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* Lo ammetto, il titolo è essenzialmente provocatorio, ma non ho saputo resistere alla bellezza della simmetria rispetto al precedente.
Nell’articolo precedente ho parlato di come, dotatosi del nobile fine di “decolonizzare l’immaginario” attraverso un’opera di demistificazione del concetto di sviluppo, il professore e scrittore Serge Latouche rischia di mistificare ideologicamente il concetto di capitalismo. La pars destruens del suo discorso mira a rivelare l’assurdità e l’insostenibilità teorica e pratica di un’economia basata sullo sfruttamento illimitato delle risorse umane e ambientali e sull’aumento de facto delle disuguaglianze sociali.
Cosa dire della pars construens? È da precisare che in Come sopravvivere allo sviluppo non viene proposta in modo organico l’alternativa decrescitista, ma è solo tratteggiata nei suoi punti salienti, nell’ultimo capitolo, intitolato “Uscire dallo sviluppo”.
Ecco cosa scrive Latouche:
«La decrescita deve chiaramente comportare una Aufhebung (“rinuncia, abolizione, superamento”) della proprietà privata dei mezzi di produzione e dell’accumulazione illimitata di capitale»
«La decrescita presuppone un’organizzazione in cui viene messo in discussione il ruolo centrale del lavoro nella vita umana, in cui le relazioni sociali prevalgono sulla produzione e il consumo di prodotti […] Una riduzione draconiana del tempo di lavoro imposto, per assicurare a tutti un lavoro soddisfacente e permettere un riequilibrio dei tempi di vita»
«Rivalutare significa rivedere i valori nei quali crediamo e sui quali organizziamo la nostra vita, cambiando quelli che vanno cambiati. Ristrutturare significa adattare l’apparato di produzione e i rapporti sociali in base al cambiamento dei valori. Ridistribuire riguarda la ripartizione delle ricchezze»
Ricapitolando: con l’espressione “società della decrescita” Latouche si riferisce a un’organizzazione sociale in cui la ricchezza è ridistribuita, il modo di produzione è subordinato ai bisogni dell’uomo, l’accumulazione di capitale e la proprietà privata sono superate, è ridefinito il ruolo del lavoro nella vita umana.
Personalmente, ho l’impressione che Latouche descriva con queste parole ciò che molti intendono quando parlano di comunismo. Questa impressione mi è rafforzata anche dal linguaggio utilizzato: il vocabolario cui attinge è chiaramente di questa matrice, a cominciare dall’idea che il lavoro sia «imposto». Negli apprezzamenti per il movimento altermondialista e alcune delle sue molteplici componenti, Latouche parla di «resistenza», «dissidenza», «riappropriazione», «relazioni sociali», «demistificazione», «beni comuni», «ridistribuzione», temi tutti cari alla retorica comunista (non necessariamente marxista, e lo dico per mettere le mani avanti su possibili contestazioni sull’utilizzo del termine). Parla anche di «convivialità», intesa come condivisione di beni materiali e immateriali, riferendosi dunque al concetto di «socialità», anch’esso tipico del linguaggio filocomunista.
Ciò che Latouche definisce «decrescita conviviale» si rivela essere, in fin dei conti, una forma di società comunista. La differenza significativa rispetto al comunismo (stavolta marxista) e che non esiste per la teoria di Latouche un Manifesto del partito decrescitista che definisca le procedure materiali volte al raggiungimento di tale struttura sociale: «realizzare la società locale [uno dei metodi per uscire dallo sviluppo, n.d.r.] significa colonizzare progressivamente il mercato capitalistico e lo Stato». Come? Non se ne parla. Sembra quasi che neanche lui ci creda veramente, che in fondo pure la decrescita è utopia e di conseguenza è inutile perdita di tempo delineare come si passa da una società capitalistica ad un decrescitista.
La conclusione che ne traggo è che, esattamente come non si arrischia a parlare esplicitamente di capitalismo, mistificandolo in vari modi, Latouche teme pure confronti con il comunismo, nonostante le innegabili somiglianze e riferimenti: lo esorcizza e ne prende le distanze, ignorandone il contributo teorico. In tutto il libro la parola «comunismo» appare una sola volta, accostata all’esperienza dell’URSS, per essere condannata insieme al capitalismo.
Si può scrivere un libro che parla sostanzialmente di economia, con contenuti fortemente critici nei confronti del capitalismo, senza mai scrivere la parola «capitalismo»?
e l’assurdità dei cosiddetti «sviluppi particolari»: sviluppo sostenibile, sviluppo umano, sviluppo sociale, sviluppo locale e così via, tutti in realtà riconducibili, in un modo o nell’altro, a criteri di natura economica e culturale esclusivi del mondo occidentale e industrializzato e dunque non universali, né di conseguenza esportabili senza distruggere ciò che non si adatta ai parametri occidentali.
Del resto, fa notare Latouche, bisogna diffidare delle opinioni in materia economica che trovano approvazione unanime, perché probabilmente sono «parole plastiche» che ciascuno riempie con i contenuti che più gli sono consoni. Il socialista August Bebel, amico di Marx, si chiedeva quale idiozia avesse potuto dire ogni volta che al Reichstag la borghesia lo applaudiva. È partendo da questa considerazione che l’autore critica anche il movimento altermondialista (o almeno una sua componente), reo di continuare a proporre progetti di sviluppo sostenibile, sociale, umano, ecocompatibile noncurante del fatto che il problema è il concetto stesso di sviluppo, a prescindere dall’aggettivo qualificativo che lo segue: anche gli altermondialisti peccano di «sviluppismo», viene rivelato al lettore (ma va? e io che pensavo che il pensiero unico non fosse, appunto, unico) e ciò fa ovviamente comodo al FMI e alle multinazionali, che firmano appelli e manifesti per lo sviluppo sostenibile, e ai politici occidentali, che creano ministeri con quel nome: i più grandi sostenitori dello sviluppo sostenibile sono i più gandi inquinatori e i loro complici.