Cenere, cenere e polvere e sete troverete. E una torre che tutto scruta.
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Le ideologie sono sempre degli altri
(breve manuale di autodifesa nell’era post-ideologica)
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C’è chi dice che l’uguaglianza sociale tra gli uomini «porterebbe la società ad atrofizzarsi», perché il singolo individuo non troverebbe più ragioni per fare del suo meglio al fine di contribuire allo sviluppo culturale, scientifico, economico della società in cui vive, se non gli fosse garantito un tornaconto strettamente personale.
A prescindere dall’adesione o meno al concetto espresso in questa frase, intendo mostrare che essa è di natura ideologica, né più né meno della frase «il capitalismo è intrinsecamente ingiusto», che è ovviamente stata tacciata di essere ideologica e non aderente alla realtà.Cominciamo con un primo concetto: la parola “ideologia”, nel discorso che segue e ove non diversamente specificato, è usata nella sua accezione comune, quella giornalistica e dei saltimbanchi dei salotti televisivi. Ovvero, è un’interpretazione della realtà che si pone dei punti di riferimento e degli schemi interpretativi e che fa ricadere praticamente ogni fatto sociale, politico, economico, culturale, nella sfera di interpretazione definita da tali schemi. Spesso l’accusa di essere ideologico è usata per screditare l’interlocutore, sottintendendo che l’ideologia è un male da estirpare, per persone dalla mente chiusa, incapaci di accettare qualunque cosa che non si accordi perfettamente con i loro dogmi, i loro miti e le loro idealizzazioni.
Questa retorica contrappone alle ideologie, vecchie e sconfitte, le idee, nuove e portatrici di pensiero critico; allo stesso tempo afferma la necessità di basarsi sui fatti e di adottare un pensiero post-ideologico per il bene dell’umanità, pensiero che è insegnato nelle scuole e nelle università ed è veicolato dai mezzi di comunicazione di massa, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente. Però qualcosa non torna nella pretesa di essere post-ideologici: se l’ideologia è uno strumento di interpretazione dei fatti, cosa significa superare le ideologie? Se significa rinunciare a schemi organici di interpretazione della realtà, cioè osservare i fatti senza la pretesa di interpretarli, allora tale superamento non ha senso.
Prima di tutto perché l’oggettività assoluta non esiste: neanche la scienza, che è quanto di più vicino all’oggettività l’uomo abbia mai prodotto, rinuncia all’interpretazione dei fatti, anzi è essa stessa una loro interpretazione. I fatti, qualunque sia la loro natura, devono essere interpretati e l’interpretazione che se ne dà costituisce quella che comunemente è detta ideologia.
In questo modo cade la distinzione tra idee e ideologie. Cosa sono le idee, astrazioni slegate dalla realtà dei fatti? No: se così fosse, di che utilità potrebbero mai essere? Anche le idee derivano da un’interpretazione, che non è concettualmente diversa da quella che conduce alle cosiddette ideologie.Ma se il superamento delle ideologie non è possibile, che cosa nasconde la pretesa di essere post-ideologici?
Propugnare il superamento delle ideologie significa di fatto sostenere un’ideologia del pensiero unico, in cui si accettano le idee e si respingono le ideologie: generalmente chi fa questo discorso di contrapposizione tra idee e ideologie tende a considerare idee tutto ciò che fa parte dell’ideologia dominante e ideologia tutto ciò che non ne fa parte. La distinzione tra le due cose è dunque fittizia ed arbitraria. Anzi, con una strizzata d’occhio diciamo pure che è ideologica (marxianamente, questa volta!).Così, l’affermazione «il capitalismo è intrinsecamente ingiusto», che si basa su un patrimonio filosofico e politico che spazia da Marx a Žižek passando per Marcuse e Debord, è ideologica tanto quanto la convinzione che «l’uguaglianza sociale porterebbe la società ad atrofizzarsi», che descrive ciò che accadrebbe se l’uguaglianza sociale fosse praticata in un sistema capitalistico, che ha le sue leggi economiche difficilmente applicabili ad altri sistemi. Infatti, l’esistenza in passato (ma anche nel presente) di società egualitarie, spesso basate sulla distribuzione equa delle risorse e della produzione, che non sono implose, ma anzi sono prosperate per secoli o millenni, dimostra bene che l’affermazione ha scarsa capacità descrittiva dello stato reale di cose, non appena si esce da un sistema capitalistico.
Ora, che l’economia borghese pretenda velleitariamente di descrivere leggi universali è già stato detto da qualcuno che ne sapeva sicuramente più di me, ed è stato poi confermato da altri e da altri ancora.
Il punto è prenderne coscienza, tutti, e non farci ingabbiare dalla logica del pensiero unico. -
Il migliore dei mondi possibili al tempo del pensiero unico
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Riporto in versione integrale una discussione digitale avvenuta tra me e alcuni miei amici (uno in particolare), che spero possa dare spunti di riflessione ai lettori. La continuazione del dibattito è naturalmente benvenuta.
La discussione si articola inizialmente su un video, che in realtà non è indispensabile vedere (e non costa nulla, è breve) per poter comprendere il resto. Basti sapere che si parla di decrescita: un esponente del Movimento 5 Stelle, Giovanni Favia, sostiene la teoria della decrescita, mentre il responsabile di economia del Pd di Ferrara, Luigi Marattin, la boccia come inconsistente.
Giuseppe: Devo ammettere di non essere molto informato sul tema della decrescita. Però nessuno dei due dice cazzate. È vero, come dice Marattin, che il segno + davanti al PIL ci vuole, ma è anche vero, come dice Favia, che se fai un incidente e deve venire ambulanza, carrattrezzi, eccetera, il PIL cresce, ma non è che noi stiamo effettivamente meglio.. Credo il tema sia piuttosto complicato, non a caso ci sta lavorando Stiglitz.
Tancredi: Sono sicuramente meno informato di te sul tema. Comunque sì, sono d’accordo con ciò che dici.
Piero: Perché dovrebbe essere indiscutibilmente vero, ovvio ed evidente che «il segno + davanti al PIL ci vuole»? Io non ci trovo un minimo di questa verità, ovvietà ed evidenza.
Giuseppe: Perché, ad oggi, rimane il miglior indicatore di cui disponiamo per misurare il benessere di un paese. Come dice Marattin nel video, il segno – davanti al PIL vuol dire licenziati, disoccupati e cassintregrati. Se poi vogliamo discutere del sistema malato, che non funziona, di diversi modelli di sviluppo economico, quello è altro conto. Allo stato attuale delle cose dovremmo sempre augurarci di avere il segno + davanti al PIL.
Piero: Sinceramente mi auguro che si riesca a scardinare il sistema malato basato sulla necessità di avere sempre il segno + davanti al PIL. Proprio perché allo stato attuale di cose un PIL negativo significa licenziati, disoccupati, cassintegrati io penso che il mito del PIL sia un’arma dei padroni con cui questi possono ricattare il resto della società, come con lo spread e la morbosa ricerca di approvazione di scelte politiche da parte dei mercati, considerati come un’entità astratta ed impersonale. «Aboliamo l’articolo 18 altrimenti lo spread sale! Tagliamo le borse di studio, ce lo chiedono i mercati! Privatizziamo tutto o il PIL va in rosso!».
La questione, per come la poni («allo stato attuale di cose»), sembra non potersi risolvere in alcuna alternativa al neoliberismo e al capitalismo finanziario, sembra che il fatto che il PIL debba essere sempre positivo sia una legge inconfutabile della natura. Allora io dico che non mi accontento di augurarmi un PIL in crescita allo stato attuale di cose, ma che voglio cambiarlo, lo stato attuale di cose. Non so se mi spiego.
Eppoi esistono anche queste cose: http://www.benessereinternolordo.net/Scusa per i pensieri espressi confusamente.
Tancredi: Se il segno più non vuol dire necessariamente incremento del benessere, il segno meno vuol dire disoccupazione. Se ciascuno di noi incominciasse a consumare solo i prodotti del proprio orto il PIL diminuirebbe, probabilmente aumenterebbe il nostro benessere (magari si tratta di prodotti biologici, poi diminuisce anche l’inquinamento) ma diminuirebbe quello di chi fino ad ora ha lavorato nel settore agricolo (che si trova senza lavoro).
Se si fanno degli altri interventi e si trovano delle soluzioni a questa contropartita della diminuzione del PIL allora la cosa funziona, altrimenti, come dice Marattin più realisticamente, sarebbe meglio parlare di “conversione dell’economia”/“qualificazione della crescita”.Piero: Ma (molto riduttivamente e semplicisticamente) il lavoratore del settore agricolo che si trova senza lavoro non può anche lui coltivare come tutti gli altri? Immagina un attimo: tutti coltivano e chi non può coltivare ne riceve un po’ dagli altri, «todo para todos, nada para nosotros».
Jack: Ragazzi non scordiamoci cosa diceva Toni Negri riguardo al fatto che possiamo lasciare alle macchine il lavoro alienante (me lo posso anche essere sognato, ma mi ricordo così).
Giuseppe: Il PIL misura il valore totale (al netto dell’inflazione) dei beni prodotti durante l’anno da un paese. In altre parole, è una misura della produzione industriale. Ora, si può immaginare un mondo in cui si produce di meno, lavorando di più? Se la produzione cala, diminuisce anche il bisogno di forza-lavoro e, quindi, aumenta la disoccupazione. Personalmente, non riesco ad immaginare come si potrebbe avere più occupazione producendo di meno. Data questa premessa, il PIL è e resta un importante indicatore per la situazione economica di un paese e, qualsiasi modello di sviluppo abbiamo in testa non possiamo non preoccuparci dell’andamento del PIL.
Il capitalismo resta ad oggi il miglior sistema economico che si sia riusciti ad attuare. È’ sicuramente pieno di difetti e aspetti “oscuri” ma ciò non toglie che si possa migliorare (ed è a questo che gli economisti lavorano, anche se qualcuno li immagina come degli stregoni malvagi pronti a tutto pur di conquistare il mondo). Anche la finanza rapprenta un miglioramento del capitalismo, contrariamente a quanto si possa pensare. Costituisce un ottimo strumento per la circolazione dei capitali e fornisce a tutti (non solo ai superpotenti) la possibilità di rimediare denaro più velocemente e facilmente per i propri investimenti. Anche la finanza poi è piena di difetti e se ha portato all’attuale crisi, è a causa di giochi di potere e dell’eccessiva innovazione che si è avuta in mancanza di regole e che ha portato alla creazione di strumenti semi-sconosciuti e pericolosi (vedi muti sub-prime, securisation, abs, cdo e via dicendo).
Poi possiamo anche decidere di tornare ognuno a coltivare la propria terra, ma lo sviluppo e il progresso hanno un prezzo e, onestamente, a periodiche epidemia di colera o che altro, preferisco periodiche crisi finanziarie che, in un modo o nell’altro, si superano sempre.Piero: Mi sembra di capire che facciamo partire i nostri ragionamenti da basi troppo differenti e inconciliabili: io di sinistra, tu di destra.
Se non riesci a immaginare come si possa avere più occupazione producendo di meno posso proporre un’idea: lavorare tutti e meno, la produzione globale del pianeta è di moltissimo superiore ai reali bisogni della popolazione mondiale. Per fare un esempio, c’è cibo a sufficienza per sfamare ben più dei 7 miliardi di persone, eppure quasi 2 miliardi soffrono cronicamente la fame. Lo sai perché? Grazie all’amato capitalismo e alla globalizzazione neoliberista, una manciata di multinazionali sottraggono terreno all’agricoltura di sussistenza sfruttandolo per piantagioni di té, tabacco e caffè, perché sono più produttive, competitive sul mercato globale e quindi «aumentano il PIL». Ma è più importante aumentare il PIL o dare da mangiare a milioni di famiglie espropriate della propria terra?
E poi, gli aspetti “oscuri” del capitalismo e della finanza, la perfettibilità del sistema, l’elogio della finanza buona contro quei cattivoni degli speculatori che ci hanno portato all’attuale crisi. Questa storia che c’è un capitalismo cattivo e uno buono è un meme che si ripete come un mantra ogniqualvolta si metta in discussione la struttura intrinseca del modo di produzione, di accumulazione e di distribuzione attuali. Il capitalismo è intrinsecamente ingiusto, puoi provare a migliorarlo, ma con scarso, anzi scarsissimo successo. Questo era l’obiettivo dei partiti socialisti, riformisti e socialdemocratici di tutto il Novecento e dove ci hanno portato? A miliardi di morti di fame e ad un’isola di pace e prosperità (a dir la verità ultimamente neanche molto sicura) in un oceano di povertà e guerra.
Con questo non propongo assolutamente di tornare ognuno a coltivare la propria terra, come qualche decrescitista e comunitarista dell’ultim’ora, nostalgico dei bei tempi andati del Medio Evo. Se è questo che hai capito dovrei scrivere molto di più fino a farmi venire l’artrite e la tendinite insieme, perché in sostanza e molto in breve, quello che propongo è la rivoluzione (e non perché sono un romantico o un utopista o un idealista o un pericolosissimo marxista rosso, che sono tutti appellativi con cui, se vuoi, puoi anche chiamarmi).
Giuseppe: Sicuramente hai ragione nel dire che partiamo da basi differenti: io cerco di basarmi sui fatti, tu mi sembra più sulle ideologie. Scusa ma non mi prendo nemmeno la briga di rispondere alla tua prima frase. Certi argomenti mi sembrano fatti più di retorica che di logica.
Demonizzare il capitalismo per intero basandosi sui suoi mali mi sembra un po’ ipocrita. La nostra democrazia ha tanti difetti e spesso ci lamentiamo di come non funzioni a dovere, eppure continuiamo a ritenerla il modello migliore e a cui tendere di giorno in giorno. Perchè allora alcuni aspetti negativi del capitalismo, dovrebbero rendere tutto il capitalismo stesso un sistema marcio?
Le ruberie e le devastazioni delle grosse multinazionali nei paesi del terzo mondo rappresentanto sicuramente uno dei mali del capitalismo, ma ciò è dovuto più alla mancanza di regole e, spesso, alla complicità dei governi di quei paesi, più che all’ingiustizia intrinseca del capitalismo. L’Italia e i paesi occidentali sono costellati di multinazionali, eppure non mi sembra che noi facciamo la fame.Su quali basi affermi che il capitalismo sia “intrinsecamente ingiusto”? Se ci ispiriamo ai principi, quelli del capitalismo mi sembrano anche preferibili: il merito viene premiato, il denaro ripaga i tuoi sforzi, per cui “chi fa di più avrà di più”; mi sembra molto meglio che “chi fa di più avrà quanto gli altri”, indipendentemente dagli sforzi. L’uguaglianza va garantita nei punti di partenza, nelle capacità potenziali, non nel punto di arrivo. So bene che la realtà del capitalismo attuale è ben diversa e spesso succede tutto il contrario di quel che dovrebbe, ma d’altronde non mi pare che nell’URSS (o in altri paesi che hanno sperimentato sistemi di produzione comunista/socialista) tutti fossero felici e contenti, anzi. Mi dirai che non si è mai avuta una vera forma di comunismo nella storia, ti posso rispondere con la stessa argomentazione che non si è mai avuta una forma di capitalismo perfetto, ma possiamo sempre provare ad avvicinarci un po’.
Facciamo la rivoluzione, e poi? In cosa consisterebbe questa rivoluzione? Cosa dovrebbe venire dopo? Il mondo delle favole è bello e attraente, ma la realtà, purtroppo, è tutta altra cosa.
Piero: Ho riletto diverse volte la mia prima frase per cercare che cosa la rendesse poco logica. Ho avuto scarso successo, quindi ignorerò anche io questa sottile arroganza.
Tu dici «io cerco di basarmi sui fatti, tu mi sembra più sulle ideologie»; mi sembra di aver riportato alcuni fatti, come i monopoli della distribuzione alimentare e i tentativi storici fallimentari di indirizzare socialmente il capitalismo. Che questi siano fatti è innegabile, come è innegabile che per argomentare la mia posizione io mi sia basato su di essi. Non capisco quindi perché dici che non mi baso sui fatti ma sull’ideologia. Cosa intendi per ideologia? Per me è uno strumento di interpretazione della realtà, quindi non è da contrapporsi ai fatti. Se hai intenzione di rispondere che è necessario abbandonare l’ideologia per basarsi sui fatti oggettivi, metto le mani avanti dicendo che ritengo che ciò sia impossibile: i fatti, comunque vada, qualunque sia la loro natura, vanno interpretati e la interpretazione che se ne dà costituisce l’ideologia; abbandonare l’ideologia significa abbandonare l’interpretazione dei fatti, il che a mio parere non è una cosa sensata. Ovviamente va da sé che questo discorso vale soltanto se per ideologia io ho inteso ciò che tu intendevi.
Tu dici: «la nostra democrazia ha tanti difetti […] eppure continuiamo a ritenerla il modello migliore e a cui tendere di giorno in giorno. Perchè allora alcuni aspetti negativi del capitalismo, dovrebbero rendere tutto il capitalismo stesso un sistema marcio?»
Personalmente (ma non è vero che tutti, indistintamente, ritengono la democrazia il modello migliore: chiediamolo agli anarchici individualisti, ai fondamentalisti islamici, ai nostalgici fascisti. Come vedi, ci sono delle minoranze non democratiche), io credo che la democrazia sia la migliore forma decisionale e ciò nonostante gli innumerevoli difetti che ha e che, come dici, spesso ci troviamo a lamentare e denunciare. Perché: perché ritengo che i principi fondamentali della democrazia siano giusti.
Contrariamente, ritengo che siano intrinsecamente ingiusti i principi fondamentali del capitalismo: proprietà privata dei mezzi di produzione, privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite, darwinismo sociale. Quindi non vedo come da parte mia respingere il capitalismo sia ipocrita. Semplicemente non è conciliabile con alcuni principi in cui mi riconosco.Tu dici: «l’Italia e i paesi occidentali sono costellati di multinazionali, eppure non mi sembra che noi facciamo la fame».
Non facciamo la fame perché le multinazionali prendono le risorse ambientali rinnovabili e non rinnovabili dai “paesi poveri” e le portano nei “paesi ricchi”. L’illusione che il capitalismo possa far star bene interi popoli come quelli occidentali nasce nel momento in cui si considera un sistema di osservazione incompleto. Infatti, piuttosto banalmente, scegliendo come sistema l’occidente l’affermazione è vera: il capitalismo ha portato benessere alla maggior parte delle persone. Ma prendendo il mondo intero, si scopre ancora più banalmente che il capitalismo non porta al benessere della maggioranza, ma al benessere di una minoranza sulle spalle di una maggioranza povera e sfruttata. Non crea Stati di diritto, crea Stati di diritto *e* Stati dittatoriali fantocci degli Stati di diritto, e a lungo andare assoggetta tutti gli Stati, di diritto e non, al mercato e al grande capitale.
Questa è la dura realtà, il mondo delle favole è pensare che il sistema capitalistico faccia stare tutti bene senza produrre sfruttati e crescenti divari sociali ed economici.Giuseppe: Della tua prima frase criticavo solamente quanto semplicisticamente ti affrettavi ad affermare “io sono di sinistra, tu di destra”, parole che hanno sempre meno significato, di questi tempi, in cui quello di cui abbiamo bisogno sono conoscenze tecniche, non ideologie. Un esempio? Alla domanda “Dovremmo introdurre un salario minimo per legge per certe categorie?”, credo che uno “di sinistra” si affretterebbe a rispondere che sì, assolutamente, si deve garantire un salario minimo. Tuttavia, se questo tizio “di sinistra” avesse studiato anche un po’ di economia, saprebbe che la soluzione non è così facile e che anzi, spesso, un salario minimo può essere controproducente per le aziende ed i lavoratori stessi.
Per me è ideologica la tua contrapposizione a priori al capitalismo (quando ad esempio dici che esso è “intrinsecamente ingiusto”). Ideologia e idee sono due cose completamente diverse. L’ideologia è tutto il contrario delle idee: ne è l’annullazione. Credo che ognuno debba avere un proprio sistema di idee, sviluppandolo e modificandolo continuamente. Racchiudersi tra le strutture di un’ideologia, non mi pare molto diverso dall’aderire pienamente ad una religione ed accettarne tutti i dogmi: al pari delle religioni, le ideologie costituiscono oppio per la mente e il pensare critico.
La proprietà privata dei mezzi di produzione e dei profitti si è rivelata storicamente l’unico modo di stimolare l’ingegno, l’investimento e, quindi, favorire la crescita e lo sviluppo. Senza un’adeguata remunerazione per gli sforzi sostenuti, quanti dedicherebbero la loro vita alla ricerca e allo sviluppo di nuove idee? (sì, ok, esiste gente buona, dal cuore tenero e dal profondo senso civico che lo farebbe per l’amore della ricerca, ma non prendiamoci in giro, siam realisti)
A cosa dovrebbe portarci la rivoluzione di cui parli? Quale nuovo sistema dovrebbe instaurarsi, per renderci tutti felici? I fatti, hanno dimostrato che il capitalismo è il miglior sistema che si sia riusciti a creare finora. Credo non ci sia bisogno di commentare i fallimenti di sperimentazioni attuate in passato. Il comunismo si è rivelato un fallimento sia dal punto di vista pratico, che dal punto di vista tecnico-teorico (soprattutto come sistema di produzione).Nessuno qui ha mai parlato di un capitalismo perfetto, in grado di renderci tutti felici e spensierati. Il capitalismo va migliorato e questo va fatto anche ispirandosi a principi “di sinistra” (e questo è già successo, non è illusione, vedi nascita del Welfare State e dello Stato sociale). Non è un’illusione pensare che questo sistema si possa migliorare. L’illusione, semmai, nasce nel momento in cui si addossano al capitalismo tutte le colpe di questo mondo e si millanta una rivoluzione che d’un tratto cancellerebbe tutte le ingiustizie e le meschinerie dei più potenti. La realtà è un’altra cosa.
Piero: Sinistra e destra hanno un loro significato, se poi esso è sfigurato dall’uso comune, dalle imposizioni culturali della classe dominante e dal martellamento quotidiano dei mass media, le parole non ne hanno alcuna colpa. Non ritengo assolutamente di doverlo spiegare, visto che studiando queste cose ne saprai più di me, ma ricordo che se cerco una definizione generica del termine “sinistra” trovo (su wikipedia inglese perché è il luogo più spersonalizzato possibile) «In politica, per sinistra si intende generalmente il sostegno al cambiamento sociale al fine di costruire una società con una struttura più egualitaria. Solitamente le politiche di sinistra comportano una preoccupazione per coloro che nella società sono svantaggiati rispetto agli altri e un’assunzione che esistano delle disparità ingiustificate (che la destra vede come naturali o tradizionali) che dovrebbero essere ridotte o abolite».
Quando io scrivo di ritenermi di sinistra e di ritenerti di destra lo faccio basandomi su ciò che leggo nei miei e nei tuoi commenti, non è che lo dico per insultare, prendere in giro o altro: affermo ciò che per me è un’evidenza, ovvero che la tua posizione è di difesa del sistema capitalistico, che vive di disparità, e dunque è di destra. Non è peccato mortale, è solo la tua opinione, io la rispetto ed espongo la mia, precisando, all’inizio di questa, che partiamo da presupposti inconciliabili. Non è retorica, ma logica.Chiarito questo punto, non sono d’accordo sul fatto che competenze e conoscenze tecniche possano superare il binomio destra-sinistra (a proposito, se ne sta discutendo, piuttosto confusamente, in calce a questo articolo). La competenza dei governanti è necessaria, ma deve essere accompagnata da scelte politiche, anzi non può non esserlo: tutte le scelte spacciate per puramente tecniche nascondono intenti politici (espliciti o impliciti). Per esempio, se la scelta “tecnica” è di privatizzare i servizi, in realtà esegue i dettami di un’ideologia (quella neoliberista). Lo stesso si può dire del Tav o dei tagli allo stato sociale. Tagliare la formazione e lasciare intatti miliardi di spese militari è una scelta politica. Eccetera.
Sul superamento delle ideologie, dico solo che generalmente chi fa questo discorso di contrapposizione tra idee e ideologie tende a considerare idee tutto ciò che fa parte dell’ideologia dominante (neoliberista, capitalistica) e ideologie tutto ciò che non ne fa parte. Quello che sto cercando di dire è che non può non esserci ideologia, perché l’ideologia è un modo di interpretare la realtà dei fatti. Cosa sono le idee, astrazioni slegate dai fatti senza alcuna pretesa di interpretarli?
Propugnare il superamento delle ideologie significa di fatto sostenere un’ideologia del pensiero unico, in cui si accettano “le idee” (ovvero ciò che è conforme al sistema attuale) e si respingono “le ideologie”. A proposito, prendo una frase da questo mio scritto di tempo fa: «Vorrei informare chi crede alla favoletta della mano invisibile che il liberismo è un’ideologia, con le sue mitizzazioni e le sue idealizzazioni, come quella del self-made man, della crescita e delle missioni di pace, e con i suoi martiri, i suoi ideologi, i suoi eroi e le sue vittime».Tu dici: «Il capitalismo va migliorato e questo va fatto anche ispirandosi a principi “di sinistra” (e questo è già successo, non è illusione, vedi nascita del Welfare State e dello Stato sociale)»; ma lo Stato sociale si è dimostrato incompatibile, a lungo andare, con il capitalismo finanziario. Basta guardare com’è ridotta la Grecia e come sono ridotti quei paesi europei oggi, africani, asiatici e americani anche ieri, che hanno sperimentato l’attuazione del modello neoliberista e delle politiche di austerity, di tagli e privatizzazioni.
Tu dici: «L’illusione, semmai, nasce nel momento in cui si addossano al capitalismo tutte le colpe di questo mondo e si millanta una rivoluzione che d’un tratto cancellerebbe tutte le ingiustizie e le meschinerie dei più potenti».
Avevo previsto, già qualche commento fa, che si sarebbe arrivati a questo punto: tra gli appellativi che avevo proposto (“romantico, utopista, idealista, marxista”) non ne hai usato neanche uno ma il succo è quello.
Tuttavia, nessuno sta millantando una rivoluzione che dovrebbe risolvere tutti i mali, bensì quelli connaturati all’attuale sistema di produzione. Né tanto meno dovrebbe risolverli d’un tratto. Prima mi hai chiesto «facciamo la rivoluzione, e poi? Cosa dovrebbe venire dopo?». Il punto è che la rivoluzione non è l’evento di rottura, è ciò che viene dopo. Non è l’abbattimento del sistema precedente, è la costruzione del sistema successivo. La Rivoluzione Francese è nel 1791, non nel 1789. Non so se mi spiego. Il capitalismo ha dei problemi che sono risolubili cercando di perfezionarlo, come dici, ma ha altri problemi che non sono risolubili che con la negazione di esso stesso.
Detto questo, lasciami abbandonare questa serietà e abbracciare un po’ di umorismo: ma tu non eri un compagno? -
«Sacrifici o baratro»
«In politica, per sinistra si intende generalmente il sostegno al cambiamento sociale al fine di costruire una società con una struttura più egualitaria. Solitamente le politiche di sinistra comportano una preoccupazione per coloro che nella società sono svantaggiati rispetto agli altri e un’assunzione che esistano delle disparità ingiustificate (che la destra vede come naturali o tradizionali) che dovrebbero essere ridotte o abolite».
Nella definizione che la versione inglese di wikipedia dà del concetto generico di sinistra è già scritta la storia dell’egemonia del pensiero unico degli ultimi decenni e la teoria della shock economy, la cui validità, a poche ore dall’appovazione dell’ennesimo piano di austerità da parte del Parlamento greco, è sotto gli occhi di tutti.Piazza Syntagma, di fronte al Parlamento greco Ieri sera in Grecia si era alla resa dei conti: qualche parlamentare ellenico ha votato a favore ma controvoglia, solo per compiacere lo spirito di responsabilità nazionale, qualcun altro ha votato contro ed è stato espulso dal partito politico di appartenenza (21 da Nea Dimokratia, 20 dal PASOK, 2 dal LAOS), come era stato promesso prima del voto, tutti gli altri hanno saturato di “ναι σε όλα” (significa “sissignore”) l’aula del Parlamento. I nodi sono venuti al pettine, si è chiarito infine da che parte ciascuno stava: dalla parte dei mercati o da quella del popolo, dalla parte del palazzo o dalla parte della piazza, dalla parte del capitale o da quella di chi ne è sfruttato e schiavizzato.
Il discorso di Papademos ai suoi colleghi insisteva: «sacrifici o baratro». Come se la crisi fosse un fenomeno naturale: c’è una siccità con conseguente carestia? vuol dire che ci sosterremo l’un l’altro, dimezziamo la nostra razione alimentare giornaliera e cerchiamo di resistere in condizioni sempre più difficili; c’è un incendio? lasciamo tutti le nostre case, è una rinuncia necessaria se vogliamo salvare pelle; c’è una crisi finanziaria? siamo tutti nella stessa barca, accettiamo il nostro triste destino, il taglio (ulteriore) del salario minimo del 20%, il taglio delle pensioni, la privatizzazione di autostrade, ospedali, scuole, beni comuni. E, di fatti, la risposta che danno i mercati è proprio un rialzo di tutte le Borse mondiali e il calo dello spread (ieri era a circa 3500, oggi è a 3000). Solo che in questo caso la pelle non se la salvano i greci, anzi si rischia un’emergenza umanitaria: gli ultimi mesi hanno visto tornare in Grecia il fenomeno dell’emigrazione di massa, dell’abbandono dei figli, l’aumento dei senzatetto, quelli che l’autore di questo blog paragona a zombie: «persone che hanno perso tutto e che vagano con aria allucinata per le strade».
Senzatetto durante manifestazioni di protesta. Fonte Reuters Bene, gli zombie umani che si riversano nelle strade greche sono il risultato di un sistema che produce per sua natura zombie umani, da secoli nei territori coloniali schiacciati dall’imperialismo e dal colonialismo, da decenni nei paesi del cosiddetto Sud del mondo che spesso coincidono con i primi, da molto più di recente anche i popoli dei paesi che l’hanno creato: in breve, è un sistema che a lungo andare si mangia da solo. Non prima di una violenta agonia.
Ma che sia chiara una cosa: questo sistema non è naturale, questa crisi non è un fenomeno naturale. A chi non riesce a concepire un modo di gestire le risorse ambientali e umane diverso da quello attuale ricordo che lo schiavismo, che era alla base dei sistemi sociali delle civiltà europee classiche, era considerato da quelle culture “naturale”: nella Politica di Aristotele lo schiavo è definito come «un essere che per natura non appartiene a se stesso». Allo stesso modo, oggi, compiacere i mercati e assecondare la finanza sono per natura obblighi morali della società: se te lo chiedono i mercati, puoi fare qualunque cosa e non ne sarai considerato responsabile o complice, perché hai agito conformemente alla natura delle cose.
Papademos dice: «sacrifici o baratro», a me sembra tanto la versione speculare del quasi centenario «socialismo o barbarie».
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I beni comuni, il profitto e la nostra sopravvivenza
Quando mi sono diplomato, ho preparato una tesina sul determinismo. Dentro ci stavano bene la sua origine democritea ed epicurea, l’opera letteraria di Lucrezio, la filosofia kantiana, il positivismo, il realismo, la fisiognomica e la psicanalisi, le divagazioni di Tacito sui popoli germanici, la meccanica quantistica e la fine del meccanicismo, la contrapposizione tra compatibilismo e incompatibilismo, insomma il determinismo in tutte le salse; e, visto che avevo letto da poco Armi, acciaio e malattie, dentro ci ho fatto stare anche quello.
Jared Diamond, l’autore, mi ha affascinato con le sue spiegazioni di natura antropologica e geografica riguardo le cause che hanno favorito l’ascesa dei popoli europei e la loro supremazia nel corso della storia: per rispondere a questo interrogativo, Diamond rifugge da ogni possibile forma di razzismo e darwinismo storico, rigettando l’idea che l’ascesa di alcuni popoli piuttosto che altri sia dovuta a ragioni di tipo genetico o comunque innate nelle particolari etnie protagoniste degli eventi storici. Per lui, spiegare scientificamente il predominio di alcuni popoli su altri non vuol dire giustificarlo, ciò significherebbe «confondere una spiegazione di cause con una giustificazione di risultato». Insomma, capire che “doveva andare così” non implica una valutazione etica del “così”.
Ora, a distanza di tempo, mi trovo a leggere l’inizio di un altro saggio di Diamond, intitolato significativamente Collasso, che cerca di spiegare perché alcune società sono scomparse lasciando ai posteri suggestive rovine mentre altre, coeve di quelle altre, sono sopravvissute fino ai giorni nostri. L’analisi parte da considerazioni economiche: tutte le società sfruttano le risorse del territorio, dal pesce al legno, dai metalli al terreno da coltivare. In che modo l’errata gestione del territorio ha portato alla scomparsa di alcune civiltà? Com’è possibile che i loro abitanti non se ne siano accorti? E cosa, se se ne sono accorti, ha impedito loro di invertire la rotta?
Tutte queste domande sono utili anche per comprendere il presente e per cercare di prevedere gli sviluppi del nostro tipo di società. A tal proposito, riporto un estratto preso dal primo capitolo, sul Montana e le sue risorse minerarie, la cui estrazione richiede l’utilizzo di pratiche inquinanti e la produzione di rifiuti tossici.
«La ASARCO (American Smelting and Refining Company), un gigante dell’industria mineraria e metallurgica, può essere difficilmente ritenuta responsabile per non aver bonificato una sua miniera particolarmente tossica. Le imprese americane esistono per procurare guadagni ai loro imprenditori; è questo il modus operandi del capitalismo americano. Un corollario del processo di arricchimento è di non spendere il capitale quando non sia necessario. Una filosofia così ferrea non è tipica soltanto dell’industria mineraria. Le aziende di successo tracciano una netta linea di demarcazione tra le spese necessarie al proseguimento della loro attività e quelle che vengono definite «obblighi morali». La difficoltà o la riluttanza a capire e ad accettare questa distinzione determina gran parte della tensione tra gli ambientalisti e il mondo degli affari. I capi delle grandi industrie sono contabili e avvocati, e non sacerdoti mossi da preoccupazioni morali».
La maggioranza delle persone non ha idea di quanti effetti spaventosi dell’attività umana si trovino solo in Montana, che è una zona degli Stati Uniti relativamente povera e poco inquinata. Se sommiamo tutta la merda di tutte le attività di tutte le società umane finiamo per impazzire. Qual è la soluzione per Diamond?
«L’azienda è una società a scopo di lucro, non un’organizzazione di beneficenza. Se gli abitanti del Montana vogliono che l’azienda modifichi il suo operato, con la conseguenza di diminuire i suoi profitti, è loro responsabilità far pressione sulla classe politica, per far approvare e rispettare leggi che obblighino le aziende a cambiare le loro pratiche, oppure spetta a loro acquistare in blocco quei terreni per gestirli diversamente».
Secondo me c’è un’altra soluzione, che Diamond trascura: l’abbattimento del sistema che pone il profitto prima dei beni comuni. Somiglia alla sua seconda ipotesi, ma è più globale; ciò non toglie che l’autogestione dei beni comuni possa essere un buon inizio.
Think globally, act locally.
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La Lotta è il Tempo
Ieri sera c’è stata a Pisa un’assemblea di Movimento a cui ho partecipato e in cui sono intervenuto.
Dal momento che ho messo abbastanza carne al fuoco e che in seguito a questo mio intervento l’assemblea ha affrontato dei discorsi ricchi, interessanti e costruttivi, vorrei cercare di riportarlo per iscritto qui, almeno in linea di massima, per condividerlo con tutti sperando di affrontare nuovamente quegli argomenti che mi stanno a cuore e che secondo me sono centrali per la riuscita e il successo reale delle attuali proteste mondiali contro il predominio della finanza sulla politica e la società (leggasi socialità).
Ho sentito molti parlare della questione del 15 ottobre e di come il movimento dovrà rapportarsi a questa data, come dovrà elaborarla, farla propria, digerire le sconfitte e le vittorie di quella giornata e trarne le dovute conclusioni. Però mentre noi ne parliamo è già passato da allora quasi un mese e il nostro problema principale è che questo movimento, in Italia, sembra scemare e trovarsi in una situazione di stallo se non di reflusso. Cerchiamo di capire perchè e partiamo da un’altra osservazione: la stessa cosa è successa nelle giornate di Luglio del 2001, con il movimento cosiddetto “noglobal” contro il G8, il 13 febbraio 2003, con il movimento, anch’esso mondiale, contro la guerra in Iraq, il 14 dicembre dell’anno scorso, con il movimento universitario. Ora si ripete il 15 ottobre. Evidentemente sono stati fatti degli errori e per di più ripetutamente. Ci sono però dei movimenti che non hanno conosciuto questo decorso e nei quali non si è verificato questo fenomeno di reflusso in seguito alla data principale di mobilitazione: per esempio il movimento NoTav o il movimento OccupyQualcosa nel resto del mondo.Il movimento NoTav non ha mai fissato delle scadenze, delle date più importanti di altre. Se il 3 luglio c’è stata una grande manifestazione nei boschi della Val Susa con scontri anche violenti (in verità più che altro era un attacco da parte della polizia), ora i NoTav non stanno a piangersi addosso e a parlare di un fantomatico “post-03/07”. Noi invece parliamo di “post-15/10”. Perchè? Perchè il 3 luglio i NoTav non hanno giocato il tutto per tutto, non hanno concentrato tutte le loro forze su una singola data sperando che andasse bene, salvo poi leccarsi le ferite e pigliarlo in quel posto se fosse andata male. Non hanno fatto assemblee intitolandole “verso il 3 luglio”: hanno deciso di porre dei punti fissi sugli obiettivi del movimento anziché sui metodi, hanno fatto crollare la retorica repubblichista di distinzione tra manifestanti violenti e non violenti, buoni e cattivi: i NoTav erano tutti buoni e tutti cattivi. Tanto che quando il raggiungimento dell’obiettivo prefissato, e su cui non si transige, ha richiesto l’uso della forze, non hanno esitato ad utilizzarla o ad applaudire chi l’aveva usata; e quando, al contrario, si sono resi conto che la violenza avrebbe danneggiato il movimento, com’è stato il 23 ottobre, hanno deciso, dico deciso, di non utilizzarla. Avevano la situazione sotto controllo. Un po’ diverso dal nostro 15 ottobre romano.
Passiamo al movimento OccupyQualcosa. Solo il braccio italiano di questo movimento, cioè noi, stiamo risentendo del reflusso post-15/10. In altri paesi, piuttosto, è stato un crescendo da allora. A Oakland la cittadinanza ha saputo organizzare, per la prima volta dal 1947, uno sciopero generale cittadino autogestito, non convenzionale. Da Wall Street (la parte occupata, ovviamente) è partito un appello di mobilitazione mondiale. A Londra in queste ore stanno provando a occupare Trafalgar Square dopo un enorme corteo [quest’ultimo esempio lo aggiungo solo ora perchè la notizia è di oggi]. Perchè? Perchè solo in Italia si è preferita una protesta centralizzata e convergente sulla capitale, in tutti gli altri paesi del mondo che hanno aderito alla protesta la mobilitazione si è articolata in cortei e iniziative disseminate sul territorio, con una media di 10-11 luoghi di protesta per ogni nazione.
Questi due esempi insegnano due cose: la prima è che si deve essere intransigenti sugli obiettivi e non sui metodi, la seconda è che la protesta non deve essere centralizzata. Anzi, deve essere ubiquitaria, come ubiquitario è il nostro avversario. La lotta non è in un posto preciso né in un tempo preciso, la lotta è il Tempo, la lotta è lo Spazio.
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La fine delle ideologie
Ogni tanto, quando qualcuno dice qualcosa che finalmente abbia un senso, lo si taccia di ideologia, che nel linguaggio dei giornali, dei parlamenti e dei salotti è una parolaccia, pari a demagogia. L’ideologia è, per costoro, la maggiore causa del «rifiuto di ogni idea di innovazione» (vedi per esempio in Val di Susa), il capriccio di chi non vuole la crescita economica, di chi ha la testa nel mondo delle nuvole o dei sogni e non riesce ad approcciarsi alla realtà in con realismo politico, senza mitizzazioni. Per inciso, mi sfugge, allora, il perchè non dovrebbero puntare il dito anche contro Mazzini accusandolo di aver fatto dell’ideologia, ma questa è un’altra storia di cui ho già scritto di recente.
Il messaggio che passa sugli schermi da quando il muro è caduto è che l’ideologia fa male, è per le persone con una mente chiusa, che sono incapaci di accettare qualsiasi cosa che cozzi con essa e i suoi dogmi. E questo nulla ideologico, questo vuoto di idee è proprio ciò che di più utile esiste per garantire un sano trasformismo. Per esempio, ma se n’è già parlato fin troppo, in Italia non c’è nessuna contrapposizione ideologica tra i partiti, anzi tra quelli che ancora conservano a parole una posizione ne emergono altri scandalosamente trasformisti e privi di qualunque programma e collocazione; in Spagna il PSOE attua «contro la crisi» le stesse misure che attuerebbe qualunque altro partito del parlamento spagnolo, compreso il Partito Popolare suo acerrimo avversario elettorale; in Grecia un socialista taglia il welfare nell’applicazione pratica di quella shock economy di cui scrive Naomi Klein; torniamo in Italia e tanto il Pd quanto il Pdl traboccano di imprenditori che da quando sono stati eletti (ma che dico, nominati!) hanno visto aumentare vertiginosamente il proprio reddito dichiarato. Se la caduta delle ideologie significa questo, allora converrebbe tornare sui propri passi e riabbracciare un po’ di sana ideologia.
Ma converrebbe tornare sui propri passi in ogni caso, perchè quella che chiamano fine delle ideologie è in realtà l’inizio dell’Ideologia. Se gli ex-comunisti sono azionisti della Goldman Sachs e sostengono le guerre imperialiste in Libia e Afghanistan, forti del supporto mediatico di un cartello di testate che hanno spostato l’opinione pubblica a favore dell’intervento; se nessun governo italiano, di alcun colore, ha avuto la volontà di varare delle norme sul conflitto di interessi; se tutti in Occidente parlano ormai di crescita economica come se fosse la cosa più naturale del mondo; se Marchionne può fare il cazzo che gli pare, questo lo dobbiamo non alla fine delle ideologie ma all’affermazione totale e capillare del neoliberismo. Bene, vorrei informare chi crede alla favoletta della mano invisibile che il liberismo è un’ideologia, con le sue mitizzazioni e le sue idealizzazioni, come quella del self-made man, della crescita e delle missioni di pace, e con i suoi martiri, i suoi ideologi, i suoi eroi e le sue vittime.
Quindi, quando in mezzo a questa bolgia di automi indemoniati e ipnotizzati qualcuno dirà qualcosa che abbia un minimo di senso, non fate come i giornali, i parlamentari e quelli dei salotti, non additatelo né accusatelo di essere «ideologizzato», ma rispondete citando Hemingway: «non possiamo raggiungere le stelle ma ci servono per tracciare la rotta». E ricordate, poi, che le stelle a volte sono state raggiunte.
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Indisponibili davvero
Considerazioni sulla protesta del mondo della formazione e critica dei metodi di lotta finora utilizzati. Ecco cosa propongo invece per una minaccia che sia vera, viva, valida.
Bloccare le università non basta per bloccare l’economia.
È vero che la ricerca produce ricchezza e che l’Italia è retrocessa economicamente rispetto ad altri paesi industrializzati e post-industriali proprio a causa dell’insufficienza dei finanziamenti per la ricerca, ma questo è un processo che si sviluppa a medio o lungo termine (per esempio l’arretratezza attuale è dovuta non ai tagli di oggi ma alla tanta negligenza di ieri rispetto a tutti i luoghi della formazione e della cultura), e il blocco della didattica, se non si ha la certezza che il Governo ascolterà il disperato grido d’allarme lanciato dall’università, non può protrarsi per un intervallo di tempo esageratamente lungo come quello che servirebbe a convincere coi fatti che senza ricerca non c’è sviluppo e che noi siamo in grado di bloccare lo sviluppo bloccando la ricerca.Le strategie di lotta passate non sono più efficaci.
È vero che, dopo due anni dalla nascita del movimento di opposizione alle scellerate politiche governative in materia di istruzione, università e ricerca nel mondo della formazione, l’agitazione sociale ha contribuito alla formazione di una forte coscienza critica, ma le strategie utilizzate si sono evidentemente rivelate pressoché inutili. La prova lampante è che il ddl Gelmini è ancora in parlamento, dove è sempre stato, e forse verrà approvato.Il corteo non fa paura a nessuno.
Non serve una mente geniale a capire che dei cortei e delle manifestazioni civili dei generi più svariati e delle modalità più diverse, non si cura il Governo. Come ha detto tante volte Berlusconi, «il governo va avanti», «per la sua strada», con o senza la gente in piazza. Anche qui si potrebbero fare infiniti esempi delle numerosissime manifestazioni rimaste inascoltate. Il corteo e il blocco delle università non fanno più paura a nessuno, il primo perché basta non dare risalto mediatico all’evento (che in una dittatura mediatica equivale a cancellare la sua esistenza) o dargliene troppo (trasformandolo in spettacolo di intrattenimento delle masse da illudere), il secondo perché non provoca danni immediati, ammesso che riesca a provocarli.
Il problema è che non riusciamo a convincere i vari Tremonti, i Berlusconi, i Gelmini, che siamo in grado di costituire un danno per il sistema, perché né il corteo né il blocco della didattica sono realmente in grado di farlo, non costituiscono un ricatto né una minaccia.Indisponibili davvero.
Fin da subito questo movimento ha preso il nome di «indisponibili».
I ricercatori si sono dichiarati indisponibili a svolgere, senza essere pagati, compiti che dovrebbero essere svolti da altri lavoratori, i quali però non ci sono dato che assumerli significherebbe spendere soldi per il mondo della formazione.
Si sono rifiutati di fare qualcosa che non rientra nei compiti previsti dai contratti.
Se anche noi studenti vogliamo essere indisponibili davvero e non solo a parole, non solo come segno di vicinanza alla protesta dei ricercatori, dobbiamo rendere la nostra indisponibilità una pratica che rispecchi la nostra condivisione di principi fondamentali.
Dobbiamo fare in modo che l’indisponibilità si concretizzi, diventi uno strumento di ricatto e di minaccia, dobbiamo mostrare che con la nostra indisponibilità, se vogliamo, possiamo bloccare tutto.
È ora quindi che ci rifiutiamo anche noi di pagare di più: è ora che rispettiamo anche noi i contratti degli affitti, meticolosamente, pagando la cifra prevista, né più né meno.
Finché non li sfideremo su quel fronte, colpendoli nel loro punto debole, quello dei soldi, non solo loro ma anche l’opinione pubblica e la cittadinanza, si accorgeranno che noi esistiamo solo se il corteo passa davanti ai loro portoni o se ne parlano i mezzi di informazione. Ma se blocchiamo l’economia, non si potrà trascurarci.
Se siamo gli indisponibili perchè siamo disposti a pagare la stragrande maggioranza degli affitti in nero? Il boicottaggio è il vero strumento con cui possiamo tenere in scacco, bloccare, letteralmente paralizzare l’economia della città, e pretendere che ci venga ridato ciò che ci è stato tolto. Senza boicottaggio, il corteo è una sfilata informe. Con il boicottaggio, il corteo farà di nuovo paura.