospetto di un “nuovo mondo medicinale”, abitato da piante mai viste prima utilizzate da popoli mai visti prima in modi mai visti prima.

    L’atteggiamento dei coloni è dapprima di indifferenza per l’ignoto: se i coloni attraversano l’oceano è per trovare ciò che cercano (per esempio le spezie asiatiche), non scoprire cosa di nuovo esiste sul posto. Non appena si imbattono in qualcosa di vagamente familiare, usano i nomi delle piante e sostanze che cercano, quelle del Vecchio Mondo, eventualmente limitandosi a precisare la provenienza geografica. In realtà, spesso si tratta di piante molto diverse, simili solo per alcune delle loro proprietà. Spinti dalla volontà di trovare precisi prodotti gli europei esagerano le somiglianze e minimizzano le differenze: anche decenni dopo, quando ormai si sa che si tratta di piante diverse, sono reticenti a usare parole nuove per piante nuove. Per questo motivo, “le piante americane sono dei mosaici, ricomposizioni di cose conosciute” (pag. 72). La colonizzazione passa allora per l’imposizione di categorie europee, come forma di “imperialismo linguistico” (pag. 55). Questo gioco di specchi in cui gli oggetti europei sono la norma e tutto il resto del mondo non è che un loro riflesso continua ancora oggi, nascosto per esempio nel criptorazzismo di chi definisce “etnica” qualunque cucina che non sia di origine europea.

    Per certe piante americane gli europei provano non indifferenza ma repulsione ed è chiaro che l’origine di tale disgusto non è tanto da cercarsi nelle loro proprietà organolettiche quanto nel razzismo. Il cioccolato è descritto all’epoca come “brodaglia per porci più che per uomini”, il mate è considerato una bevanda diabolica che fa “vomitare come bestie”, la coca e il tabacco sono ripugnanti. Come descritto altrove, lo stesso vale per altre piante: secoli dopo l’importazione e l’acclimatazione di specie nutritive come la patata o il pomodoro, ancora naturalisti e medici europei mettevano in guardia dalle loro presunte “scarse proprietà nutritive”.

    Xocolatl (da cui “cioccolato”), bevanda maya con cacao, mais, peperoncino, vaniglia, achiote e diverse sostanze psicotrope.

    Tutto si trasforma

    Certi elementi della farmacopea americana poterono attraversare l’oceano ed essere integrati alle pratiche e i saperi medici europei. L’integrazione non fu un semplice passaggio da una sponda all’altra: fu una metamorfosi. Metamorfosi è la parola chiave di tutta la storia delle piante medicinali: subita dalla pianta nella selezione, raccolta, rielaborazione e preparazione in forma di un farmaco; indotta sul corpo di chi usa una pianta; provocata dal confronto con nuove forme di sapere, maniere di vivere, gesti quotidiani.

    Un esempio notevole è costituito dalla china, cui l’autore dedica una buona parte della ricerca. La china si presenta come una “corteccia rossastra e amara”, in grado di curare le “febbri intermittenti”, corrispondenti alla malattia oggi nota come malaria. L’ingresso della china nel repertorio medicinale europeo non è facile, perché cura un male molto diffuso e deve dunque farsi strada tra molti rimedi già di uso comune (pag. 207). In questo contesto nascono accesi dibattiti a suon di libelli, schedule e trattati: per la scienza medica europea dell’epoca, basata sui principi del galenismo, l’efficacia della china contro le febbri intermittenti è “inspiegabile” (pag. 209). Il galenismo (o teoria degli umori) è fondato sulla convinzione che le malattie derivino da squilibri nelle proporzioni di quattro elementi presenti nel corpo umano, caratterizzati da proprietà opposte (caldo-freddo, secco-umido), e che il rimedio alla malattia consista nell’applicazione di trattamenti che ristabiliscano le corrette proporzioni (per esempio trattando una malattia “calda” con un rimedio “freddo”). L’osservazione che la corteccia di china considerata “molto calda” cura malattie “calde” come le febbri intermittenti mette in discussione tali principi, col risultato che il sapere medico è rimodellato e ridefinito e lo stesso accade alle visioni del mondo ad esso sottese. Basti pensare che la china permette l’elaborazione e la diffusione di nuove ricette che rivoluzionano la farmacia europea, che la volontà di applicarla su larga scala come rimedio alla malaria si traduce nella costruzione di ospedali e nell’instaurazione delle prime politiche sanitarie moderne e che le sue proprietà curative facilitano la colonizzazione di Africa e Asia. L’efficacia della china come rimedio specifico per le febbri intermittenti ha conseguenze anche sulla relazione asimmetrica tra medico e paziente, intaccando il potere del primo a favore del secondo, perché chi si ammala può ora fare affidamento allo specifico senza passare per l’intermediazione della figura del medico: non è un caso che molti medici del periodo si oppongano alla diffusione della china tuonando contro i malati che “vanno direttamente in spezieria a comprare ciò che li cura” (pag. 239). Per finire, la materia prima da cui la china si ricava, cioè l’albero di china (Cinchona officinalis), resta per secoli avvolta dal mistero, il che rende frequenti truffe e contraffazioni che instaurano un clima di sospetto tra i vari intermediari nella filiera e aumentano la competizione per la risorsa, con il conseguente peggioramento delle condizioni di vita nei luoghi d’origine della pianta. È chiaro che appropriandosi della china gli Europei non si appropriano solo di una pianta, ma della capacità di gestire le sue proprietà (il suo potere).

    Insomma, i prodotti che attraversano l’Atlantico non sono semplicemente oggetti che cambiano posizione geografica: cambiano nome, forma, scopo, significato, ovvero cambiano natura relazionale, e con loro cambiano tutti gli attori che con essi vengono direttamente o indirettamente a contatto. La trasformazione, lo spostamento e la redistribuzione della materia si accompagnano a metamorfosi occultate: quelle dei rapporti di dominio, dei processi produttivi, dell’ambiente.

    Ciascuna di queste trasformazioni interroga le società: il legno di guaiaco cura la sifilide, ma la sua efficacia non rischia di attenuare la paura e condurre alla lussuria? Va bene importare il tabacco, ma sarà permesso fumare in chiesa? La cioccolata è un alimento o una medicina, ovvero è consentito il suo consumo durante la quaresima? Tutte queste domande che oggi fanno sorridere hanno generato dibattiti con difensori e detrattori, ciascuno con la propria posizione di potere, le proprie credenze e valori, i propri interessi da tutelare. La capacità di Samir Boumediene è non limitarsi a riportare i come e i perché di quei dibattiti, ma anche raccontare le storie di cui quei dibattiti sono stati prodotto intellettuale: storie in cui si intrecciano giochi di potere, pirateria, peripezie di libri perduti e ritrovati, intrighi politici e spinte religiose, operazioni di spionaggio, problemi erettili dei Vincenzo Gonzaga di turno (sic!), missioni scientifiche con obiettivi geopolitici, intere carriere costruite su provvidenziali casualità…

    La pianta di china e la sua corteccia.

    La violenza e l’accumulazione

    Un merito fondamentale di Samir Boumediene in tutta l’opera è di rendere con estrema chiarezza la violenza del processo di appropriazione della conoscenza locale da parte delle varie manifestazioni del potere coloniale. Anche il più comprensivo dei missionari come Bartolomé de las Casas, che contrariamente a molti contemporanei insiste sul fatto che anche gli indigeni abbiano un’anima, così facendo giustifica la loro evangelizzazione e contribuisce allo sradicamento delle culture locali. Anche il naturalista più ricettivo rispetto ai saperi indigeni come Francisco Hernandez, primo europeo a raccogliere organicamente le conoscenze botaniche dei popoli americani adottando addirittura la nomenclatura e la tassonomia nahuatl, non si fida della parola delle persone indigene, le considera incapaci di sfruttare al meglio la ricchezza e la diversità delle risorse del territorio (pag. 113) e si meraviglia che “genti tanto incolte e barbare” sappiano riconoscere con tanta precisione le piante e in generale la natura (pag. 111).

    Il sapere sociale relativo alle piante medicinali è stato saccheggiato e spesso estorto con l’inganno e con la tortura. Questo saccheggio culturale riflette una politica genocida fatta di sfruttamento delle risorse, imposizione di un regime di apartheid razziale, lavoro forzato e schiavismo, esperimenti scientifici sui “nudi corpi” degli indigeni disumanizzati, deportazioni e distruzione di intere società.

    Gli indigeni, prima profondi conoscitori dell’ambiente circostante e padroni di un sapere tramandato di generazione in generazione in società in cui il lavoro di cura è condiviso da tutta la comunità e “la conoscenza medica è comune” (pag. 59), una volta ridotti in schiavitù, separati e deportati per lavorare in veri e propri campi di lavoro magari distanti centinaia di chilometri, una volta morte le persone più anziane custodi di preziose conoscenze, perdono quel sapere, il filo di trasmissione si spezza. Allora, a fronte della spaventosa crisi demografica, la sopravvivenza degli indigeni si trova a dipendere dagli ospedali organizzati da missionari e gesuiti: in questi luoghi mirati all’indottrinamento e alla “pratica della vita cristiana” si applicano le varie conoscenze strappate ai popoli indigeni, che la capillare rete organizzativa ecclesiastica è invece capace di tenere insieme. Il potere si propone quindi come soluzione a problemi da esso stesso creati, e non deve stupire che ciò si traduca in una maggiore oppressione.

    Se la colonizzazione è stata uno spostamento globale verso una distribuzione fortemente asimmetrica delle risorse, più di quanto si fosse mai verificato prima, questa tendenza si è poi intensificata con la nascita del capitalismo e la sua affermazione come forma economica dominante, fino ai giorni nostri con livelli di disuguaglianza inediti nella storia dell’umanità. La relazione tra capitalismo e colonizzazione dell’America ha radici squisitamente materiali: l’accumulazione di risorse naturali, conoscenze e forza-lavoro operata dagli europei sui popoli indigeni americani e sugli schiavi africani della tratta atlantica corrisponde a un processo di accumulazione originaria, momento cruciale per lo sviluppo capitalistico.

    «Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro… Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare “originario” perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente» (Il Capitale, libro I)

    Marx parla delle enclosures dell’Inghilterra del Seicento che espropriarono le masse rurali delle proprietà collettive ad uso comune, ma nella storiografia marxista il concetto di accumulazione originaria è stato esteso ad altri processi, relativi anche a beni intangibili (come i saperi sulla gestione dei corpi nella caccia alle streghe), e queste parole sarebbero altrettanto applicabili alla deportazione degli indigeni come strumento di appropriazione del loro sapere sociale: i “produttori” delle conoscenze mediche (membri delle comunità indigene) e i “mezzi di produzione” (interazione con il proprio ambiente e comunicazione con gli altri membri) sono “separati” tramite meccanismi in parte identici alle enclosures (allontanamento fisico, divieto o impossibilità di riorganizzazione della comunità colpita).

    Del resto è lo stesso Marx a riconoscere il ruolo cruciale della schiavitù nell’ascesa del capitalismo:

    «La schiavitù diretta è il cardine dell’industria borghese, proprio come le macchine, il credito, ecc. Senza schiavitù niente cotone, senza cotone niente industria moderna. Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, le colonie hanno creato il commercio mondiale, e il commercio mondiale è la condizione della grande industria. […] I popoli moderni non hanno saputo fare altro che mascherare la schiavitù nel loro proprio paese e l’hanno imposta senza maschera al nuovo mondo» (Miseria della filosofia, capitolo 2)

    Il sapere morto

    Se l’Europa ha potuto dominare il resto del mondo non solo con la mera forza delle armi ma anche con la sua idea di progresso e la sua scienza, non è mai stato per particolari meriti: come già detto, le condizioni di quel progresso e di quel sapere scientifico sono state il più delle volte estorte con la tortura, il furto o l’inganno. Non è facile distinguere spedizioni militari e missioni scientifiche dell’epoca, e i naturalisti europei sono ben coscienti di ciò che rappresenta il continente americano: un immenso serbatoio di conoscenze di cui appropriarsi. Nel 1763, il naturalista Mark Catesby afferma con ammirazione che l’America “ha dato all’Inghilterra in meno di un secolo una diversità vegetale maggiore di quante gliene abbiano date le altre parti del mondo in più di un millennio”. Ma l’America non ha dato niente: è stata saccheggiata. Più tardi, il medico inglese Henry Barham pubblica un’opera da diffondere tra i latifondisti bianchi americani affinché possano “godere al meglio dei saperi ottenuti da Neri e Indiani”. Ottenuti come? Non viene precisato.

    Nel 1752 un più onesto Pierre Louis Moreau de Maupertuis scrive: “i soli rimedi specifici che siano conosciuti [dagli Europei] si devono al caso o ai popoli selvaggi, non uno si deve alla scienza dei medici”. Qualcosa di simile esiste ancora oggi, seppur in misura differente e meno drastica da quella delineata da Maupertuis: nella ricerca per lo sviluppo di nuovi farmaci una delle strategie utilizzate è attingere alle farmacopee tradizionali per isolare eventuali principi attivi interessanti. Questo mentre si continua ad affermare ideologicamente una superiorità assoluta della scienza accademica, tecnicista e riduzionista a scapito dei saperi medici popolari, quando invece è la prima ad attingere ai secondi, senza dover chiedere il permesso a nessuno e magari firmando brevetti ed esordendo alle conferenze internazionali con “io ho scoperto che…”.

    Come descritto sopra, la perdita dei saperi rende dipendenti da istituzioni di controllo che filtrano il sapere locale trasformandolo e a volte trasfigurandolo fino a renderlo irriconoscibile. La scienza europea accumula conoscenze che al contempo fa sparire.

    La colonisation du savoir mostra come questo sia avvenuto per quanto riguarda le conoscenze relative alle piante medicinali, ma ciò è (stato) altrettanto vero per le lingue, le economie, i modi di pensare, le maniere di vivere. Si pensi solo all’esempio delle lingue: per secoli, seppur in varie forme, si è tentato di salvaguardare il patrimonio linguistico americano (di una varietà impressionante) più annotandolo e descrivendolo formalmente che impedendo che si sfaldassero e infine estinguessero la maggior parte delle comunità che di quel patrimonio erano custodi. Anche quando ha tentato di “proteggere” quelle conoscenze dall’estinzione, la scienza europea non ha saputo farlo che mettendole “sotto vetro”, limitandosi a documentarne l’esistenza. Le pratiche di cura sono diventate sistemi sanitari, i beni comuni sono stati assorbiti dal mercato. Ma un sapere morto è meno prezioso di un sapere vivo, e se le pratiche di cura diventano sapere morto, le parole “pratiche” e “cura” perdono tutto il loro potenziale, così come i beni comuni muoiono una volta mercificati e rivenduti.

    Per evitare l’estinzione delle risorse prelevate per mano delle politiche estrattiviste, un insieme di misure sono attuate per la protezione degli indigeni e del loro ambiente: per esempio, l’instaurazione di un dispositivo che per la prima volta riconosce a qualcuno (la monarchia spagnola) la proprietà di una specie vegetale (l’albero di china). Comincia a profilarsi un nuovo rapporto con le risorse naturali, “la gestione sostenibile delle risorse biologiche” in cui “la preoccupazione ecologica si rivela in tutta la sua duplicità”, giacché si intende proteggere, “più che una risorsa naturale in via d’estinzione, il suo sfruttamento economico” (pag. 285). Benvenuti, insomma, nel capitalismo verde…

    La riduzione della vita alla forma-merce e l’occultamento delle relazioni in cui ciascun oggetto è inevitabilmente imbrigliato corrispondono a quanto Max Weber chiamava “disincanto del mondo”: la perdita della coscienza dell’anima delle cose. La china costituisce un esempio eloquente: da essa dipesero il corso della storia e i destini dei popoli del mondo intero, ma per gli Europei non era altro che corteccia trasportata in grandi casse. Il suo uso sempre più diffuso portò in pochi decenni a un disastro ecologico (pag. 241) al riparo dagli sguardi degli europei che continuavano a richiedere la china-merce come se si trattasse di un prodotto inesauribile e non la porzione di un essere vivente parte di un equilibrio di relazioni ecologiche. Anche l’ignoranza di qualcosa è sintomo di gerarchie e relazioni di potere.

    Il pulque (a sinistra) è ottenuto dalla fermentazione dell’agave (a destra)

    Dietro la cura

    Come già accennato, il potere coloniale limita o vieta l’uso di alcune piante (foglie di coca, pulque, rimedi abortivi, “filtri d’amore”, peyote…). Queste misure sono giustificate in nome della salute degli indigeni (pag. 381), ma è difficile credere alla bontà umana dei legislatori. Se sono promulgati decreti repressivi e se nonostante questo gli usi popolari continuano per secoli, è perché ovviamente non è solo questione di piante. In effetti, non è neanche solo questione di salute. Nella visione del potere coloniale, dietro ciascuna di queste piante si annida il “diavolo”, un particolare rapporto con l’invisibile immanente e onnipresente dietro al visibile sotto forma di spiriti e forze misteriose. Gli allucinogeni permettono agli indigeni di vedere immagini di quelle divinità che il potere coloniale intende estirpare. E se gli oppressori le vogliono combattere, bisogna scegliere da che parte stare. Così la repressione produce ciò che condanna (pag. 339). Le piante diventano strumenti di affermazione dell’identità indigena e di resistenza.

    Allora, il peyote è una pianta medicinale o una pianta rituale? Quando il guaritore della comunità assume il peyote per evocare e interrogare lo spirito sull’origine del male presente nel corpo da guarire e sul rimedio da somministrare, egli si sta richiamando a una concezione della malattia che sarebbe impossibile comprendere fuori da una precisa lettura della realtà (pag. 335), in cui la divinazione tramite allucinazioni fa parte della cura esattamente allo stesso titolo di un decotto di erbe, le due cose sono tappe necessarie di uno stesso processo teso alla guarigione. Chi usa quelle piante a scopo curativo, si affida a una serie di credenze che costituiscono l’impalcatura spirituale su cui si innestano le pratiche mediche: non esiste medicina senza morale.

    L’inscindibilità tra pratiche mediche e concezione del mondo è testimoniata dalla difficoltà incontrata dal potere coloniale nel tentativo di separare gli usi medicinali da quelli rituali, consentendo i primi e vietando i secondi, per legittimare la propria posizione di “protettore della salute”. L’operazione si rivela un fallimento: nelle culture indigene, una tale separazione non ha alcun senso. La distinzione tra pratiche mediche e pratiche non-mediche è una falsa dicotomia.

    Per questo, le politiche sanitarie nascondono invariabilmente aspetti diversi dalla gestione della salute. Nessun oggetto, e in particolare nessun farmaco, nessun trattamento, nessun gesto è fatto solo dalla materia sensibile che lo compone: tutto appartiene a una rete di relazioni. Vietare o imporre un oggetto significa anche vietare o imporre la storia incorporata in quell’oggetto, l’invisibile visione del mondo che gli è intrinsecamente legata.

    Dalla pianta di peyote si ricava un potente allucinogeno.

    Il potere della medicina

    Nel 1751, l’Enciclopedia del sapere illuminista riporta l’aneddoto delle “donne americane che abortivano perché i loro figli non avessero padroni efferati come gli spagnoli” e, attribuendo alla “durezza della tirannia” le cause di una pratica sanitaria, lascia emergere un senso della salute pienamente politico (pag. 315). Del resto, come notato sopra, non esiste medicina che non sia espressione di una certa morale.

    Sul senso della salute si gioca un conflitto profondo che mobilita diverse concezioni del mondo.

    Il potere della medicina è dire cosa è bene e cosa è male per il corpo, che diventa terreno di battaglia, e stabilire se qualcosa è un medicinale, una malattia, una pratica medica, oppure non lo è, relegandolo ad altri campi (religione, superstizione, politica, etica, tecnica…).

    Per comprendere come ancora oggi la medicina sia un potere nella misura in cui definisce il confine tra sfera medica e non-medica, facciamo un salto in avanti di qualche secolo. La quarantena, il distanziamento sociale, l’obbligo di mascherina all’aperto, la chiusura dei confini nazionali, il divieto di passeggiata, il coprifuoco notturno… sono misure sanitarie? Lo sono tutte allo stesso modo? In che misura sono sanitarie e in che misura competono a un campo differente? Quali concezioni del mondo e quali letture della realtà sono mobilitate da ciascuna di queste “pratiche mediche”? In che modo e per quali motivi queste pratiche sono diventate terreno di conflitto?

    È chiaro che ciascuna delle forze in gioco sullo scacchiere sociale teme che la questione della cura apra orizzonti indesiderati. Perché non lavorare sempre da casa per sfruttare meglio la forza-lavoro? Perché non cogliere l’occasione del lockdown per estendere le tecnologie di sorveglianza? Perché non rifiutare l’autorità degli esperti? Perché non usare d’ora in poi la mascherina per camuffarsi scontrandosi con la polizia? Perché non liberarci dell’economia?

    I medici e gli inquisitori “potevano contestare che il mondo visto sotto allucinogeni fosse reale, ma non potevano negare che fosse realmente visto” (pag. 336).

    Il potere coloniale in America dovette arrendersi: per proteggere le forme di vita, anche quando si vuole farlo per poter continuare a sfruttarle, non è possibile separare la sfera medica dalle altre. Le forme di vita necessitano di un corpo “sano”, ma anche di una storia, di un ambiente, di una vita relazionale “sana”. La dicotomia tra l’esigenza relazionale, affettiva, soggettiva, e la verità fisiologica, scientifica, misurabile, è una falsa dicotomia. L’apparente conflitto prende le mosse da due tensioni: “l’una riguarda cosa deve essere considerato attinente alla sfera medica e cosa non deve esserlo; l’altra riguarda l’esistenza stessa di tale scelta” (pag. 352).

    Incontrare il prossimo senza sospetti, avvicinarsi ai propri affetti, vegliare sui propri cari, radunarsi per condividere le emozioni, prendersi le strade con dignità sono essenziali per la vita degli esseri umani.

    Epilogo

    Nella sua opera, Samir Boumediene mette in relazione luoghi ed eventi apparentemente lontani e illustra come la colonizzazione abbia creato legami distruggendone altri: “dei minatori indigeni si ubriacano di vino nelle Ande e delle fattucchiere di origine africana tramano con la coca. In tutta l’America, la miseria e il rancore spingono al suicidio o all’aborto, la paura del maleficio avvelena la vita quotidiana e le piccole vendette si moltiplicano, mutandosi a volte in rivolte. Al prezzo di tutte queste trasformazioni, dall’altro lato dell’Atlantico dei malati possono curarsi e dei borghesi possono bere la cioccolata. La colonizzazione del sapere è simultaneamente interdipendenza e frammentazione dei destini” (pag. 422). Nella lettura di questo passaggio, come non pensare oggi alla catena di eventi, in parte sconosciuti e misteriosi non meno dell’albero di china all’epoca, che hanno portato alla proclamazione dello stato di pandemia mondiale, al tracollo delle economie e quasi al collasso dei sistemi sanitari di molti paesi?

    Ecco, allora, cosa insegna questo libro: prima di tutto, che in questo mondo frammentato anche se iperconnesso, la storia continua a impregnare tutto e a vivere dietro ogni cosa. La resistenza non muore mai. In secondo luogo, che l’appropriazione delle forme del sapere (lingue, usi, conoscenze) non è un contorno della storia della colonizzazione, un effetto collaterale della conquista, bensì un suo punto fondamentale: addirittura una sua condizione, con conseguenze sul significato pratico di decolonizzazione e sulla riflessione politica in seno al movimento antirazzista e anticoloniale.
    Ma soprattutto, punto oggi di estrema attualità, rivela ciò che di non scontato esiste dietro la cura e la medicina e come diversi modi di porsi rispetto alla salute, alla cura del corpo e della mente, alla responsabilità verso il prossimo possono essere, anzi certamente sono, dietro ogni gesto.

  • Sui fatti di Parigi

    Di fronte ai fatti parigini, occorre riflettere. Esiste oggi un’organizzazione che attacca popolazioni straniere in nome di una pretesa superiorità morale, che è fermamente convinta di agire nel giusto, è sostenuta da ingenti risorse finanziarie e fa ampio ricorso alla propaganda ideologica per incutere terrore ed ottenere consenso e, all’occorrenza, sottomissione. Questa organizzazione, negli ultimi quindici anni, ha mietuto centinaia di migliaia di vittime e prende il nome di Stati Uniti d’America. Con il supporto morale, economico e militare di altre organizzazioni (Stati alleati, aziende, potentati economici), essa ha assoggettato per decenni le popolazioni del Medio Oriente tramite il finanziamento di regimi dispotici e autoritari, ne ha calpestato il diritto all’autodeterminazione con la costruzione di governi fantoccio al servizio degli interessi neocoloniali, li ha depredati delle risorse dei loro territori, ha distrutto interi ecosistemi o ne ha minacciato l’esistenza mettendo in pericolo di vita innumerevoli comunità umane in ogni parte del globo terrestre.

    Dopo le morti di Parigi, si fa strada in Europa, con una forza di portata paragonabile forse solo a quella dei fatti dell’11 settembre 2001, l’idea che “ormai non ci si può più sentire al sicuro”, e anche se la probabilità di morire per un incidente su un volo di linea o cadendo da un’impalcatura resta ordini di grandezza più alta di quella di morire a causa di un attentato terroristico, forse ciò può esser vero; eppure, nella maggior parte del pianeta, è da parecchio tempo che “non ci si sente più al sicuro”, direttamente o indirettamente a causa di meccanismi appositamente costruiti per garantire che in piccole aree isolate ci si possa ancora sentire al sicuro: regimi repressivi che offrono il proprio apparato poliziesco per arrestare scomodi flussi migratori, governi compiacenti che promuovono legislazioni permissive in materia di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, totalitarismi conniventi che concedono la possibilità di trattare i prezzi del mercato petrolifero mondiale in cambio della facoltà di violare sistematicamente la dignità e i diritti umani, apparati di controllo che schiacciano la libertà di parola, servizi segreti che orchestrano e appoggiano sanguinosi colpi di Stato. L’ISIS in Iraq è nato proprio perché, anche grazie all’intervento statunitense, “non ci si sentiva al sicuro”. L’integralismo religioso ha fatto leva sul sentimento di rivalsa nei confronti dell’Occidente che occupa militarmente, sfrutta economicamente e impone propri modelli culturali, sociali e politici: da questo all’aggressivo espansionismo il passo è breve, dato che ad azione bellica statunitense ha corrisposto una reazione uguale e contraria, altrettanto bellica.

    Scopo di questa riflessione non è, tuttavia, parlare di chi ha organizzato gli attentati di Parigi. Stragi paragonabili per tributo di sangue e morte avvengono con una frequenza altissima, ma finché ci si sente al sicuro al di qua del filo spinato delle frontiere e finché quelle stragi sono patrocinate da un “totalitarismo buono”, lo spettatore non è scosso nella coscienza.Certamente, da spettatori europei non si può non restare allibiti e scossi di fronte a quanto è successo, già solo per una mera questione di più facile immedesimazione: le oltre centoventi persone morte a Parigi sono molto simili a noi, mediamente avranno avuto una giornata e una vita molto simili alle nostre giornate e alle nostre vite. Ma bisogna riconoscere che, aldilà di questo, l’indignazione, lo sconcerto e l’orrore che ci riserviamo di provare in occasioni come questa molto più che in altre sono arbitrari. Anzi, non proprio arbitrari: sono in buona parte indotti, così come in buona parte è sapientemente indotto il terrore che sarebbe significativamente ridimensionato se i giornali si esimessero dal raccontare la tragedia come “scontro di civiltà” (quando, a ben vedere, lo scontro è tra poteri legati da alleanze incrociate).

    Se, come c’è da aspettarsi, il terrore dell’opinione pubblica sarà usato come pretesto per la riduzione delle libertà individuali e collettive e degli spazi di agibilità politica, per la revisione delle politiche migratorie (come sta già accadendo in Polonia, nonostante immigrazione e terrorismo abbiano ben poco a che fare l’uno con l’altra), per favorire interessi geopolitici tramite guerre, violazioni di sovranità e “interventi umanitari” in cui si bombardano ospedali, allora mi dispiace ma tenetevi il terrore. “Al sicuro” devono potercisi sentire tutti, non voglio scegliere tra barbarie per cui parteggiare.

  • La contraddizione del cosmopolitismo

    «Non si integrano», si sente dire degli immigrati: non rinunciano alle proprie usanze, né alla propria lingua, né alla propria cultura, né smettono di nutrire un più o meno profondo senso di appartenenza alla propria comunità, cieco e irrazionale. In realtà, tutto questo è normale e comprensibile per chiunque sia stato emigrato per almeno un certo periodo della propria vita, incluso il sottoscritto, che in un paese straniero ha stabilito in generale molti più contatti e relazioni più robuste con italiani che non con la popolazione autoctona, nonostante la relativa somiglianza e vicinanza geografica, storica e culturale tra il paese di emigrazione e quello di immigrazione (figuriamoci dunque l’entità e l’intensità dei meccanismi individuali e collettivi che si innescano quando la differenza è parecchio più marcata). Il motivo è chiaro: tra persone appartenenti alla stessa comunità esiste un substrato, una base culturale e linguistica comune, che permette di stabilire con più facilità legami interpersonali. Pertanto, niente di strano si può attribuire alla tendenza degli immigrati a non privarsi del supporto, anche solo immateriale, della propria comunità originaria, perché si tratta di un consueto fenomeno sociologico, osservato in tutte le epoche e in tutte le società che sono state interessate da flussi migratori. Questo fenomeno, tuttavia, non previene necessariamente l’integrazione nella società di immigrazione; ma allora, perché chi conserva un senso di appartenenza alla comunità di origine è tacciato di mancata integrazione, spesso anche da chi è dotato di una mentalità aperta al confronto, al dialogo e al rispetto delle diversità e si professa progressista in materia di immigrazione?

    Per rispondere, escludendo a priori le possibili risposte chiaramente conservatrici o di matrice nazionalistica e xenofobica, bisogna capire cosa intende una parte del pensiero progressista quando accusa le comunità di immigrati di essere “chiuse”, di ghettizzarsi, di non volersi integrare o conformare ad una serie di principi minimi la cui adesione è ritenuta imprescindibile per la convivenza nella società occidentale. Queste accuse sono formulate sulla base di alcune evidenze: molte comunità di immigrazione spesso conservano una forte autonomia in termini di gestione delle controversie all’interno dei gruppi, di religione, di lingua, di istruzione e formazione dei giovani, di tradizione e folklore, rispettano usanze e regole tipiche della comunità. Si mantengono dunque almeno parzialmente autonomi dalla restante società. Tuttavia, essi sono integrati nella società: per definizione, l’integrazione è «il processo attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di un qualsiasi sistema sociale, aderendo in tutto o in parte ai valori che definiscono l’ordine normativo» e in un modo o nell’altro queste comunità, interagendo con il resto della società, sono parte di essa e in essa funzionano come ogni sua altra parte, attraverso concessioni e compromessi.

    Invece, secondo l’altra concezione dell’integrazione, questa consisterebbe nella ridefinizione delle priorità dei valori tale da subordinare le proprie origini e appartenenze particolari ad un sentimento universalistico, o addirittura nella rinuncia di tali origini e tali appartenenze particolari, per abbracciare un sentimento universalistico che induce piuttosto a vedersi come “cittadini del mondo” scevri da atteggiamenti considerati provinciali, arretrati ed escludenti (sebbene, per esempio, de facto in Italia la procedura amministrativa che riconosce formalmente e istituzionalizza l’integrazione prevede la sottoscrizione di una Carta dei valori tutt’altro che lontana dall’essere provinciale, arretrata ed escludente; si veda L’accordo di integrazione come caso di discriminazione istituzionale in Italia, saggio di Paolo Cuttitta in Razzismi, discriminazioni e confinamenti, a cura di Mario Grasso, edizioni Ediesse, 2013).

    Eppure, «la prospettiva universalistica e cosmopolitica non implica affatto che ciascuno di noi rinunci a valori, vocabolari o virtù ed eccellenze che assumono il loro senso pertinente entro contesti dati e assegnati. […] Essa è il frutto maturo […] di una tribù. Si tratta di nient’altro che della tribù o del clan “occidentale”. Questa tribù ha fra i suoi usi e costumi quello di autoclassificarsi come universalistica e cosmopolitica. Per dare alla classificazione una maggiore stabilità e forza, la tribù definisce gli esterni o gli stranieri come tribali. […] Noi ci impegniamo ad adottare una prospettiva universalistica entro un contesto e una tradizione» (si legga la validissima Prefazione di Salvatore Veca a Per la pace perpetua, Immanuel Kant, edizioni Feltrinelli, 1991). In fondo, sentirsi cittadino del mondo equivale a sentirsi occidentale: non esistono società che non producano culturalmente il senso di una qualche forma di identità o appartenenza alla comunità, e la società occidentale non fa eccezione.

    E, del resto, come puoi sentirti cittadino del mondo quando nel mondo in cui vivi «una minoranza di nazioni costituisce un arcipelago di isole di relativo benessere in un mare di tirannia e di miseria disumana e la preservazione di un tenore di vita elevato dipende assolutamente dal rigido controllo dell’immigrazione» (la metafora dell’arcipelago e del mare è un prestito da Thomas Nagel)? Come puoi sentirti cittadino del mondo quando  il mondo ti opprime, e non lo sai solo a parole, ma ti pesa ogni giorno in tutta la sua oppressione? Come puoi sentirti cittadino del mondo, quando del mondo non sei cittadino ma suddito o schiavo? Essere cittadini del mondo è una prerogativa di chi può vantare l’appartenenza alla cultura occidentale, un lusso che ti puoi permettere solo se il mondo ti è assoggettato.

    Tuttavia, nonostante questo, si può ragionevolmente ritenere che questo principio di fratellanza e solidarietà che porta ad essere e a sentirsi cittadini del mondo sia espressione di un valore moralmente superiore, ma se così è, lo è solo nella misura in cui il cosmopolitismo è liberazione più che assoggettamento. Chiedere la rinuncia a qualsiasi forma di tradizione o attaccamento alla cultura o comunità di provenienza come prezzo da pagare per essere cittadini del mondo (la classica retorica che legittimava e legittima ancora il colonialismo e l’imperialismo come azioni benevole intraprese per civilizzare i popoli estranei alla tradizione europea: il cosiddetto “fardello dell’uomo bianco” della celebre poesia di Rudyard Kipling) è un livellamento di abitudini e valori a canoni socialmente e storicamente determinati, conformi ad una particolare cultura, quella occidentale, dunque è una forma di assoggettamento a tale cultura. Al contrario, riconoscere il diritto di esistenza alle diverse forme di vita ed espressioni di cultura umana presenti nel mondo, ovunque esse siano, conferendo così loro una cittadinanza effettiva e gestendo le tensioni e le differenze entro tale cornice di equità, costituirebbe un cosmopolitismo liberante. Peraltro non c’è da stupirsi della duplicità contraddittoria del concetto di cosmopolitismo: il cosmopolitismo è parallelo alla globalizzazione, e come questa non può non essere duale e contraddittorio, paradossalmente non può generare connessioni e spazi di azione senza generare anche frontiere e organi di repressione. La direzione che la globalizzazione e il cosmopolitismo possono prendere nella loro inevitabile continua oscillazione tra liberazione e assoggettamento dipende dai rapporti tra le forze in gioco. Non bisogna lasciare che questa direzione la decida chi ne predilige l’aspetto assoggettante, sentendosi o meno cittadino del mondo.

  • Il “nuovo patriottismo” dell’UKIP in due esempi

    Il partito euroscettico UKIP, il più votato in UK alle ultime elezioni europee, è noto per la capacità che ha avuto, al pari di simili rigurgiti destrorsi continentali, di mascherare le proprie posizioni di estrema destra imponendo nel dibattito pubblico varie proposte radicali senza ricorrere ad argomenti apertamente razzisti o nostalgici del passato. Molto è stato scritto in proposito, tra cui un’interessante recensione sul fenomeno generale della “nuova internazionale nera” e, soprattutto dopo il trionfo elettorale dell’UKIP, altrettanti fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla natura di quest’ultimo. Resoconti di fuoriusciti, articoli d’inchiesta ed eventi giudiziari hanno rivelato inquietanti aspetti sulle tecniche di costruzione del consenso utilizzate dai partiti cosiddetti “populisti” che sarebbe più opportuno definire di “destra radicale”. Il successo di tali tecniche risiederebbe nel non dichiararsi apertamente razzisti o nostalgici del passato, evitando argomentazioni riconducibili a retoriche chia ramente identificabili.

    Come discusso altrove, il problema del razzismo è ridotto a una questione, puramente formale, di etica e di decoro borghese: è sufficiente dichiararsi contro e deprecare queste entità astratte che sono i razzisti, basta che nessuno si definisca razzista apertamente (pur continuando ad agire secondo le proprie posizioni) ed ecco eliminato il problema.

    Tuttavia, ogni tanto qualcosa traspare molto più di quanto si intenda lasciar trasparire. A titolo di esempio, sono significativi due casi, l’uno sul dichiararsi “apertamente razzisti”, l’altro sull’evitare di esternare sentimenti “nostalgici del passato”.

    Il primo esempio è il manifesto lanciato dall’UKIP per presentare i punti salienti del programma della forza politica. Nella seconda pagina del manifesto, che tratta di immigrazione, compare la frase seguente (traduzione mia, ndr): «Gli altri partiti si sono impegnati a favore dell’allargamento dell’UE a Turchia, Albania, Moldavia e molti altri paesi. Secondo le regole europee, tutti i loro cittadini saranno autorizzati a vivere e lavorare in UK». Agitare lo spauracchio di un’invasione di turchi, albanesi e moldavi, che sono nazionalità spesso oggetto di pregiudizi razzisti, non significa forse ammettere che francesi e tedeschi, ai quali è già concessa la regolare permanenza in UK, sono accettati molto più di buon grado? Non è questo dichiararsi apertamente razzisti? (Tralasciando il fatto che lo stesso utilizzo del concetto di “invasione” è fuorviante, una stortura utile esclusivamente a disinformare a fini razzisti.)

    Il secondo esempio è una dichiarazione rilasciata di recente da Peter Whittle, “Culture Spokesman” del partito, secondo il racconto di un giornalista. Whittle espone una «teoria emergente del patriottismo», un nuovo modo di intendere l’appartenenza nazionale. «Che c’è di male ad essere britannici?» si chiede il portavoce del partito prima di scagliarsi contro chi è «schiavo del senso di colpa per il passato coloniale britannico». Si tratta non solo di un’esternazione nostalgica, ma anche di un’accusa morale per coloro che, a detta di Whittle, non onorano né ricordano con i dovuti sentimenti di rispetto l’imperialismo e il colonialismo. Ovvero. Non si capisce poi come si possa accusare di essere schiave del senso di colpa per il passato coloniale quelle stesse istituzioni e autorità che cercano da sempre di insabbiare, censurare e rimuovere le tracce di tale passato. Il colonialismo britannico fu questo. L’imperialismo britannico fu questo. Le parole sono pietre.