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  • Il neoliberismo come lo schiavismo

    Che la globalizzazione neoliberista abbia avuto e abbia effetti nefasti sulla vita di miliardi di persone è ormai un fatto acclarato, di un’evidenza tale che neanche le istituzioni che la hanno storicamente sostenuta e alimentata ideologicamente, economicamente e in parte politicamente possono più negarlo: il neoliberismo fa male all’umanità. Ormai è riconosciuto ufficialmente da studi e rapporti promossi e finanziati dagli stessi istituti che negli ultimi quarant’anni non hanno mai smesso di suggerire manovre economiche di scuola neoliberista e di intimare governi e parlamenti di Paesi nominalmente sovrani a varare piani di aggiustamento strutturale ricattandoli tramite il controllo del debito pubblico, anche a prezzo di istaurare dittature illiberali, violente e autoritarie (perché, occorre ricordarlo, l’austerità è incompatibile con la democrazia, non col fascismo).

    Ecco alcune delle illuminate affermazioni di Christine Lagarde sulla globalizzazione, di cui FMI, Banca Mondiale e WTO si accorgono solo adesso e che Lagarde pronuncia quasi con stupore, come se avesse visto la mano invisibile di Adam Smith volteggiare sopra la propria testa in un tiepido pomeriggio d’aprile e come se queste preoccupazioni non fossero state espresse nella forma di certezze vissute sulla propria pelle da milioni di persone negli ultimi trent’anni almeno: «Il commercio ha avuto effetti negativi su alcune tipologie di lavoratori e su alcune comunità»; «la globalizzazione ha contribuito a schiacciare i salari»; «la globalizzazione ha avuto qualche effetto negativo sul primo mondo». Risparmiandosi di commentare, il punto che è da notare è il passo indietro rispetto all’atteggiamento ideologico assunto storicamente che vedeva nella ricetta neoliberista la panacea contro tutti i mali.

    Nel complesso, tuttavia, resta ancora molta cieca ideologia se Jim Wong Kim, presidente della Banca mondiale, coglie l’occasione per sottolineare nelle stesse ore che «la globalizzazione è anche una questione di giustizia sociale: ha tirato fuori milioni di persone dalla povertà». Delle disuguaglianze, in fondo, che importa? Se un sistema riesce a farti uscire dalla povertà assoluta, che male c’è se al contempo ti deruba di parte della ricchezza che produci per arricchire chi possiede già la ricchezza di centinaia di milioni di persone? Il neoliberismo, e il capitalismo in generale, neanche intravedono alcunché di immorale in questo. Come chi, a suo tempo, non vedeva alcunché di immorale nello schiavismo, che in fondo tirò fuori milioni di persone dalla morte per fame.

  • L’austerità è incompatibile con la democrazia, non col fascismo

    L’incompatibilità tra austerità e democrazia è un concetto negli ultimi anni sostenuto a più riprese dai movimenti sociali: migliaia di manifestazioni, presidi, cortei hanno attraversato i continenti per dire «our democracy against their austerity» rivelando la contrapposizione tra le due, per ricordare ai presunti paladini dello Stato di diritto espressione della sovranità popolare che «o povo é quem mais ordena».

    La modalità di introduzione delle norme che hanno ridefinito il mercato del lavoro per renderlo più “flessibile”, eroso diritti conquistati in decenni o secoli di lotte, aumentato le disuguaglianze sociali, costretto milioni di persone alla precarietà e alla povertà, da alcuni sono state definite “tecnofascismo”. I provvedimenti di privatizzazione dei servizi, smantellamento dello stato sociale, ristrutturazione del debito a suon di tagli, ovvero le famose riforme, in passato imposti ai paesi dell’altra metà del mondo con il nome di “piani di aggiustamento strutturale”, sono stati imposti nei paesi europei scavalcando i parlamenti nazionali, esautorati nelle questioni economiche di primaria importanza dagli organismi finanziari internazionali. Istituzioni non soggette a controllo democratico hanno pesantemente condizionato istituzioni rappresentative: è la “dittatura dei mercati”.

    Dal canto loro, i rappresentanti del potere hanno sempre fatto il possibile perché questa narrazione degli eventi prendesse piede e hanno reagito di volta in volta misurandosi sapientemente con la situazione: provando inizialmente a smorzare i toni per tenere a bada l’opinione pubblica, cercando di ricondurre le soggettività potenzialmente sovversive e le loro simpatie alla “ragionevolezza”, ovvero al riconoscimento dell’inevitabile supremazia del mercato con conseguente genuflessione alla sua volontà trascendente (Papademos quando diceva: «sacrifici o baratro»); quando ciò non era possibile, hanno optato per la via della compiacenza, mostrandosi premurosi e comprensivi, chiarendo che le rivendicazioni dei movimenti erano giuste e le proteste sacrosante, ma questioni tecniche imponevano di rimandare la loro realizzazione (Draghi quando diceva: «li capisco, noi alla loro età non abbiamo dovuto aspettare»); quando il riconoscimento da parte delle masse dell’esistenza, nella società, di interessi contrapposti e inconciliabili si è fatto un rischio elevato a tal punto da far scricchiolare le fondamenta della retorica dei sacrifici, la risposta è divenuta repressiva.

    I momenti di mobilitazione sono stati spesso teatro di pratiche conflittuali che hanno incontrato la repressione del dissenso in nome dell’ordine. Ecco perché i movimenti sociali, nell’interfacciarsi con queste imposizioni, vi riconoscono il fascismo: si tratta di scelte prese da una ristretta minoranza e imposte con la violenza a garanzia dell’ordine sociale ovvero delle disparità.

    È per questo che, durante la campagna elettorale greca dello scorso anno, il tanto sgolarsi dei vertici europei per invitare a non votare Syriza fu motivo di indignazione ma non di sorpresa; lo stesso può dirsi del mancato invito a non votare il partito neonazista greco Alba Dorata: l’austerità è incompatibile con la democrazia, non con il fascismo.

    Quello che non era ancora successo era l’ammissione esplicita dell’incompatibilità tra austerità e antifascismo, avvenuta meno di un mese fa e passata quasi inosservata dai mezzi di informazione. Il 28 maggio, la società finanziaria JPMorgan Chase&Co, con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali, ha pubblicato un documento di analisi (qui visualizzabile per intero) sull’attuale situazione nella zona Euro, contenente considerazioni sulla funzione a lungo termine dell’austerità, sul suo stato di avanzamento, sugli ostacoli che ne impediscono la piena attuazione.

    «La gestione della crisi nella zona euro si è evoluta nel corso degli ultimi tre anni, ma una questione di fondo è sempre stata presente, costantemente: che i problemi esistenti a livello nazionale dovrebbero essere affrontati a livello nazionale prima che la regione intraprenda ulteriori passi di integrazione» recita il documento già nell’introduzione.

    «All’inizio della crisi si pensò che i problemi nazionali preesistenti fossero soprattutto di natura economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea»

    «I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo»

    «I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. Le carenze di tale eredità politica sono state rivelate dall’incedere della crisi: i paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, con esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)»

    Praticamente, in questo documento per la prima volta dei banchieri ammettono apertamente che ordinamenti costituzionali basati sui valori dell’antifascismo non sono compatibili con i dettami di quella che ritengono la “scienza economica”, che non è altro che l’economia neoliberista.
    In questo modo, il tecnofascismo di oggi giunge alle stesse conclusioni del fascismo di ieri, con la differenza che mentre i fascismi novecenteschi giustificarono la propria azione articolandola sul piano politico, l’austerità viene imposta perché considerata l’unica alternativa sul piano economico. Gli effetti non sono dissimili: è necessario un governo forte che scavalchi facilmente i parlamenti, bisogna abolire le tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, non deve essere permesso manifestare il proprio dissenso contro proposte sgradite. Si deve insomma ammorbidire gli eccessi di democrazia, che sono eccessi nella misura in cui minacciano un sistema economico fondamentalmente autoritario, basato sulla gerarchia anziché sulla partecipazione e sulla condivisione: in questo senso, i fascismi del secolo scorso ebbero la funzione storica di frenare gli stessi eccessi.

    Una volta lo facevano per difendere «la nazione», oggi lo fanno per difendere «la crescita». Entrambi sono vuoti feticci.

     

    Uno dei pochi articoli sull’argomento: JP Morgan all’Eurozona: “Sbarazzatevi delle costituzioni antifasciste”

  • Eurotower

    Cenere, cenere e polvere e sete troverete. E una torre che tutto scruta.

  • Occupy Affari, la Bocconi e i sassi

    Oggi una manifestazione nazionale a Milano raccoglierà tutte le forze contrarie alle politiche di austerità del governo Monti. Il percorso del corteo doveva originariamente partire dalla Bocconi per terminare di fronte alla borsa italiana, in Piazza Affari. Ma ciò, spiega Cremaschi, «non ci è stato permesso; mi ricorda quando c’era Berlusconi e a Roma si poteva manifestare ovunque ma non davanti a Palazzo Grazioli. Evidentemente la Bocconi è considerata casa di Monti».

    Prima della manifestazione verrà portata una corona di fiori in memoria di Roberto Franceschi, studente ucciso durante le proteste che scoppiarono la sera del 30 gennaio 1973 in seguito alla decisione del rettore dell’università di impedire l’accesso alle assemblee studentesche serali a tutti coloro sprovvisti di libretto universitario: infatti, per garantire il rispetto di tale scelta, il rettore chiamò la celere, che circondò l’università, respinse gli studenti raccolti all’ingresso e non esitò a sparare ad altezza uomo, dunque in mezzo alla folla, mentre questi ultimi si allontanavano. Roberto fu colpito alle spalle, come Roberto Piacentini, mentre fuggiva dalla violenza dello sgombero. Non riprese mai più conoscenza.

    La prima versione della Questura fu che il giovane era stato colpito da un sasso lanciato dai giovani contestatori. Vi ricorda qualcosa?

    Caduta questa versione, le indagini si rivolsero verso gli agenti. La Questura, sulla base del rapporto del colonnello Arcangelo Scarvaglieri, avanzò la versione dell’agente in preda a raptus: affermò infatti che l’agente di PS Gianni Gallo avrebbe sparato in stato di semi-incoscienza. Ma tu pensa un po’. In quel periodo dovevano esserci tanti agenti semi-coscienti; che fosse una malattia endemica non ancora diagnosticata?

  • «Sacrifici o baratro»

    «In politica, per sinistra si intende generalmente il sostegno al cambiamento sociale al fine di costruire una società con una struttura più egualitaria. Solitamente le politiche di sinistra comportano una preoccupazione per coloro che nella società sono svantaggiati rispetto agli altri e un’assunzione che esistano delle disparità ingiustificate (che la destra vede come naturali o tradizionali) che dovrebbero essere ridotte o abolite».
    Nella definizione che la versione inglese di wikipedia dà del concetto generico di sinistra è già scritta la storia dell’egemonia del pensiero unico degli ultimi decenni e la teoria della shock economy, la cui validità, a poche ore dall’appovazione dell’ennesimo piano di austerità da parte del Parlamento greco, è sotto gli occhi di tutti.

    Piazza Syntagma, di fronte al Parlamento greco

    Ieri sera in Grecia si era alla resa dei conti: qualche parlamentare ellenico ha votato a favore ma controvoglia, solo per compiacere lo spirito di responsabilità nazionale, qualcun altro ha votato contro ed è stato espulso dal partito politico di appartenenza (21 da Nea Dimokratia, 20 dal PASOK, 2 dal LAOS), come era stato promesso prima del voto, tutti gli altri hanno saturato di “ναι σε όλα” (significa “sissignore”) l’aula del Parlamento. I nodi sono venuti al pettine, si è chiarito infine da che parte ciascuno stava: dalla parte dei mercati o da quella del popolo, dalla parte del palazzo o dalla parte della piazza, dalla parte del capitale o da quella di chi ne è sfruttato e schiavizzato.

    Il discorso di Papademos ai suoi colleghi insisteva: «sacrifici o baratro». Come se la crisi fosse un fenomeno naturale: c’è una siccità con conseguente carestia? vuol dire che ci sosterremo l’un l’altro, dimezziamo la nostra razione alimentare giornaliera e cerchiamo di resistere in condizioni sempre più difficili; c’è un incendio? lasciamo tutti le nostre case, è una rinuncia necessaria se vogliamo salvare pelle; c’è una crisi finanziaria? siamo tutti nella stessa barca, accettiamo il nostro triste destino, il taglio (ulteriore) del salario minimo del 20%, il taglio delle pensioni, la privatizzazione di autostrade, ospedali, scuole, beni comuni. E, di fatti, la risposta che danno i mercati è proprio un rialzo di tutte le Borse mondiali e il calo dello spread (ieri era a circa 3500, oggi è a 3000). Solo che in questo caso la pelle non se la salvano i greci, anzi si rischia un’emergenza umanitaria: gli ultimi mesi hanno visto tornare in Grecia il fenomeno dell’emigrazione di massa, dell’abbandono dei figli, l’aumento dei senzatetto, quelli che l’autore di questo blog paragona a zombie: «persone che hanno perso tutto e che vagano con aria allucinata per le strade».

    Senzatetto durante manifestazioni di protesta. Fonte Reuters

    Bene, gli zombie umani che si riversano nelle strade greche sono il risultato di un sistema che produce per sua natura zombie umani, da secoli nei territori coloniali schiacciati dall’imperialismo e dal colonialismo, da decenni nei paesi del cosiddetto Sud del mondo che spesso coincidono con i primi, da molto più di recente anche i popoli dei paesi che l’hanno creato: in breve, è un sistema che a lungo andare si mangia da solo. Non prima di una violenta agonia.

    Ma che sia chiara una cosa: questo sistema non è naturale, questa crisi non è un fenomeno naturale. A chi non riesce a concepire un modo di gestire le risorse ambientali e umane diverso da quello attuale ricordo che lo schiavismo, che era alla base dei sistemi sociali delle civiltà europee classiche, era considerato da quelle culture “naturale”: nella Politica di Aristotele lo schiavo è definito come «un essere che per natura non appartiene a se stesso». Allo stesso modo, oggi, compiacere i mercati e assecondare la finanza sono per natura obblighi morali della società: se te lo chiedono i mercati, puoi fare qualunque cosa e non ne sarai considerato responsabile o complice, perché hai agito conformemente alla natura delle cose.

    Papademos dice: «sacrifici o baratro», a me sembra tanto la versione speculare  del quasi centenario «socialismo o barbarie».

  • La saggezza dell’orso fragola

    Sento un brusio confuso in mezzo a cui riesco a distinguere qualche frase, tipo «questo governo mi ha deluso», «da Monti non me l’aspettavo», «e io che ci speravo», insomma frasi che lasciano intendere che in tanti la fiducia nel nuovo governo è stata tradita con l’attuazione di politiche di mortificazione del lavoro e di scelte impopolari, e nel frattempo qualcuno dedica a Monti uno dei pugnàlati della giornata, che si è soliti dedicare a qualcuno non proprio simpatico.
    Ma secondo questi che si lamentano e che cascano dalle nuvole, cosa c’era da aspettarsi da un governo tecnico (che significa destrorso liberista) chiamato a salvare l’Italia dall’attacco dei mercati per soddisfare le loro richieste sacrificali, se non ciò che, evidentemente, piace ai mercati, cioè privatizzazioni, flessibilità del lavoro, precarietà? E che altro aspettarsi da un governo controllato per metà dal Vaticano, se non che risparmi alla Chiesa il pagamento dell’ICI e continui a garantirle tutte le agevolazioni fiscali di cui ha sempre goduto dal 1929 in poi?
    Invece no, «Monti è bravo», «Monti lasciamolo fare», «Monti vedremo», «Monti è sobrio e austero mica come quelli che c’erano prima». Ma sì, accettiamo un altro padrone: se ieri governavano i burattini delle banche e del mercato, oggi governano le banche e i mercati stessi. Non era più semplice sbarazzarsi dei padroni? Almeno non avremmo avuto tutte queste illusioni inattese e aspettative deluse. Ricordatevi cosa diceva Lots’o, l’orso rosso al profumo di fragola, che «Niente padroni significa niente cuori infranti».

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  • La manovra di Ferragosto e la shock economy

    Da più parti e alle persone più inaspettate sento pronunciare commenti e apprezzamenti del tipo «per una volta mi trovo a dire che il Governo mi è piaciuto!» che dimostrano definitivamente quale sia la percezione della crisi nell’immaginario collettivo costruito sapientemente dietro controllo mediatico: la crisi viene percepita come se fosse un fenomeno naturale e una calamità inevitabile. Se un terremoto colpisce il territorio abruzzese o una tromba d’aria devasta la costa ionica del catanese, che colpa può averne il governo, la burocrazia o chiunque altro? Lo stesso ragionamento, grazie ai martellamenti continui del pensiero unico attraverso ogni canale di informazione, si impossessa automaticamente della mente di tanti, che di fronte a una crisi finanziaria si convincono di avere a che fare con una crisi sismica. Ma come potrebbe questo non accadere dal momento che è proprio l’inevitabilità il carattere di una crisi che tutti ci dicono piovere dall’alto?

    Bene, voglio svelarvi un segreto: la crisi non è inevitabile né imprevedibile, è connaturata al sistema economico liberista e dunque è inevitabile solo finché non si mette in discussione il sistema stesso e si parla del liberismo come se fosse lo stato di natura (eppoi certo che la crisi sembra un fenomeno naturale!). Mi sembra invece che la manovra di Ferragosto decretata dal governo non faccia altro che ribadire la sua supremazia, o meglio la sua unicità nel panorama politico, visto che l’opposizione (tre volte virgolettata) ormai non fa più neanche ridere (Bersani: «è ora che la crisi la paghi chi non l’ha mai pagata!» ma senza dire chi, perchè il Pd ha paura).

    Beatificazione del contratto di Mirafiori, liberalizzazioni (finirà come l’Argentina?) in barba allo spirito referendario (ma tanto lo sapevamo che sarebbe finita così!), festività accorpate o addossate alle domeniche per guadagnare qualche giorno di produttività nei prossimi anni (ma il turismo in Italia vive dei ponti), dal prossimo anno si lavorerà il 25 aprile e il primo maggio (ma proprio quest’ultima cosa, siamo sicuri che l’abbiano chiesta l’UE e la BCE?)

    Non voglio entrare nei dettagli, perchè so di non averne le competenze necessarie, mi piuttosto dico: tutti contenti della manovra, ma nessuno pensa alla shock economy? In tanti sono disperati ma rassegnati, perchè «tutti dovremo fare qualche sacrificio». Ma se una banca fallisce, perchè il sacrificio lo devo fare io e non chi l’ha fatta fallire? E comunque, mai sentito parlare di shock economy? Si approfitta di un disastro (le cui cause peraltro in questo caso hanno un nome e un cognome) per far passare leggi e norme che non avrebbero mai il consenso popolare; dopodiché quelle norme rimarranno in vigore, per quanto possano sostenere i difensori dell’austerity, in buona o cattiva fede. O vi risulta che le leggi antiterrorismo degli anni di piombo siano state ritirate? E le straordinarie misure di sicurezza repressive della war on terrorism? Sono ancora là. E i cittadini del New Orleans che dopo l’uragano Katrina scoprono che non avranno mai più scuole e ospedali pubblici? Si può continuare a lungo l’elenco di episodi in cui il potere ha approfittato di situazioni di crisi per approvare delle scelte che mai la popolazione accetterebbe.

    Allo stesso tempo mi chiedo se non sarebbe più socialmente giusto e più sensato ed efficace far pagare l’ICI alla Chiesa Cattolica; tassare i patrimoni sopra il milione di euro; combattere l’evasione fiscale; tagliare drasticamente le spese militari; ritirare i soldati italiani dall’Afghanistan e dalla Libia; abolire tutte le province.

    Ma questo la «losca confraternita dei borghesi produttori di profitto» (sic!) non lo farà mai.