Tag: capitalismo

  • La perruque e le pratiche interstiziali nel vissuto delle lotte

    Nel 1976, in One piece at a time, Johnny Cash canta l’aneddoto di un operaio che riesce a portar via dalla fabbrica in cui lavora, giorno dopo giorno, uno ad uno nella lunchbox ovvero quella che gli operai milanesi chiamerebbero schiscetta, tutti i pezzi necessari a costruirsi un’automobile per sé. D’altronde, come dice rassicurante il testo, il padrone non sentirà certo la mancanza di qualche bullone, e ancora meno se saranno spariti nel giro di anni. Così facendo, l’operaio della canzone si riappropria di una parte del proprio lavoro, che per contratto sarebbe tenuto a destinare esclusivamente al proprio padrone. Il risultato sarà un’automobile unica al mondo.

    Esistono molti modi in cui il lavoro salariato, ridotto a strumento di produzione soprattutto nelle condizioni di lavoro della fabbrica, è capace di riappropriarsi del proprio lavoro e in generale della propria umanità: rallentamenti della produzione, produzione personale a fini commerciali, sabotaggi, picchetti, scioperi, manifestazioni spontanee in fabbrica, espulsione fisica degli ufficiali giudiziari o sequestro dei dirigenti, distruzione delle attrezzature, occupazioni delle fabbriche sono tra i più conosciuti. La disobbedienza è presente in numerose forme di elusione delle regole. Certamente tra le attività di questo tipo la meno nota, il fenomeno che nei paesi francofoni prende vari nomi tra cui travail en perruque (letteralmente “lavoro imparruccato”), travail en sous-sol (“lavoro sotterraneo”), travail de la main gauche (“lavoro della mano sinistra”), travail masqué (“lavoro mascherato”), è forse il più poetico (nel senso etimologico del termine: poetico innanzitutto perché creativo) e di un grande e profonda tenerezza. Nel lavoro en perruque, l’operaio produce, ma si tratta di una produzione molto particolare: anche se avviene sul posto di lavoro, con gli strumenti di lavoro e durante il tempo di lavoro, gli oggetti prodotti sono del tutto indipendenti dagli obiettivi produttivi del padrone. Così, c’è chi in una fabbrica di automobili si mette a produrre sottovasi e piedistalli, o chi in un cantiere navale forgia giocattoli e utensili, tutto ovviamente a spese del padrone il più delle volte ignaro. Originariamente, l’espressione di lavoro en perruque si riferiva probabilmente al camuffamento della natura del lavoro, che aveva tutte le sembianze di un normale e regolare lavoro di fabbrica senza tuttavia esserlo. Il lavoro en perruque può essere di natura utilitaristica ma anche di natura meramente artistica. Se Denis Poulot, ex-operaio che certamente nel suo ambiente aveva potuto osservare il fenomeno da vicino, spiega nel 1870 nell’opera Il sublime che «fare una parrucca è lavorare per sé», ridurre frettolosamente quest’attività tutta particolare ad un lavoro per sé significa non prendere in considerazione molte delle sue implicazioni sociali, psicologiche e anche politiche.

    Oggetti prodotti en perruque allo stabilimento Renault St Ouen

    Questa pratica può essere interpretata in alcuni casi come una forma di resistenza al lavoro alienato, attraverso la riappropriazione del sapere professionale. Un esempio di lavoro en perruque è stato ripreso di recente dal documentario in quattro puntate Le temps des ouvriers, dove Robert Kosmann, operaio e militante sindacale per anni alla fabbrica Renault di Saint Ouen, ne parla mostrando alcune delle opere finite: si tratta di statuette di omini o altri animali, carriole in miniatura, un gioco a incastro a forma di elefantino. Tutti oggetti usciti da una fabbrica di automobili, e senza che le leggi di mercato, il padrone o chi per lui abbiano deciso alcunché sulla loro natura, qualità, forma o funzione. «C’è un aspetto di rivolta e di trasgressione, anche per coloro che non sono militanti né sindacalisti. Il mio collega portoghese, Pedro Da Silva, ha fatto da sé tutti gli attrezzi che poi ha usato per costruire casa sua. Non ha mai voluto scioperare, non ha mai criticato il sistema di fabbrica, non ha mai criticato i capi… ma quando cominciava a lavorare alla perruque aveva un sorriso grande così perché aveva infranto la regola. La perruque è ambigua: non si può dire che sia soltanto resistenza all’ordine costituito, solo una forma di danneggiamento del sistema, perché una fabbrica non è esclusivamente lotta di classe e non è esclusivamente del padrone, dipende dai momenti, dai periodi, dalle giornate, dalle mattine a seconda di come ti svegli, insomma diciamo che è la vita».

    La vita, infatti, è così: per quanto i rapporti sociali e i sistemi di dominio e di oppressione siano pervasivi, collateralmente si produce sempre qualcosa di inutile per il sistema produttivo, qualcosa che potrebbe essere un ingranaggio rotto. La diversità e la complessità delle forme di vita devia inesorabilmente dalle norme imposte. Ciò è vero al di là di qualunque presa di coscienza: come racconta lo stesso Kosmann, « Questa modesta produzione in tutto e per tutto, era un’esigenza, un divertimento e non aveva pretese all’epoca»
    In certi contesti, il fenomeno è stato talmente massiccio da avere permesso la creazione di veri e propri archivi come quello di Jan Middelbos, definito scherzosamente “artista anarco-parrucchiere”, o quello degli “oggetti di sciopero”, che a tale fenomeno deve molto.

    La pratica del lavoro en perruque, oltre ad assumere varie forme secondo le inclinazioni e le condizioni di ciascuno, ha preso diverse denominazioni a seconda dei paesi in cui si è affermata, che richiamano di volta in volta differenti suoi aspetti differenti, secondo le sensibilità culturali e sociali specifiche del contesto. Negli Stati Uniti, si chiama homer, indicando che la produzione viene deviata dal suo obiettivo ufficiale, la vendita sul mercato, verso scopi che hanno a che fare con la vita domestica. In Gran Bretagna è noto come pilfering, che riunisce in un doppio senso le nozioni di taccheggio, per l’uso non regolamentare di tempo, attrezzi e materiali, e di sviolinata, perché il lavoro è fatto di soppiatto distraendo e ingannando la gerarchia incaricata di controllare il lavoro. Esistono poi nomi locali di cui sono esempi pinaille a Belfort, in Francia, e bricole in Bretagna. E in Italia? Dal gigantesco ma imperfetto archivio che è internet, in Italia non risulta niente di simile. Non esiste il fenomeno? Non se ne parla? Oppure non è mai stato studiato ed approfondito a livello analitico? La questione resta aperta e purtroppo anche qui non sarà dipanato il dubbio. Certo è che sarebbe alquanto singolare che un fenomeno del genere, se esistente, fosse sfuggito alla sensibilità del pensiero operaista che in Italia si tanto è sviluppato. Altra questione, emersa nella stesura di questo scritto, verte sul come chiamare una pratica simile: “taccheggio operaio”, “furtarello” o “lavoretto” sono tutte traduzioni possibili, ma non danno sufficiente dignità a questa pratica. Ma torniamo alle implicazioni psicologiche e sociali.

    Quando al lavoro parziale e alienante della catena di montaggio si oppone la produzione artigianale, in cui si concepisce e si realizza ogni dettaglio, si lavora per se stessi, per ritrovare la propria creatività, la propria personalità, anche la propria manualità e il proprio sapere tecnico. A tal proposito si può prendere in prestito all’antropologia tedesca il concetto di Eigensinn definito dallo storico Alf Lüdtke, che nell’ambito della scuola di pensiero nota come “Storia della vita quotidiana”, si è molto soffermato sulle dinamiche di oppressione come pratica sociale che si articola a vari livelli nel vissuto delle persone. L’Eigensinn è una delle pratiche di dominio dal basso di cui è costellata la storia popolare. Tradotto con “senso di sé”, “ostinazione”, “individualismo”, “autonomia” o “dignità operaia” secondo l’orientamento ideologico e la sensibilità di quante e quanti hanno applicato o rielaborato il concetto, consiste nei molteplici modi in cui gli individui possono combinare la loro posizione dominata con la loro dignità personale o la loro autostima; modi, per dirla con le parole del sociologo francese Michel Verret, in cui i subalterni riescono a rendere “vivibile” questa posizione dominata, in tutti i luoghi della loro esistenza. La presa in mano degli strumenti di lavoro per fini estranei alla produzione di fabbrica è un esempio lampante di Eigensinn: è facile capire il “senso di sé” di un operaio che usa il proprio tempo, strappato alla tirannia dei turni di fabbrica, per produrre oggetti completamente inutili e inutilizzabili dal padrone come omini, animaletti, pupazzetti vari, o, quando utili, prodotti comunque alla faccia del padrone e in barba alle regole del padrone.

    Due pupazzetti prodotti en perruque da Robert Kossmann e colleghi

    Questa attività non è però importante soltanto dal punto di vista della soddisfazione di un’esigenza psicologica individuale, perché la sua natura è capace non solo di ridefinire il modo in cui si percepiscono i rapporti di produzione, ma anche di rimodellare le relazioni sociali e a volte di aprire nuovi spazi nel campo del possibile e dell’immaginabile. Ciò che caratterizza la perruque è allo stesso tempo la sua inutilità, la sua gratuità e la sua funzione di affermazione rispetto all’organizzazione produttiva e di legame creativo con gli altri individui. Andiamo con ordine.

    Negli anni Settanta, in pieno fermento sociale, negli anni in cui il movimento operaio non manca di dare prove significative della propria capacità ad autorganizzarsi (per esempio con il controllo operaio della Lip a Besançon – purtroppo in italiano non si trova niente tranne questo parziale resoconto) e di autonomia operaia si sente molto parlare sia in Francia che in Italia, si parla di “riappropriazione degli oggetti” come forma di resistenza operaia alla razionalizzazione e si fornisce la perruque come esempio di riappropriazione.

    Del lavoro en perruque ci sono stati usi conflittuali dichiarati, durante agitazioni sindacali, scioperi, occupazioni di fabbriche. Per esempio, nel 1952 gli operai dello stabilimento Renault a Billancourt fabbricarono dei pannelli in lamiera dai bordi taglienti per scoraggiare eventuali attacchi della polizia francese durante le manifestazioni contro il generale americano Ridgway venuto a Parigi durante la guerra di Corea. A Gijón, nelle Asturie, nel 2000 i lavoratori portuali che occupavano i cantieri navali di cui si minacciava la chiusura si sono contraddistinti per la costruzione di piccoli mortai artigianali e scudi in lamiera forniti di feritoie che garantivano la visibilità, permettendo ad una formazione a testuggine di avanzare senza troppi rischi verso la guardia civile spagnola e lanciare pietre e fuochi d’artificio di piccolo calibro. Ancora nelle Asturie, nel 2012 i minatori in sciopero hanno adottato tecniche simili.

    In questo senso, il lavoro en perruque è stato una pratica selvaggia, nel senso che sfugge alle regole convenzionali, si sviluppa al di fuori di ogni organizzazione ufficiale e ha un carattere spontaneo e incontrollabile.

    Gli usi apertamente conflittuali del lavoro en perruque costituiscono delle eccezioni rispetto alla normalità contraddittoria e ambivalente descritta da Robert Kosmann, ma per essere “selvaggia” questa pratica non deve necessariamente prendere forme simili: intrinsecamente, la perruque incarna un sistema di valori che ne fanno una sorta di anti-merce.

    La perruque fa parte del circuito del dono che sovverte le logiche di mercato della produzione capitalistica finalizzata al profitto e guidata da motivazioni fondamentalmente egoistiche. La produzione en perruque non è mai destinata alla vendita: se il prodotto viene destinato alla vendita cessa di essere perruque e la sua produzione diventa lavoro clandestino. La perruque è l’antitesi assoluta della forma-merce. Ecco perché una delle forme privilegiate che assume è il regalo che è, insieme all’ospitalità e ai servizi resi, una delle tre forme fondamentali dell’economia del dono.
    In particolare, la cosiddetta perruque de conduite sarà un regalo, offerto dai compagni di lavoro per il pensionamento di un collega, che è, secondo lo spirito del dono, un modo di coltivare e nutrire il legame attraverso il bene. Se ha questa proprietà di nutrire e mantenere il legame, è perché nel dono offerto si dà qualcosa di sé: il tempo, la tecnica manuale, l’attenzione, la progettazione, la dedica. Ciò che il pensionato avrà in casa è quindi più di un semplice oggetto materiale: vi sarà contenuto qualcosa di chi gliel’ha data. Troviamo in questo caso e negli oggetti del dono in generale, un concetto di “spirito” proprio del pensiero animista, che attribuisce alle cose prodotte dall’uomo come agli esseri della natura una sostanza spirituale che le rende profondamente connesse al resto del mondo. Si tratta di un pensiero lontano anni luce dall’immaginario della modernità capitalistica, che tende a ridurre il rapporto con il mondo a quello della manipolazione tecnica per stabilire un controllo su di esso e soddisfare così una smodata voglia di conquista: la forma-merce, fondata sul valore di scambio più che sul valore d’uso, neutralizza totalmente la proprietà animistica del dono, perché permette di scambiare le cose senza che nulla fluisca tra le persone fuorché il denaro, che è anonimo mezzo di scambio. Questo è stato alla base di ciò che il grande sociologo tedesco Max Weber ha definito il “disincanto del mondo”: con l’universalizzazione e la radicalizzazione della forma-merce, le cose hanno perso la loro anima, hanno smesso di cantare e il mondo è diventato infinitamente triste. Come diceva Jacques Godbout, pensatore a cui si deve l’esplorazione psicanalitica della forma-dono in contrapposizione alle implicazioni della forma-merce, se vogliamo far rivivere il mondo, siamo condannati a reinventare una qualche forma di animismo.

    Scarpette da 8,5 cm realizzate in una fabbrica francese occupata tra novembre e dicembre 1995.

    Il lavoro en perruque è stato criticato da una parte del pensiero rivoluzionario perché costituirebbe una distrazione individualista che allontana la classe operaia dall’impegno per la lotta collettiva. A tali scuole di pensiero manca forse la consapevolezza di quanto le pratiche “interstiziali”, cioè quelle che si sviluppano ai margini dei meccanismi di oppressione, incidano sul vissuto delle persone contribuendo in maniera a volte determnante alla definizione di immaginari alternativi condivisi. Il fatto che questo genere di pratiche non sia una semplice distrazione dai pretesi obiettivi della soggettività rivoluzionaria ma che costituisca l’espressione di una condizione fondamentale alla realizzazione di qualunque presa di coscienza collettiva è mostrato dal funzionamento del processo di produzione en perruque: “Il fresatore sarà al servizio dell’elettricista che chiederà al tornitore di fare un pezzo sulla sua macchina” (Robert Kosmann, Perruque et bricole ouvrier). L’operaio dunque, dovendosi servire per la sua perruque di strumenti anche diversi da quelli che gli sono attribuiti nella divisione ufficiale del lavoro di fabbrica, non può che uscire dall’alienazione e interagire in modo alternativo con le macchine, i saperi, gli altri operai. In fabbrica, e fuori dalla regolamentazione ufficiale, anche i favori tra operai vengono gestiti in modo tale da rendere possibile una diversa configurazione delle relazioni sociali, uscendo qui e ora dai modi capitalisti e incidendo sul vissuto delle persone. Così, si possono intessere reti di mutuo scambio sotto forma di servizi resi, secondo il principio di reciprocità che alimenta la solidarietà dei lavoratori, senza la quale non sarebbe possibile alcuna lotta contro il capitalismo.

    Allarghiamo adesso lo sguardo. In effetti, si potrebbe considerare il lavoro en perruque come un caso particolare di sabotaggio: i mezzi di produzione non sono resi inservibili, ma ci si serve dei mezzi di produzione per scopi diversi da quelli per cui sono stati concepiti nel sistema di fabbrica e in generale nel modo di produzione capitalistico, con un risultato momentaneo equivalente (la produzione ufficiale è interrotta o rallentata) e un risultato a lungo termine piuttosto simile (riduzione del plusvalore estratto, ovvero diminuzione del profitto da parte del padrone). Un sabotaggio, ma in forma creativa. Come non pensare alla moltitudine di pratiche di questo tipo anche al di fuori del sistema di fabbrica? Quante volte la creatività è esplosa insieme alla rabbia sociale negli ultimi anni? Quante volte vi abbiamo assistito? L’idea del movimento Occupy nel 2011 era partita dall’immaginazione creativa della rivista di critica pubblicitaria Adbusters. Dal ciclo di lotte delle Primavere arabe in poi, la creatività ha fatto irruzione nelle pratiche dei movimenti in ogni angolo del mondo, che al blocco dei flussi (occupazioni, scioperi, blocchi stradali, blocchi ferroviari), che è un modo di sabotare il funzionamento del sistema economico, hanno abbinato forme di comunicazione creativa, produzione artistica, costruzione alternativa degli spazi.

    Certo, potrebbe essere dovuto alla logica pubblicitaria pervasiva propria di tutta società dello spettacolo, per cui anche chi produce immagini sovversive produce spettacoli nel formato proprio del sistema, ma potrebbe anche essere un sintomo della necessità di uscire dal sentimento di aridità emotiva prodotto dall’alienazione in tutte le attività che un individuo compie nel corso della propria giornata in una società capitalistica moderna. La società dello spettacolo è per Guy Debord così come per Christopher Lasch, una società che tende a ridurre gli individui, sia nella sfera della produzione che in quella del consumo, sia sul posto di lavoro che nelle attività del tempo libero, alla passività e alla dipendenza, scoraggiando l’iniziativa e l’autosufficienza e inducendo uno stato d’animo da spettatore che li condanna all’impotenza. Quelle immagini che conosciamo, provenienti dall’Iraq in rivolta, dal sollevamento libanese, dalla Francia delle rotonde occupate, dall’insurrezione in Ecuador, dall’ostinazione del movimento di Hong Kong, dai colori dell’improvvisa onda sociale cilena, ci mostrano persone tutt’altro che passive e dipendenti, più attrici che spettatrici, e più creatrici di quanto non sembri. La reazione del potere dinnanzi a queste situazioni è stata quasi immediatamente di incredulità: com’è possibile che le masse abbiano sabotato tutto senza motivo? In un certo senso, nella logica del potere, queste rivolte sono inutili, perché non rivendicano nulla di politicamente preciso dal punto di vista del linguaggio politico convenzionale: vogliono solo vivere e continuare a vivere, sembrano essere inarrestabili. Inutili, gratuite, selvagge, assetate di vissuto. Quelle immagini potrebbero essere delle perruques della società dello spettacolo.

    Una strada di Santiago de Chile lunedì 11 novembre 2019.

    Cosa succede quando si esce dalla passività a cui le masse sono ridotte nella società del consumo? Cosa succede se produciamo immagini e spettacoli fuori dai processi di produzione ordinari? Cosa succede se produciamo spettacoli en perruque, magari inutili, senza rispettare le regole, nei tempi interstiziali di altri spettacoli molto più conformi alle norme sociali? La risposta resta la stessa che per il lavoro in fabbrica: la perruque serve a rompere il sentimento di alienazione, cerca di dare un senso alla vita quotidiana in condizioni di oppressione, e lo fa in maniera individuale attraversando direttamente la mente, le mani, la pelle, insomma l’esperienza di chi vive l’oppressione. Non è ancora una presa di coscienza collettiva, né una strategia che abolisce lo stato di cose presente, ma riconosce implicitamente l’oppressione ed è una strategia di sopravvivenza in condizioni di subordinazione e dipendenza. Rischia di rendere sopportabile l’oppressione portando a sentimenti rinunciatari? Sì, ma fornisce chiavi per sentimenti opposti.

    Ricapitolando, il fenomeno della perruque racchiude un insieme di comportamenti conflittuali che appartengono alla tradizione della resistenza operaia alla razionalizzazione della produzione: sono comportamenti oggettivamente conflittuali, anche se non necessariamente animati da una coscienza politica. La perruque è prodotta per sentire la macchina sotto il proprio controllo, e anche se spesso non è veramente così o lo è per brevi periodi irregolari che non intaccano il modello produttivo generale e quindi non costituisce un esempio di controllo operaio con la riappropriazione materiale dei mezzi di produzione, perlomeno ne è un’anticipazione psicologica, che contribuisce alla definizione di un’immaginario collettivo in cui soggiogare la macchina è possibile. Chissà che non sia possibile oggi, per sfuggire alla macchina capitalistica, considerare alla stregua di perruque tutte quelle innumerevoli azioni quotidiane, spesso spontanee, non in linea con la logica capitalistica a cui non diamo generalmente alcun peso politico. Certe cose sono conflittuali a prescindere da una presa di coscienza: il conflitto è intrinseco, inscritto nella posizione che esse assumono in quella rete di relazioni che è il mondo e che chiamiamo realtà. Non c’è contraddizione tra il desiderio immediato di appropriarsi della macchina e il principio rivoluzionario che quella stessa macchina vorrebbe trasformarla completamente: occorre superare questa falsa dicotomia.

    Miklós Haraszti, fresatore alla fabbrica di trattori “Stella Rossa” in Ungheria negli anni ’70, parla in Salaire aux pièces – Ouvrier dans un pays de l’Est (Seuil, 1976) del sogno di una società in cui il lavoro è liberato come di «una Grande Parrucca realizzata su macchine subordinate dai nostri esperti alla doppia esigenza delle nostre reali necessità e delle nostre libertà nei loro confronti. Sarebbe il crepuscolo della tecnologia dei cronometri. Produrremmo solo ciò di cui i lavoratori en perruque associati a noi avrebbero bisogno e che ci permetterebbe di restare uniti nel lavoro en perruque. E lo produrremmo in maniera mille volte più efficiente di tutto ciò che si produce oggi».
    Sembrano altre parole per descrivere ciò che altri hanno chiamato “comunismo”: una libera associazione di lavoratori per far fronte ad esigenze che partono dai lavoratori stessi. Chissà che la Rivoluzione non si possa immaginare come una Grande Perruque?

    Come l’operaio di One piece at a time, possiamo prenderci un pezzo alla volta ciò che desideriamo, fuori dalle regole e dalle logiche dominanti. Per costruire qualcosa di diverso, però, invece che una Cadillac.

    Nota: Nella stesura di questo testo, ho attinto ampiamente a diverse fonti, ma per l’elaborazione del significato delle perruque come opposizione intrinseca al sistema produttivo capitalistico e alla tirannia del valore di scambio, mi sono soprattutto basato su questa analisi.

  • Il razzismo è strutturale

    Il razzismo non è figlio dell’ignoranza. Finalmente qualcuno lo fa presente (qui), interrompendo il flusso di frasi fatte, condanne unanimi e luoghi comuni che ha invaso il dibattito pubblico in seguito all’uscita razzista di Calderoli sul ministro Kyenge, paragonandola ad un orango.

    Come ben dice Iside Gjergji, il razzismo non è figlio dell’ignoranza, perché altrimenti sarebbe un problema risolvibile con la scolarizzazione; non è causato dalla scarsa informazione su tradizioni, culture e religioni delle popolazioni immigrate, perché altrimenti basterebbe seguire un corso di formazione, guardare un documentario, leggere una rivista sull’argomento; non è un prodotto della paura xenofoba, che piuttosto ne è una conseguenza. Aggiungo che non è neanche un problema intimamente legato all’esistenza di confini che «esisterà finché questi esisteranno», come mi è capitato di sentire affermare, perché molti gruppi etnici soggetti a discriminazione i confini non li hanno mai attraversati.

    «Il razzismo nasce dall’ignoranza» è il commento più quotato, e non è che una versione modificata di «il fascismo nasce dall’ignoranza», con cui in passato mi sono imbattuto (per esempio qui nei commenti): a entrambe queste affermazioni è sottesa la convinzione che la conoscenza sia di per sé capace di influire sul reale e di incidere sui rapporti di forza esistenti nella società, ma tale convinzione non considera la natura dei processi che producono i fenomeni sociali, riducendola ad una dimensione individuale per la quale il razzismo smetterebbe di esistere se tutti andassero in vacanza dall’altra parte del mondo. In altre parole, è completamente assente una visione organica del fenomeno, sostituita invece da presupposti individualistici e atomizzanti. Ciò si riflette sulla capacità di definire il concetto di razzismo in relazione al contesto storico, in quanto le due visioni sono dotate di differente “potenza di analisi”: evidentemente, per l’individualista la tratta atlantica degli schiavi e le leggi razziali sono esistite perché gli schiavisti e i nazifascisti erano «ignoranti».

    Veicolare l’idea che il razzismo sia fondamentalmente un problema di coscienza individuale contribuisce, direttamente o indirettamente, all’affermazione di una linea di pensiero ormai diffusa, che è stata normalizzata e naturalizzata (percepita come accettabile nel dibattito pubblico e naturale nell’immaginario collettivo), per cui il problema del razzismo è una questione, puramente formale, di etica e di decoro borghese: è sufficiente dichiararsi contro e deprecare queste entità astratte che sono i razzisti, basta che nessuno si definisca razzista apertamente (pur continuando ad agire secondo le proprie posizioni) ed ecco eliminato il problema. In questo modo, si legittima il classico incipit «non sono razzista, però» che non lascia presagire mai nulla di buono, ma anche si legittimano le contraddizioni, per esempio, di un Partito Democratico che si indigna per l’insulto di Calderoli ma promuove il razzismo in altre forme (vedi).

    Lo sdoganamento del razzismo ha permesso la normalizzazione di questo tipo di atteggiamenti e posizioni a tal punto che troppe persone non riescono più a distinguere le argomentazioni razziste all’interno di un discorso né addirittura si rendono conto di adottarle e farle proprie, offendendosi e indignandosi se ciò viene fatto notare. Tale sdoganamento ha una serie di responsabili, dalle testate giornalistiche e i mezzi d’informazione televisivi con il loro linguaggio sempre attento a sottolineare l’etnia di una persona anche quando del tutto irrilevante, alle pulsioni legalitarie per cui «le regole vanno rispettate», passando per la condanna degli antirazzisti bollati come “razzisti al contrario”: alle accuse di xenofobia si sono sostituite quelle di xenofilia, mostrando un cambiamento nella percezione di cosa sia socialmente accettabile e cosa non lo sia.

    Tutto questo mostra che nelle questioni dell’immigrazione e delle minoranze etniche si siano imposte, in una situazione di egemonia culturale, la retorica nazionalista e la narrazione identitaria care all’estrema destra, che ha puntualmente sfruttato politicamente il fenomeno, alimentandolo per costruire le basi della propria affermazione: come descritto da Guido Caldiron (intervistato qui), «una delle caratteristiche della “nuova estrema destra” è l’aver saputo imporre nel dibattito pubblico varie proposte radicali senza ricorrere ad argomenti apertamente razzisti o nostalgici del passato». Il risultato è che le destre populiste xenofobe stanno trovando margini di azione politica in tutta Europa.

    Torniamo ora alla questione iniziale. Se il razzismo non è più narrato ricorrendo apertamente al concetto di “razza”, ormai scientificamente smontato e politicamente obsoleto, occorre ridefinirlo per poterlo comprendere. Banalmente (ma forse no), è innanzitutto discriminazione: trattare le persone in maniera diversa in virtù della loro identità, classificare le persone in base al loro essere. Questa definizione permette di riconoscere il razzismo anche in affermazioni che non si richiamano al concetto di razza, come «lo stato italiano deve pensare prima agli italiani».
    L’obiettivo di questo articolo non è tracciare una genesi e risalire alle origini storiche del fenomeno: certamente l’odio per lo straniero, le proclamazioni di superiorità, la discriminzione basata sulla diversità razziale, etnica o culturale non sono recenti e nel corso della storia hanno assunto diversi significati e sono stati declinati in varia maniera, essendo di volta in volta espressioni del contesto storico funzionali ai sistemi sociali ed economici entro cui si sviluppavano.

    Qual è il significato del razzismo nel contesto attuale?
    Prima di tutto è parte di una tendenza più ampia, che consiste nella discriminazione su base identitaria. La discriminazione implica il riconoscimento di disuguaglianze che fungono da elementi intorno a cui si articola la sua legittimazione. Il razzismo dunque richiede, per poter esistere e diffondersi, che le persone siano educate alla disuguaglianza, considerandola naturale, e che siano disposte a discriminare, ovvero ad attribuire diritti diversi a persone diverse, a conferma della stessa disugualianza.
    A ben vedere, questo è esattamente una breve descrizione di ciò che accade nel sistema economico capitalistico, in cui esiste una disuguaglianza economica, ritenuta naturale, che si traduce in una disuguaglianza di diritti per cui chi produce è escluso dalle scelte connesse alla produzione, e tale esclusione è ritenuta anch’essa naturale.
    Allora non è una tendenza, ma una componente strutturale del sistema economico, che è intrinsecamente gerarchico, autoritario ed escludente. E in un sistema escludente l’esclusione appare normale, è un boccone facile da digerire: se il modo di produzione esclude quotidianamente e sistematicamente, ci si abitua all’idea, e allora perché non escludere su base razziale? Perché non su base di genere? Perché non su base religiosa?

    A questo “dispositivo psicologico” della discriminazione si aggiunga il vantaggio economico del razzismo: esso è funzionale al sistema di sfruttamento. Permette di formare e mantenere un sottoinsieme della classe lavoratrice in condizioni di ricattabilità e a bassissimo costo, con la comodità che tale suddivisione interna agli sfruttati può essere perpetuata senza l’uso di forza militare, ma semplicemente costruendo una narrazione razzista che assecondi una preesistente assuefazione alla marginalizzazione.
    «Le razze non esistono, ma l’organizzazione del lavoro finisce per riprodurle e per imporre gerarchie lungo la linea del colore» (da qui). In altre parole, la questione di razza facilmente si tramuta in questione di classe: le politiche italiane sull’immigrazione mostrano un chiaro esempio di questa possibilità, favorendo indirettamente lo sfruttamento dei migranti in agricoltura (qui il rapporto di Amnesty).

    Secondo questa stessa direzione, la discriminazione di razza spesso si rivela una forma di discriminazione di classe, che più che essere basata su caratteri etnici o razziali, trova in queste una legittimazione di facciata, mentre i criteri profondi di pregiudizio sono di carattere sociale (per esempio nel sempreverde «rubano»). In una società intrinsecamente gerarchica e discriminatoria, è prevedibile che chiunque discrimini chi nella gerarchia sta più in basso, e puntualmente ciò accade, ad esempio quando i poveri discriminano i poverissimi perché «loro sono sempre i primi della lista per l’assegnazione delle case popolari».

    In definitiva, il razzismo implica la discriminazione, che implica la disuguaglianza.
    Il razzismo e il capitalismo si rafforzano e si compenetrano, si nutrono l’uno dell’altro: il primo è funzionale al secondo, il secondo legittima il primo.
    Condannare il razzismo ma non il sistema di sfruttamento è un po’ come condannare le violenze poliziesche della Diaz ma non l’intero apparato militare che, dispiegato durante quel G8, le ha generate.

  • Non esiste un tempo che non sia reo

    L’epoca in cui viviamo è un’epoca violenta: violento è il sistema economico, intrinsecamente autoritario, basato sulla gerarchia e sulla disciplina piuttosto che sulla partecipazione e sulla condivisione; violenta è l’esistenza precaria di milioni di persone, determinata dall’esigenza di una fonte inesauribile di schiavi ricattabili; violento è il destino di chi non possiede mezzi per vivere se non la possibilità di vendere la propria forza-lavoro; violenta è la negazione dei diritti a chi rifiuta di vivere seguendo questa regola; violenta è la costrizione cui sono soggetti esseri umani considerati da punire anziché da ascoltare; violento è il linguaggio che esecra le alternative, condanna la diversità, rafforza l’ordine costituito, accentua le discriminazioni e perpetua le disuguaglianze; violenti sono i luoghi comuni; violenta è la rimozione del processo di produzione dall’immaginario collettivo; violenta è la mercificazione di ogni cosa; violenta è l’imposizione culturale, la propagazione di stereotipi, la normazione dei comportamenti, la morbosità del decoro borghese.

    Violenta dunque è quest’epoca in cui viviamo, ma il “reo tempo” non è questo tempo: la Storia è una storia di oppressioni, prodotte dall’esistenza nelle organizzazioni sociali di interessi contrapposti e inconciliabili.
    Videro la storia all’opera gli schiavi che costruirono le grandi piramidi per i loro oppressori di millantata discendenza divina; la saggiarono i compagni di Spartaco nel risalire la penisola italica partendo dalla Sicilia per sfidare i loro padroni; l’attraversarono i contadini che si rivoltarono contro i signori che li affamavano; la sentirono sulla propria pelle i popoli invasi e conquistati; la misero alla prova i giacobini e i bolscevichi; la conobbero gli operai durante il processo di industrializzazione; l’assaggiarono i popoli sotto i regimi del Novecento; la sfidò la Resistenza europea; ne sperimentarono una manifestazione gli studenti e i lavoratori immateriali; la subirono le vittime della repressione, in tutte le epoche dall’inizio della storia e della società divisa in classi.

    Un faraone, un aristocratico romano, un re, un cardinale, un borghese ottocentesco, un dittatore militare, un banchiere affabile: sono i volti del potere che opprime.
    Non esiste tempo che non sia reo.
    upper class

  • La decrescita che non va al nocciolo

    Qualche tempo fa, sono andato ad un incontro con Maurizio Pallante, organizzato dal Teatro Rossi Aperto. Per chi non lo conoscesse, Pallante è il fondatore del Movimento per la decrescita felice (Mdf), associazione italiana che si ispira alle teorie di Serge Latouche, l’ormai noto filosofo francese ideologo della decrescita.

    L’incontro è stato una buona occasione per attingere informazioni di prima mano sulla decrescita, senza distorsioni giornalistiche e preconcetti, nonché per intavolare una discussione su alcuni suoi punti controversi. Questa possibilità ha tuttavia messo in luce limiti non trascurabili della struttura, sia teorica che pratica, che si è dato in particolare il “ramo italiano” della decrescita, ovvero il movimento di Pallante.

    Egli ha inizialmente esposto i principi della “decrescita felice” inquadrandoli nella sua personale visione, è passato poi a descrivere le possibili soluzioni ai problemi di natura sociale ed ambientale che pone l’attuale paradigma economico. Il discorso è diviso quindi in due parti: una di analisi, l’altra di prassi. Riporto di seguito due questioni, una per ciascuna parte.

    Il ragionamento alla base della decrescita, riassunto all’osso, è il seguente: il fine ultimo del regime economico in cui viviamo è la crescita, ma questa è impossibile da mantenere illimitatamente a causa della limitatezza del pianeta; di conseguenza, è necessario raggiungere un regime di sostenibilità riducendo il consumo di materia ed energia; questo non deve significare, come erroneamente viene detto pensino i sostenitori della decrescita, una società di deprivazione e miseria, una condizione di recessione permanente, perché la riduzione deve interessare quella produzione e quei consumi che non aumentano il benessere ma che sono tenuti in vita dal sistema economico esclusivamente in quanto permettono la crescita, che si configura così come dannosa. La decrescita consiste nella rinuncia volontaria e ragionata alla crescita, non si tratta di subire proprio malgrado un decremento del PIL («è una dieta, non un deperimento»).

    Nell’illustrare le modalità di tale riduzione, Pallante fa riferimento a due concetti distinti: quello di “merce” e quello di “bene”. Nella sua interpretazione, una merce è tutto ciò che può essere comprato o venduto, cioè che può diventare oggetto di scambio monetario; diversamente, un bene è tutto ciò che è in grado di soddisfare un bisogno; non tutti i beni sono merci (per esempio, le relazioni sociali) e non tutte le merci sono beni (per esempio, gli sprechi di cibo). Per una “decrescita felice”, Pallante propone di ridurre il consumo delle merci che non sono beni, cioè di quelli che chiama “sprechi oggettivi”: l’esempio più comunemente citato nei suoi discorsi è quello dell’energia sprecata per riscaldare un’abitazione, che potrebbe essere risparmiata coibentando le pareti in maniera ottimale.

    Il motivo per cui riporto questa interpretazione è che secondo me fa acqua da tutte le parti.

    Infatti, come ho provato a contestare direttamente a Pallante, la distinzione tra beni e merci è arbitraria (anzi, c’è chi la definisce «una stronzata»): per come definiamo un bene, cioè qualcosa che soddisfa un bisogno, facciamo riferimento a un concetto che non è assoluto, ma plasmato dalla società, dalla cultura, dal momento storico, ovvero il concetto di “bisogno”. Esistono infatti bisogni naturali e bisogni indotti. I primi si limitano all’esigenza di mangiare, bere, intrattenere relazioni sociali, proteggere il proprio corpo. Tutto il resto, tutto, è bisogno indotto dal tipo di società in cui si vive, dall’educazione ricevuta, dalle esperienze passate. Senza specificare il tipo di bisogno cui fare riferimento, è inutile proporre di ridurre la quantità di merci che non sono beni, perché qualunque merce può soddisfare un bisogno. Per esempio, la pubblicità crea bisogni, proprio al fine di aumentare il consumo di merci alimentando così la crescita: posso curarmi di tenere il frigorifero sempre pieno, anche a costo di buttar via gli alimenti in eccesso rispetto alla mia capacità di consumarli, senza concepire questo come uno spreco, perché soddisfa il mio bisogno (indotto) di “non sentirmi un pezzente”.

    Cosa si intende allora con “merci che non sono beni”? È la domanda che ho posto a Pallante, il quale ha risposto: «io non voglio definire quali bisogni siano legittimi e quali meno, altrimenti va a finire che mi dicono che sono totalitario, perché porrei un limite arbitrario e del tutto soggettivo alla possibilità altrui di soddisfare i propri bisogni». Dovrebbe essere evidente a tutti che questo rifiuto fa crollare l’idea di base su cui è costruita tutta la visione del Mdf: se propongo di ridurre le merci che non sono beni ma non chiarisco cosa intendo per merci che non sono beni, sostanzialmente non sto dicendo niente di significativo.

    Ci sono anche altri punti opinabili nella narrazione di Pallante. Egli parla di “sprechi oggettivi”, ma dimentica che tali sprechi non esistono se non perché conviene a qualche soggetto sociale: si tratta quindi, sempre, di “sprechi soggettivi”. Per esempio, non è corretto dire che l’eccedenza di energia usata per riscaldare una casa non coibentata rispetto a quella usata per riscaldare una casa ben coibentata sia uno “spreco oggettivo”: per chi vende quell’energia, lo spreco è un vantaggio immediato, perché si traduce in guadagno. La stessa cosa vale per il cibo avariato eliminato dal frigorifero sempre pieno, nonché per tutte le merci (a prescindere dal loro essere beni o meno): se sono vendute è perché la loro vendita conviene a qualcuno.

    Spreco alimentare. Foto da www.greenme.it

    Questi nodi si collegano direttamente alla questione successiva, cioè l’insieme di pratiche proposte dalla teoria della decrescita e la visione del mondo che sottendono. L’idea che esistano “sprechi oggettivi” e “beni oggettivi” rivela una tendenza generale insita nell’analisi proposta da Pallante: l’incapacità di riconoscere il conflitto. Uno spreco è tale perché la ragione, neutra e oggettiva, lo riconosce come tale. Non esistono interessi contrapposti e inconciliabili all’interno della società, non esistono soggetti sociali che vivono di crescita e altri che ne alla crescita soccombono: esistono individui che, usando la propria ragione, lasciati liberi di scegliere, opteranno per la via che assicuri a lui e quindi alla collettività il massimo beneficio. Questa concezione individualista della società, in cui il singolo è considerato avulso da condizionamenti, capace di scegliere nel proprio interesse, autonomo e libero come un Robinson Crusoe su un’isola deserta, come vedremo si riflette anche nella proposta pratica.

    La seconda domanda che ho posto a Pallante è stata la seguente: «la decrescita si pone anche come risposta al problema ambientale di un mondo in cui si consumano le risorse molto più velocemente di quanto siano rigenerate (si abbattono più alberi di quanti ne ricrescano, si mangiano più pesci di quanti ne nascano, e così via). Questo problema è strettamente correlato alla produzione: se essa ha, come scopo, la crescita, è logicamente impossibile raggiungere uno stato stazionario, in cui si consumino le risorse sempre a ritmi più lenti di quelli richiesti per rigenerarle. Ora, il fine della produzione dipende da chi ne controlla la gestione, cioè, nella nostra economia, i capitalisti. Cosa propone la decrescita per ridefinire i fini della produzione?».

    Ancora una volta, la risposta lascia insoddisfatti: gli strumenti della decrescita per cambiare la società consisterebbero in «una vera e propria rivoluzione culturale» grazie a cui sempre più persone rinunciano ai consumi inutili, cosicché la produzione sia costretta ad adattarsi ai nuovi flussi di merci. Tuttavia questa ipotesi non risponde alla domanda e oltretutto è poco plausibile: pensare di poter convincere «la produzione», cioè i capitalisti, a smettere di perseguire la crescita è come pensare di poter convincere una persona a smettere volontariamente di respirare, perché rinunciare alla crescita sarebbe incompatibile con i principi su cui si basa il capitalismo. In realtà, secondo la logica individualista, questo non è un problema: i capitalisti, illustrata loro la bontà della teoria della decrescita per il benessere collettivo, comprenderebbero autonomamente e liberamente la necessità di abbattere il capitalismo e agirebbero di conseguenza. Purtroppo, c’è un problema non da poco, che Pallante si rifiuta di notare: a loro questo non conviene.

    C’è un’altra mancanza: nel descrivere i rimedi ad alcuni sprechi e le modalità di riduzione dei consumi inutili, Pallante elenca una serie di cose che «si deve fare», ma non dice mai chi deve farle, non c’è mai un soggetto esplicito. I cittadini? I consumatori? I lavoratori? I popoli? In realtà, date le premesse, dovrebbe essere chiaro qual è il soggetto: l’individuo. L’individuo che, preso atto che il dogma della crescita è dannoso per l’umanità e il pianeta, e presa coscienza che esistono alternative che ciascuno può personalmente adottare, agisce di conseguenza, modificando il proprio stile di vita e non certo quello degli altri, perché come ben dice Pallante rivelandosi di matrice libertaria (anzi libertariana), «quella sarebbe un’imposizione». A questo punto la decrescita si configura come un progetto cui aderire su base volontaria, e mi chiedo in cosa differirebbe la società decrescitista auspicata da quella attuale: i singoli possono già scegliere il proprio stile di vita.

    Il nodo centrale è proprio questo: rifiutare di imporre la volontà decrescitista contro gli sprechi in maniera conflittuale significa avallare la legittimazione culturale degli sprechi. Bisogna riconoscere che non esistono sprechi oggettivamente inutili, né c’è razionalità che regga: se non si influisce sui rapporti sociali, ogni progetto di ribaltamento è sterile.
    Sull’isola di Pasqua era evidente a tutti che il legname stesse per finire, ma si continuò a sfruttare quella risorsa in modo non sostenibile perché ciò consentiva alla casta al potere di mantenere l’autorità. Allo stesso modo, è inutile cercare di convincere il sistema a cambiare in virtù di nobili fini ragionevoli: il sistema non può essere convinto, deve essere forzato.

    Come ultima cosa, mi preme precisare che la parola “decrescita” è stata qui usata tutte le volte per riferirsi alla “decrescita felice” del movimento di Pallante, quindi alla componente italiana, non all’originaria teoria della decrescita: il pensiero di Pallante si discosta da quello di Latouche su punti che non possono essere considerati secondari, e che rendono il secondo un pensatore tendenzialmente di sinistra e la visione del primo tendenzialmente di destra. Mi spiace, ma “purtroppo” non riesco ad abbandonare queste “vecchie” categorie. Latouche affronta molte delle questioni cui Pallante non ha risposto o ha risposto in maniera insoddisfacente: egli parla esplicitamente di necessità di «superare la proprietà privata dei mezzi di produzione» e di «ridefinire il fine della produzione attraverso le relazioni sociali» e reputa legittimo che la collettività stabilisca dei limiti ai bisogni degli individui.
    Un punto di contatto è costituito comunque dall’utilizzo di concetti marxisti in maniera da non renderlo evidente, anzi pretendendo di rifiutarne la legittimità: Pallante si spinge addirittura alla citazione quasi letterale di un passaggio del Capitale di Karl Marx attribuendolo al sociologo statunitense Richard Sennett.

    Agli inizi del movimento, prima di optare per il nome di “decrescita”, assemblee di sostenitori discussero la scelta della denominazione da adottare. Tra le opzioni c’era il termine “ecosocialismo”, che fu scartato. Le parole pesano: se fosse stato scelto, probabilmente si sarebbero evitate certe simpatie.

  • Un marchio a 5 stelle [2]

    Articoli correlati: Sono stato grillino anch’io, Vuoti da riempire

    Qui la prima parte e la parte introduttiva.

    Il marchio Beppe Grillo. Perché questa divagazione apparentemente fuori luogo (vedi prima parte)? Torniamo al blog di Beppe Grillo. Il primo magazine solo online. Questa frase è sostanzialmente un messaggio pubblicitario, e in quanto pubblicità contiene una certa dose di menzogna: chiunque può verificare che i magazine online, o webzine, esistevano già anni prima della data di apertura del blog (26 gennaio 2005), e se non si è convinti si può chiedere a David Talbot.

    Se accanto al titolo, dunque in una posizione ad alta visibilità, è collocato un messaggio del genere, ciò è dovuto alla sua natura e funzione: la promozione pubblicitaria. Beppe Grillo è un brand. Ha un logo (il simbolo del M5S e il meno noto suo volto stilizzato in bianco e nero), un CEO (Gianroberto Casaleggio), una società di marketing (Casaleggio Associati), uno spazio di promozione e di vendita (il blog), un mercato di consumatori “fedeli” (i simpatizzanti). Qual è il valore aggiuntivo che il marchio Beppe Grillo conferisce ai prodotti? Un’analisi del capitalismo etico, cioè del «godere della privazione del nostro denaro a fin di bene», azzarda alcune ipotesi plausibili: il marchio Beppe Grillo si basa su surplus del nuovo, surplus del vero, surplus del popolo (vedi). La dicitura del titolo, per esempio, contiene il surplus del nuovo: il blog è stato «il primo».

    Vignetta di Quink

    La descrizione del blog di Grillo come fenomeno di strategia pubblicitaria non è una novità: due anni fa l’inchiesta Grillo e il suo spin doctor: la Casaleggio Associati (su Micromega, qui) faceva luce sulla gestione del blog come struttura commerciale appendice del mercato azionario. Tra i contatti aziendali della Casaleggio Associati, figurano personalità di spicco del mondo imprenditoriale italiano e statunitense. Nello spirito dell’azienda, la rete è uno strumento importantissimo di marketing virale che sfrutta la non-orizzontalità della trasmissione dei messaggi: Casaleggio è un teorico e uno dei guru delle nuove frontiere del marketing digitale ed è ben conscio del fatto che «online il 90 per cento dei contenuti è creato dal 10 per cento degli utenti: queste persone sono gli influencer» (alla faccia di ‘“uno vale uno”…). Le strategie usate sono tipiche del guerrilla advertising di scuola americana: teasing (il blog, le inserzioni a pagamento sui quotidiani); guerrilla (meetup, V-day); consolidating (liste civiche col bollino blu, Movimento di liberazione nazionale poi Movimento cinque stelle).

    Ovviamente, Beppe Grillo è il maggiore influencer per il pubblico di consumatori del blog: il marchio Beppe Grillo è per la Casaleggio Associati ciò che Michael Jordan fu all’inizio per la Nike, uno strumento di ottimizzazione della diffusione, massimizzazione delle vendite, costruzione della fiducia nel pubblico, creazione di un’identità aziendale trascendente, basata cioè non su questo o quel prodotto, bensì sull’idea che i prodotti veicolano, ovvero l’idea di novità, di democrazia, di orizzontalità, di trasparenza, come l’idea di sport con cui la Nike mira a identificarsi.

    A consolidare la natura di brand del M5S, ci pensano gli innumerevoli video, non ultimi quelli prodotti dagli aspiranti candidati per le prossime elezioni, che somigliano molto più a spot pubblicitari che a video di presentazione di un progetto politico. (qui i candidati e qui un esempio di pubblicità del movimento).

    Per prima cosa, Beppe Grillo ha formalizzato l’esistenza di un marchio personale, di sua proprietà legale (vedi), registrando il simbolo alla sezione Marchi e brevetti del Ministero dello sviluppo economico. In parte, questa mossa era stata anticipata di anni dall’articolo 3 del “Non statuto” del M5S, che fin dalla sua prima pubblicazione recita: «il nome del MoVimento 5 Stelle viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso». Questo conferisce a Grillo il potere di revocare il diritto all’uso del simbolo a chiunque, secondo la sua volontà e discrezione, il che è puntualmente accaduto con i casi Salsi e Favia, che saranno affrontati in seguito.

    Un marchio, secondo la normativa, deve essere registrato sotto particolari codici che ne stabiliscano gli usi previsti e dunque consentiti dalle leggi sul diritto d’autore, sui brevetti e sulla concorrenza. Il marchio a cinque stelle è stato registrato con tre codici (vedi) che lo identificano come:

    35 – pubblicità; gestione di affari commerciali; amministrazione commerciale; lavori di ufficio; ricerche di mercato.
    41 – educazione; formazione , divertimento; attività sportive e culturali.
    45 – servizi resi in campo politico, civico e sociale.

    Né più né meno della Nike.

    [continua…]

  • Super size me

    Super size me è il titolo di un famoso documentario del 2004 che prende le mosse dalla denuncia sporta, due anni prima, a McDonald’s da parte di due ragazze che accusavano la multinazionale di averle fatte ingrassare propinando loro una dieta eccessivamente ricca di grassi fino a renderle gravemente obese.

    Il processo fu archiviato in quanto le ragazze furono «incapaci di provare che la responsabilità fosse da attribuire al consumo dei cibi venduti dall’azienda» e da ciò trasse ispirazione Morgan Spurlock per girare il documentario: egli infatti si propose si mangiare e bere per un mese esclusivamente nei fast food McDonald’s per valutare l’effetto di quella dieta sulla salute.

    L’esperimento diede risultati devastanti e sorprendenti anche per i medici che lo seguirono dall’inizio alla fine: Morgan aveva il fegato gravemente danneggiato, avvertiva affaticamento e oppressione al petto, accusava depressione e parziale impotenza, il suo peso era aumentato di un decimo in quattro settimane, le analisi del suo sangue mostravano livelli di glucosio, lipidi, colesterolo preoccupantemente fuori dai parametri di sicurezza. Insomma, se avesse continuato, sarebbe stato in serio pericolo di vita.

    Aldilà degli effetti di McDonald’s sulla salute dei consumatori, il documentario tocca un punto particolarmente importante che intendo affrontare: la pubblicità.
    La questione della pubblicità permea lo spirito del documentario, secondo me è fondamentale, tanto da costituirne il vero messaggio, anche se potrebbe non sembrare così: non a caso, la scena di apertura mostra una schiera di bambini che intonano una filastrocca sui fast food.

    [youtube http://www.youtube.com/watch?v=nNdnPDSTzfI]

    È indubbio che il mercato dei fast food faccia molto affidamento sulla capacità di persuasione dei bambini nei confronti dei propri genitori, e che la cultura sottesa a tale mercato intenda, al fine di indirizzare questa capacità, manipolare le giovani menti. Noam Chomsky, in un’intervista sulla comunicazione pubblicitaria, sostiene che le aziende abbiano individuato nei bambini una categoria verso cui estendere il mercato, con l’unico problema che mancano di reddito; il problema è superabile «spingendo i bambini a fare i capricci», facendo pressione sui genitori, attraverso la naturale inclinazione di un genitore a soddisfare le esigenze della prole.

    Un bambino è letteralmente bombardato da circa 10 000 spot pubblicitari all’anno finanziati dall’industria alimentare: si tratta solo di una parte di una vera e propria forma di indottrinamento, che passa per meccanismi di imprinting nella prima infanzia, commistione di giocattoli e cibi, fusione di pubblicità e cartoni animati, diffusione del marchio attraverso la creazione di una mitologia aziendale mirata a mistificarlo, a caricarlo di significati, a infondere fiducia oltre ogni ragionevole limite.

    Un portavoce della GMA, lobby dell’industria alimentare statunitense, nel documentario sostiene che è ridicolo accusare le aziende, perché esiste la responsabilità personale del consumatore che, qualora fosse convinto della nocività di un alimento o di un’intera dieta, potrebbe liberamente decidere di non farne uso. «Noi non siamo la polizia né organi di controllo».

    La risposta ha senso, ma si deve tener conto di due cose: innanzitutto, della famosa scena di Arancia meccanica in cui Alex viene sottoposto a una terapia in cui farmaci che provocano malessere nel paziente gli venivano somministrati durante la visione di scene violente, per impedirgli di compiere atti violenti in futuro. Ovvero: andare da McDonald’s è una pura scelta individuale o può essere considerato il risultato di una “terapia”?

    Questo porta direttamente alla seconda considerazione. Quando si parla di libertà individuale, si chiamano in causa i filosofi liberali, paladini della tolleranza, rispetto della libertà altrui: Marcuse nota come secondo John Stuart Mill questo fosse un principio applicabile «soltanto agli esseri umani nella maturità delle proprie facoltà», indirettamente rendendo accettabile l’indottrinamento. Ovvero: dopo aver condotto una incessante e capillare opera di indottrinamento, parlare di responsabilità individuale è un modo fin troppo semplicistico per lavarsene le mani e dormire sonni tranquilli.

    La maggioranza delle persone saprebbe recitare a memoria vari spot pubblicitari ma non l’inizio della Costituzione del proprio paese o della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Si potrebbe obiettare che ciò non significa nulla, che queste persone potrebbero benissimo conoscere i valori contenuti in quei documenti e avere un’opinione personale in merito, senza necessariamente saperne recitare la fonte.

    Eppure, ciascuno è ciò che è in virtù di ciò che è stato, la memoria è il legame di ciascuno con il proprio passato, con ciò che ha plasmato una persona: se esiste un’influenza così forte su ciò che ricordiamo, possiamo affermare con certezza che ciò non abbia ricadute anche pesanti sulle nostre scelte?

    Queste tecniche di marketing colpiscono soprattutto i più giovani, che spesso finiscono col diventare inconsapevolmente delle pubblicità umane in 3D, come nella scena iniziale di Super size me o in quella che mostra bambini che, di fronte all’immagine di Ronald McDonald e alla domanda «chi è?» non si limitano a rispondere con il nome, ma citando frasi tratte dagli spot o dal cartone animato e atteggiandosi proprio come i personaggi delle pubblicità, nella gestualità e nel linguaggio.

    Colpiscono, comunque, anche gli adulti. Accecati dal marchio, quando comprano qualcosa da McDonald’s non comprano un prodotto, ma un simbolo. Si è talmente persuasi dalla mitologia aziendale costruita intorno ad esso, talmente acriticamente fiduciosi, talmente convinti della corrispondenza tra diffusione e qualità, che si è messi in soggezione dall’immensa aura di sacralità che avvolge la multinazionale. Tanto che anche i medici che hanno seguito Morgan nel suo esperimento, di fronte ai risultati, dati alla mano, stentavano a crederci: balbettavano «ma… McDonald’s…». Come a voler dire: concludere la frase con «fa male alla salute» suona strano rispetto a come siamo abituati, stona rispetto al programma martellante che ci hanno “installato”, propinandocelo giorno dopo giorno.

    La morale di questa storia è che bisogna non credere. Il profondo significato politico di Super size me è: «non fare quello che ti dicono di fare». Forse nessuno conduce una dieta identica a quella assunta da Morgan, ma a sentire la pubblicità, è ciò che si dovrebbe fare. In realtà, se iniziassimo a credere a tutte le pubblicità e a seguirne tutti i consigli, non dureremmo a lungo: solo applicando questo principio a un ambito ristretto, cioè la propaganda di McDonald’s, per un periodo ristretto, cioè un mese, qualcuno si è ridotto male. Pensate a cosa accadrebbe se ciascuno facesse la stessa cosa con i “consigli” non solo di McDonald’s ma anche di tutti gli altri.

    Infine, inserendo questi contenuti in una visione più ampia, c’è un’ultima considerazione da fare. I prodotti venduti da McDonald’s fanno male e questo è appurato. Tuttavia, non si deve confondere il mezzo con il fine: l’azienda non è intrinsecamente “cattiva”, il suo fine non è far stare male i suoi clienti né gode per i loro problemi di salute. Il fine dell’azienda è il profitto, tutto il resto è un mezzo per massimizzare il profitto: la pubblicità, il pesante condizionamento sociale, il cibo di scarsa qualità, la pressione sugli organi legislativi, la corruzione di giornalisti ed esperti dell’alimentazione sono solo incidenti di percorso.

    Così come sono, più in generale, incidenti di percorso il disboscamento e la desertificazione, la riduzione della biodiversità, l’inquinamento dell’aria e delle acque, l’erosione incontrollata dei suoli, lo sfruttamento dei beni comuni, delle risorse ambientali e umane. Tutto questo è un mezzo, una vittima sacrificale da immolare sull’altare del profitto. Insomma, quale sia il vero problema dovrebbe essersi già capito.

    Come dice Adam Naaman, uno dei due chirurghi intervistati nel documentario, «credo sia nella natura umana adottare una soluzione radicale per risolvere un problema radicale». In questo caso, penso sia chiaro che la soluzione fa rima con “soluzione”.

  • «There is no alternative»

    Articoli correlati: Sull’egemonia culturale, «Sacrifici o baratro», L’illusione del binomio liberismo-benessere, Il migliore dei mondi possibili ai tempi del pensiero unico, La manovra di Ferragosto e la shock economy, Le vacanze, La fine delle ideologie.

    Verranno al contrattacco
    con elmi ed armi nuove

    (CCCP, Curami)

    Riporto di seguito uno stralcio dell’introduzione di un libro di Graeber, di cui ho già avuto occasione di parlare.

    “I nostri nemici sembrano riconoscere il potenziale di questi movimenti , la minaccia che pongono agli equilibri di potere globale, in modo molto più consapevole di quanto non facciano gli attivisti dei movimenti stessi.

    E se la ragione della depressione di coloro che vorrebbero vedere un mondo organizzato secondo un principio diverso dal capitalismo fosse che i capitalisti e i politici sono letteralmente ossessionati dall’idea di farci sentire depressi? Il capitalismo neoliberista è ossessionato in primo luogo dal dover garantire che «non c’è nessuna alternativa», come Margaret Thatcher dichiarava negli anni ottanta. In altre parole, è stato ampiamente abbandonato ogni sforzo di argomentare che l’attuale sistema economico sia in effetti un ordine valido, giusto o ragionevole, che si dimostrerà capace di creare un mondo in cui la maggior parte degli esseri umani vivrà in prosperità, sicura, libera di spendere ogni significativa porzione della propria vita alla ricerca delle cose ritenute veramente importanti.

    È molto interessante notare come, alla fine della Guerra Fredda, il linguaggio usato per descrivere l’Unione Sovietica sia rapidamente mutato. Ovviamente, nessuna persona sana di mente vorrebbe una restaurazione di un sistema del genere. Allo stesso tempo, tuttavia, la retorica è cambiata quasi nel giro di ventiquattr’ore: dall’affermare che «un controllo sull’economia dall’alto verso il basso senza le libere forze di mercato non avrebbe potuto competere in modo efficace sul piano economico e militare con le potenze capitaliste più avanzate», si è passati al decretare con sicurezza assoluta e sprezzante che «il comunismo semplicemente non funziona», ovvero che un simile sistema non sarebbe mai potuto esistere. È una conclusione degna di nota, considerato che l’Unione Sovietica era in effetti esistita per oltre settant’anni e che nel giro di qualche decennio la Russia, dalla tremenda stagnazione in cui si trovava, era divenuta una delle maggiori potenze a livello tecnologico e militare.”

    David Graeber, La rivoluzione che viene

  • Caro Latouche, questo si chiama comunismo!

    Articoli correlati: Caro Latouche, questo si chiama capitalismo! *

    * Lo ammetto, il titolo è essenzialmente provocatorio, ma non ho saputo resistere alla bellezza della simmetria rispetto al precedente.

    Nell’articolo precedente ho parlato di come, dotatosi del nobile fine di “decolonizzare l’immaginario” attraverso un’opera di demistificazione del concetto di sviluppo, il professore e scrittore Serge Latouche rischia di mistificare ideologicamente il concetto di capitalismo. La pars destruens del suo discorso mira a rivelare l’assurdità e l’insostenibilità teorica e pratica di un’economia basata sullo sfruttamento illimitato delle risorse umane e ambientali e sull’aumento de facto delle disuguaglianze sociali.

    Cosa dire della pars construens? È da precisare che in Come sopravvivere allo sviluppo non viene proposta in modo organico l’alternativa decrescitista, ma è solo tratteggiata nei suoi punti salienti, nell’ultimo capitolo, intitolato “Uscire dallo sviluppo”.

    Ecco cosa scrive Latouche:

    «La decrescita deve chiaramente comportare una Aufhebung (“rinuncia, abolizione, superamento”) della proprietà privata dei mezzi di produzione e dell’accumulazione illimitata di capitale»

    «La decrescita presuppone un’organizzazione in cui viene messo in discussione il ruolo centrale del lavoro nella vita umana, in cui le relazioni sociali prevalgono sulla produzione e il consumo di prodotti […] Una riduzione draconiana del tempo di lavoro imposto, per assicurare a tutti un lavoro soddisfacente e permettere un riequilibrio dei tempi di vita»

    «Rivalutare significa rivedere i valori nei quali crediamo e sui quali organizziamo la nostra vita, cambiando quelli che vanno cambiati. Ristrutturare significa adattare l’apparato di produzione e i rapporti sociali in base al cambiamento dei valori. Ridistribuire riguarda la ripartizione delle ricchezze»

    Ricapitolando: con l’espressione “società della decrescita” Latouche si riferisce a un’organizzazione sociale in cui la ricchezza è ridistribuita, il modo di produzione è subordinato ai bisogni dell’uomo, l’accumulazione di capitale e la proprietà privata sono superate, è ridefinito il ruolo del lavoro nella vita umana.

    Personalmente, ho l’impressione che Latouche descriva con queste parole ciò che molti intendono quando parlano di comunismo. Questa impressione mi è rafforzata anche dal linguaggio utilizzato: il vocabolario cui attinge è chiaramente di questa matrice, a cominciare dall’idea che il lavoro sia «imposto». Negli apprezzamenti per il movimento altermondialista e alcune delle sue molteplici componenti, Latouche parla di «resistenza», «dissidenza», «riappropriazione», «relazioni sociali», «demistificazione», «beni comuni», «ridistribuzione», temi tutti cari alla retorica comunista (non necessariamente marxista, e lo dico per mettere le mani avanti su possibili contestazioni sull’utilizzo del termine). Parla anche di «convivialità», intesa come condivisione di beni materiali e immateriali, riferendosi dunque al concetto di «socialità», anch’esso tipico del linguaggio filocomunista.

    Ciò che Latouche definisce «decrescita conviviale» si rivela essere, in fin dei conti, una forma di società comunista. La differenza significativa rispetto al comunismo (stavolta marxista) e che non esiste per la teoria di Latouche un Manifesto del partito decrescitista che definisca le procedure materiali volte al raggiungimento di tale struttura sociale: «realizzare la società locale [uno dei metodi per uscire dallo sviluppo, n.d.r.] significa colonizzare progressivamente il mercato capitalistico e lo Stato». Come? Non se ne parla. Sembra quasi che neanche lui ci creda veramente, che in fondo pure la decrescita è utopia e di conseguenza è inutile perdita di tempo delineare come si passa da una società capitalistica ad un decrescitista.

    La conclusione che ne traggo è che, esattamente come non si arrischia a parlare esplicitamente di capitalismo, mistificandolo in vari modi, Latouche teme pure confronti con il comunismo, nonostante le innegabili somiglianze e riferimenti: lo esorcizza e ne prende le distanze, ignorandone il contributo teorico. In tutto il libro la parola «comunismo» appare una sola volta, accostata all’esperienza dell’URSS, per essere condannata insieme al capitalismo.

  • Caro Latouche, questo si chiama capitalismo!

    Articoli correlati: Sviluppo sostenibile: un ossimoro

    Si può scrivere un libro che parla sostanzialmente di economia, con contenuti fortemente critici nei confronti del capitalismo, senza mai scrivere la parola «capitalismo»?

    Ne avevo il sentore, ma ora che ho letto Come sopravvivere allo sviluppo di Serge Latouche (2005, Bollati Boringhieri) posso confermarlo: è possibile e tale libro ne è un esempio. Il sottotitolo recita: Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa. L’opera si pone quindi tradizionalmente il duplice obiettivo di decostruzione dell’esistente e di costruzione dell’alternativa: la pars destruens deve cominciare da ciò che Latouche definisce una «sovversione cognitiva» (la radicale messa in discussione del concetto di sviluppo), «premessa e condizione di qualsiasi cambiamento politico, sociale, culturale».

    La critica del concetto di sviluppo, come è noto per chi sa che Latouche è considerato il più influente sostenitore della teoria della decrescita, si basa sulla limitatzza delle risorse in un mondo finito e la conseguente impossibilità di crescita come dogma su cui imperniare un modello duraturo di società.

    L’autore si spinge oltre la critica del semplice sviluppo, e mette in luce la fallacia e l’assurdità dei cosiddetti «sviluppi particolari»: sviluppo sostenibile, sviluppo umano, sviluppo sociale, sviluppo locale e così via, tutti in realtà riconducibili, in un modo o nell’altro, a criteri di natura economica e culturale esclusivi del mondo occidentale e industrializzato e dunque non universali, né di conseguenza esportabili senza distruggere ciò che non si adatta ai parametri occidentali.

    Si parla della menzogna neoliberista del trickle down effect, che è il nuovo nome dato alla teoria della mano invisibile, secondo cui favorendo gli interessi dei ricchi si favoriscono gli interessi di tutti, la quale idea è sistematicamente smentita dai fatti. Se nel 1960 il 20% più ricco del mondo era 30 volte più ricco del 20% più povero, il divario è aumentato a un rapporto 60:1 nel 1990, crescendo ancora a 1:74 nel 1997, in piena realizzazione delle politiche neoliberiste del Fondo Monetario Internazionale. Oggi le tre persone più ricche del mondo guadagnano ogni anno più dei 48 paesi più poveri messi insieme, e allo sviluppo dei paesi poveri si ha rinunciato, preferendo piuttosto degli aggiustamenti strutturali ovvero «piani di austerità imposti dal FMI per ristabilire la solvibilità dei paesi indebitati proprio a causa di progetti di sviluppo illusori».

    L’idea di Latouche è in linea con l’opinione di un suo collega e amico, Gilbert Rist, che paragona il concetto di sviluppo a una stella morta, «che si è già spenta ma di cui continuiamo a vedere la luce»: perché il sogno dello sviluppo è stato smentito dalla realtà, in cui la mano invisibile non esiste e il trickle down effect è solo un pretesto del FMI e del cosiddetto Nord del mondo per imporre politiche di austerità al cosiddetto Sud del mondo. Non solo lo svilluppo è fallito, ma anche lo sviluppo sostenibile è una menzogna (per motivi di cui ho già parlato, ma prima di aver letto Latouche), anzi l’espressione stessa è un ossimoro, in quanto lo sviluppo implica la crescita illimitata, laddove la sostenibilità implica l’adeguamento dei tempi di produzione alle capacità di carico degli ecosistemi e dunque una crescita nulla.

    Del resto, fa notare Latouche, bisogna diffidare delle opinioni in materia economica che trovano approvazione unanime, perché probabilmente sono «parole plastiche» che ciascuno riempie con i contenuti che più gli sono consoni. Il socialista August Bebel, amico di Marx, si chiedeva quale idiozia avesse potuto dire ogni volta che al Reichstag la borghesia lo applaudiva. È partendo da questa considerazione che l’autore critica anche il movimento altermondialista (o almeno una sua componente), reo di continuare a proporre progetti di sviluppo sostenibile, sociale, umano, ecocompatibile noncurante del fatto che il problema è il concetto stesso di sviluppo, a prescindere dall’aggettivo qualificativo che lo segue: anche gli altermondialisti peccano di «sviluppismo», viene rivelato al lettore (ma va? e io che pensavo che il pensiero unico non fosse, appunto, unico) e ciò fa ovviamente comodo al FMI e alle multinazionali, che firmano appelli e manifesti per lo sviluppo sostenibile, e ai politici occidentali, che creano ministeri con quel nome: i più grandi sostenitori dello sviluppo sostenibile sono i più gandi inquinatori e i loro complici.

    In tutto questo, circa un centinaio di pagine, Latouche non scrive mai la parola «capitalismo». Due volte ricorre l’aggettivo «capitalistico» e una sola volta si parla di «capitalisti», mentre le ripetizioni di «capitale» si possono contare sulle dita di una mano, e ciò è comprensibile considerato che il concetto può essere usato in un’accezione piuttosto ampia (capitale naturale, capitale umano) sebbene comunque riconducibile ad una visione capitalistica.

    Vediamo però cosa intende dire quando parla di «sviluppo».

    «…lo sviluppo economico, lanciato da Harry Truman nel 1949 per permettere agli Stati Uniti di impadronirsi degli ex-imperi coloniali europei a impedire ai nuovi Stati indipendenti di cadere nell’orbita sovietica.»

    «…l’esperienza occidentale di decollo dell’economia, così come si è realizzato a partire dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750-1800…»

    «il contenuto implicito o esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l’accumulazione di capitale, concorrenza senza pietà, crescita senza limiti delle diseguaglianze, saccheggio sfrenato della natura»

    «lo sviluppo può essere definito come un processo che porta a mercificare i rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e la natura. Lo scopo è sfruttare, valorizzare, ricavare profitto»

    «è lo sviluppo che domina il pianeta da tre secoli a provocare emarginazione, sovrappopolazione, povertà…»

    «…lo sviluppo non può non produrre l’ingiustizia sociale…»

    «lo sviluppo ha distrutto il locale concentrando sempre di più i poteri industriali e finanziari»

    «…forme di redistribuzione sono la bestia nera degli sviluppisti»

    «i sistemi di protezione contro la povertà, in particolare la “solidarietà comunitaria”, vengono considerati come ostacoli, freni, resistenze allo sviluppo…»

    «con lo sviluppo, il prezzo che si paga sul piano sociale e umano è enorme. Negli anni settanta erano considerate cose “normali” la dittatura, il partito unico, il regime poliziesco, le detenzioni arbitrarie, la tortura o i desaparecidos, se servivano a realizzare il controllo sociale necessario per l’accumulazione “primitiva”»

    «non esiste altro sviluppo che lo sviluppo: è inutile cercarne uno migliore, perché in teoria quello che abbiamo va già bene»

    Insomma, con sviluppo ci si riferisce alla crescita economica, allo sfruttamento di risorse umane e naturali, alla mercificazione di cose, persone e relazioni, alla disuguaglianza sociale, al predominio dell’economia sulla politica, alla concentrazione dei capitali e dei poteri, a un sistema sociale nato in Inghilterra alla fine del Settecento e di cui gli Stati Uniti sono portabandiera… ma caro Latouche, questo si chiama capitalismo!

    Perché questa opera di meticolosa autocensura? Personalmente ho come l’impressione che Latouche abbia paura di esplicitare il proprio anticapitalismo. Pur di non scrivere la parola, inventa delle perifrasi o dei neologismi, come «sviluppismo», «sistema tecnoeconomico», «egoismo dei possidenti», «ricerca del profitto», «corsa al profitto». Biasima chi usa lo sviluppo sostenibile per mascherare ideologicamente lo sviluppo, ma usa lo sviluppo per mascherare ideologicamente il capitalismo.

    Insomma, mi sembra che l’opera demistificatoria di decolonizzazione dell’immaginario auspicata nel sottotitolo sia compiuta solo a metà: da un lato si smonta il dogma della crescita e si mostra la fallacia del concetto di sviluppo, dall’altro lo si fa attraverso un’operazione di mistificazione.

    Sulle proposte di decrescita (in verità solo accennate negli ultimi due capitoli) mi riservo di scrivere la prossima volta. Nel frattempo, il dibattito è aperto.

  • Sviluppo sostenibile: un ossimoro

    In questo articolo dal titolo volutamente provocatorio intendo raccogliere alcuni appunti sparsi sul concetto di sviluppo sostenibile, sempre più in voga con la diffusione delle idee ambientaliste, altermondialiste e infine decrescitiste. In breve, secondo le correnti maggioritarie di questo tipo di movimenti e scuole di pensiero, è possibile conciliare lo sviluppo economico con il rispetto dell’ambiente.

    Innanzitutto, mi sembra che si faccia molta confusione. Io non sono un esperto di economia, ma noto che affermazioni simili non si curano di distinguere tra sviluppo e progresso: per dirla con Pasolini, che tanti amano citare per le sue considerazioni sui «proletari in divisa» ma in pochi ricordano per quelle sul consumismo, «questo sviluppo è la produzione intensa, disperata, ansiosa, smaniosa di beni superflui mentre il progresso è la produzione di beni necessari». Parlare di “sviluppo sostenibile”, senza specificare che cosa si intende per “sviluppo”, specialmente in un’epoca in cui la classe dirigente giustifica le proprie scelte attraverso un’imposizione violenta del pensiero unico mediata soprattutto dal linguaggio, può essere fuorviante e rischioso, perché in tali condizioni non specificare significa accettare la posizione dominante (in questo post scrivevo che «è più facile che un contenitore vuoto sia riempito da ciò che è abbondante»).

    [youtube=http://www.youtube.com/watch?v=pg8cdmTusHk]

    E la posizione dominante ovviamente è quella che predilige l’aspetto economico dello sviluppo e lo identifica con la crescita economica. Crescita dei profitti prima di tutto: diritti, benessere, socialità, insomma qualità della vita sono accessori compresi solo se il loro incremento è possibile senza compromettere la crescita economica.

    Iniziamo quindi a mettere i puntini sulle “i” e chiamiamo lo sviluppo sostenibile con più chiarezza: “sviluppo economico sostenibile”.

    Ora, il concetto della sostenibilità ambientale risale agli inizi degli anni Settanta, quando il Club di Roma, circolo di scienziati, economisti, attivisti e politici, pubblicò il famoso Rapporto sui limiti dello sviluppo, ovvero uno studio scientifico in cui per la prima volta si riconosceva che, se i tassi di sfruttamento delle risorse, crescita demografica, inquinamento si fossero mantenuti costanti, entro un secolo al massimo si sarebbero verificate (non necessariamente in contemporanea) una serie di crisi dovute alla finitezza delle risorse.

    Non serve studiare troppa chimica per sapere cos’è lo stato stazionario: una condizione in cui le grandezze di un sistema si mantengono a valori costanti nonostante la presenza di processi che, considerati singolarmente, provocano variazioni di tali grandezze. Per i profani, l’esempio più semplice è quello di un tubo attraversato da un liquido a velocità costante: il processo di ingresso a un capo del tubo tende ad aumentare il volume del liquido al suo interno, ma in ogni istante il tubo contiene lo stesso volume perché il processo di uscita all’altro capo coinvolge lo stesso volume di liquido che entra. Lo stesso vale per un organismo vivente, che nel corso della propria vita consuma una quantità di risorse pari anche a centinaia di volte il proprio peso.

    Ora, è evidente che per evitare crisi come quelle prospettate dal Rapporto sui limiti dello sviluppo occorre raggiungere lo stato stazionario nel consumo delle risorse ambientali, ovvero, per quanto riguarda le rinnovabili, che hanno un tasso di rigenerazione, sfruttarle con una velocità di sfruttamento uguale o minore di tale tasso: tagliare meno alberi di quanti ne ricrescono, pescare meno pesci di quanti ne nascono, e così via.

    Ciò implica (e in proposito raccomando Collasso di Jared Diamond) l’adattamento dei ritmi di produzione ai tempi richiesti dalla natura per il rinnovo delle risorse (nel caso delle risorse rinnovabili) oppure la sperimentazione di tecnologie che possano sostituire le risorse non rinnovabili con risorse rinnovabili. Questo significa che, raggiunto l’equilibrio tra ritmi di produzione e tempi naturali, si deve avere “crescita zero”.

    Alla luce di queste considerazioni, appare evidente che l’espressione “sviluppo sostenibile” è un non-senso, se non si respinge l’idea che lo sviluppo si misuri in termini di crescita economica: perché si abbia sviluppo economico deve esserci crescita, perché si abbia sostenibilità deve esserci almeno lo stato stazionario ossia crescita zero o decrescita. Le due cose quindi sono inconciliabili.

    Sia chiaro che con questo non intendo dire che gli sforzi compiuti da associazioni ambientaliste o istituzioni politiche siano del tutto futili; piuttosto, ci si deve rendere conto che a lungo andare il capitalismo (basato sulla crescita e l’accumulo) e la sostenibilità non possono coesistere in quanto si escludono reciprocamente. Prima o poi arriverà sempre il momento in cui l’accettazione della crescita come principio indiscutibile dovrà fare i conti con la realtà, in cui le risorse sono limitate e quelle rinnovabili si rigenerano in tempi non nulli. L’unico progetto reale di sviluppo sostenibile è quindi quello che passa per la messa in discussione del capitalismo.