Blog

  • Di quale «guerriglia» state parlando?

    Venerdì si è svolta una manifestazione indetta dal movimento No MUOS. Il percorso del corteo si addentrava nella sughereta di Niscemi, dentro alla riserva naturale in cui il governo statunitense d’accordo con quello italiano vuole realizzare l’imponente sistema di coordinamento di attività belliche a livello continentale. Diverse migliaia di persone, un numero notevole per il periodo estivo che notoriamente intorpidisce corpi e menti, hanno preso parte alla marcia confermando la forza crescente di un movimento che ha saputo costruire il proprio consenso intorno a parole d’ordine come il principio dell’autodeterminazione, il diritto alla salute e la condanna della guerra e del servilismo delle autorità nostrane di fronte al volere dell’Impero.

    antennemuosDopo aver percorso il tratto all’interno dell’area della riserva, sbucata davanti ad uno dei cancelli, la testa del corteo si è trovata a fronteggiare uno schieramento di forze dell’ordine disposte in modo da impedire il passaggio verso l’ingresso della base militare USA. Alla richiesta di entrare simbolicamente nella base (anche perché: per quale altro motivo si potrebbe voler entrare?), la risposta è stata una serrata di scudi e la disposizione dell’anti-sommossa. Si è avuto quindi un contatto tra le forze dell’ordine e le prime file del corteo, un po’ perché queste pensavano di poter soverchiare gli uomini che impedivano loro l’accesso, un po’ perché spinte dal flusso della restante parte del corteo, e per qualche minuto la tensione ha portato a qualche spintone da una parte e qualche manganellata dall’altra. Subito dopo, risultando praticamente impossibile scavalcare il blocco, la testa del corteo ha cambiato direzione cominciando a costeggiare il confine della base, segnalato dalla presenza di un’alta recinzione e di filo spinato. Tutto il corteo si è così dispiegato intorno alla recinzione, per tutta la lunghezza che gli era possibile coprire. In due punti sono state tagliate le reti della recinzione e sono stati aperti dei varchi attraverso cui i manifestanti si sono riversati, in quasi un migliaio, sul suolo regalato dalle istituzioni italiane al dipartimento della difesa statunitense.

    La ragion d’essere di questo articolo è che secondo alcuni il taglio delle reti e la violazione del suolo militare sono state scelte strategicamente inefficaci che non hanno fatto altro che danneggiare il movimento: per costoro, la giornata di ieri è stata una disfatta.

    Ecco invece un punto di vista differente: la giornata di ieri è stata di straordinaria “disobbedienza civile” di massa, in cui una porzione considerevole del corteo non ha indietreggiato di fronte alla simbolica inviolabilità dei confini imposti dal potere, ha violato la legge che rende quel suolo «sito di interesse strategico nazionale» e ha concretizzato l’idea, che da sempre lo caratterizza, che quella «è casa nostra».

    «Ma cosa si è ottenuto?» potrebbero chiedere in molti, capitanati da chi condanna tutta la giornata basando il proprio giudizio sulla sua millesima parte, ovvero i due minuti in cui si è verificato il contatto fisico diretto tra la testa del corteo e alcuni uomini delle forze dell’ordine. Si è ottenuta innanzitutto la realizzazione di una primaria rivendicazione, perché se un movimento non fa altro che dire «questa è casa nostra» non può ritirarsi di fronte alla possibilità di calpestare il suolo che dichiara essere casa sua: si è così dimostrato che il suolo si può riprendere, lì come altrove, e che come ci si è appropriati di quel suolo ci si può riappropriare di altro. In altre parole, l’ingresso in massa nella base militare costituisce una lezione, educa alla riappropriazione e mostra che le parole d’ordine possono non rimanere semplici parole e farsi invece carne.

    Il taglio delle reti ha anche un significato politico simbolico e con risvolti psicologici. La recinzione non è infatti che la delimitazione di un luogo secondo l’arbitrio del potere, non si tratta soltanto di un luogo fisico: il limite imposto è spaziale, in quanto definisce l’esistenza di un’area inaccessibile e sotto costante controllo, ma anche astratto, in quanto sancisce la separazione giuridica di due aree sottoposte ad un controllo differente, in cui vigono regole differenti (la base militare è stata dichiarata da una legge «sito di interesse strategico nazionale»).

    invasione 2«Quello che è stato fatto» dicono alcuni «ha allontanato dal movimento una grande quantità di siciliani: ci si deve adeguare alla loro mentalità, non cercare di cambiarla». La giornata di venerdì non ha mostrato incompatibilità tra la “mentalità dei siciliani” (quale sarebbe? di che generalizzazioni andiamo parlando?) e la pratica di riappropriazione, perché in tanti sono entrati nella base: il fatto che altrettante persone abbiano scelto di non entrare fisicamente nella base è comprensibile, perché si tratta di un atto illegale, ma nessuno ha mai preteso che le pratiche di “disobbedienza civile” fossero immediatamente operate da tutti, anche perché la violazione volontaria di una legge è sempre, prima di tutto, una questione di coscienza individuale (moltissime delle persone che non sono entrate non erano in disaccordo con la pratica in sé: semplicemente non si sentivano di correre quel rischio, non per questioni etiche). Si può star certi che un tribunale non avrebbe difficoltà a condannare chi stava fuori con quello spirito, con l’accusa di “compartecipazione psichica”.

    Sulla mentalità cui ci si dovrebbe adeguare, tra l’altro, c’è da aggiungere una cosa: la necessità di adattarsi alla mentalità di un luogo è parzialmente reale. Tuttavia, abbattere lo stato di cose presente significa modificare la realtà. E la realtà si modifica costruendo una mentalità alternativa (qualcuno una volta parlava di egemonia culturale), decostruendo e abbattendo i miti: la mentalità si costruisce perché matura, misurandosi con il reale. Abbattere il mito dell’inviolabilità del potere o della sacralità della legge significa rendere consci tutti del fatto che quel mito non è che un mito, una convenzione culturalmente imposta, un prodotto sociale. Il taglio e la violazione assumono così la potenzialità di incidere sull’immaginario collettivo e sulla percezione sociale degli avvenimenti.

    Sarebbe ora di rivolgere, a chi chiede cosa si è ottenuto, la stessa identica domanda. Preferivate un comizio? E cosa risolve sul piano del reale? Controbatteranno loro: «e invece tagliare le reti?» Non ostacola il MUOS, è un gesto simbolico, come simbolico è il gesto del comizio. Tra due forme di azione simbolica, il movimento ha legittimamente scelto di usare la prima.

    C’è chi definisce le azioni di venerdì come «guerriglia» (ma lo sanno cosa significa questa parola?), come se fosse stato ucciso qualcuno, e sostiene che quella giornata «violenta» abbia danneggiato l’immagine del movimento No MUOS. Piuttosto, a me sembra si danneggi il movimento No MUOS molto più giudicando una giornata ingigantendo due minuti di spintoni e dimenticando tutto il resto. Questo significa danneggiare l’immagine: scrivere titoloni su un finanziere che nella calca riceve un colpo alla gamba, condannare il taglio di un oggetto inanimato bollandolo come «atto violento», deprecare l’invasione simbolica di una base definendola «guerriglia», dire che chi giustifica quelle azioni è complice di guerriglia e di violenza.
    Se volete stupidamente chiamare «guerriglia» quello che è successo a Niscemi il 9 agosto, allora ritenetemi pure complice della vostra fantomatica guerriglia.

  • Il razzismo è strutturale

    Il razzismo non è figlio dell’ignoranza. Finalmente qualcuno lo fa presente (qui), interrompendo il flusso di frasi fatte, condanne unanimi e luoghi comuni che ha invaso il dibattito pubblico in seguito all’uscita razzista di Calderoli sul ministro Kyenge, paragonandola ad un orango.

    Come ben dice Iside Gjergji, il razzismo non è figlio dell’ignoranza, perché altrimenti sarebbe un problema risolvibile con la scolarizzazione; non è causato dalla scarsa informazione su tradizioni, culture e religioni delle popolazioni immigrate, perché altrimenti basterebbe seguire un corso di formazione, guardare un documentario, leggere una rivista sull’argomento; non è un prodotto della paura xenofoba, che piuttosto ne è una conseguenza. Aggiungo che non è neanche un problema intimamente legato all’esistenza di confini che «esisterà finché questi esisteranno», come mi è capitato di sentire affermare, perché molti gruppi etnici soggetti a discriminazione i confini non li hanno mai attraversati.

    «Il razzismo nasce dall’ignoranza» è il commento più quotato, e non è che una versione modificata di «il fascismo nasce dall’ignoranza», con cui in passato mi sono imbattuto (per esempio qui nei commenti): a entrambe queste affermazioni è sottesa la convinzione che la conoscenza sia di per sé capace di influire sul reale e di incidere sui rapporti di forza esistenti nella società, ma tale convinzione non considera la natura dei processi che producono i fenomeni sociali, riducendola ad una dimensione individuale per la quale il razzismo smetterebbe di esistere se tutti andassero in vacanza dall’altra parte del mondo. In altre parole, è completamente assente una visione organica del fenomeno, sostituita invece da presupposti individualistici e atomizzanti. Ciò si riflette sulla capacità di definire il concetto di razzismo in relazione al contesto storico, in quanto le due visioni sono dotate di differente “potenza di analisi”: evidentemente, per l’individualista la tratta atlantica degli schiavi e le leggi razziali sono esistite perché gli schiavisti e i nazifascisti erano «ignoranti».

    Veicolare l’idea che il razzismo sia fondamentalmente un problema di coscienza individuale contribuisce, direttamente o indirettamente, all’affermazione di una linea di pensiero ormai diffusa, che è stata normalizzata e naturalizzata (percepita come accettabile nel dibattito pubblico e naturale nell’immaginario collettivo), per cui il problema del razzismo è una questione, puramente formale, di etica e di decoro borghese: è sufficiente dichiararsi contro e deprecare queste entità astratte che sono i razzisti, basta che nessuno si definisca razzista apertamente (pur continuando ad agire secondo le proprie posizioni) ed ecco eliminato il problema. In questo modo, si legittima il classico incipit «non sono razzista, però» che non lascia presagire mai nulla di buono, ma anche si legittimano le contraddizioni, per esempio, di un Partito Democratico che si indigna per l’insulto di Calderoli ma promuove il razzismo in altre forme (vedi).

    Lo sdoganamento del razzismo ha permesso la normalizzazione di questo tipo di atteggiamenti e posizioni a tal punto che troppe persone non riescono più a distinguere le argomentazioni razziste all’interno di un discorso né addirittura si rendono conto di adottarle e farle proprie, offendendosi e indignandosi se ciò viene fatto notare. Tale sdoganamento ha una serie di responsabili, dalle testate giornalistiche e i mezzi d’informazione televisivi con il loro linguaggio sempre attento a sottolineare l’etnia di una persona anche quando del tutto irrilevante, alle pulsioni legalitarie per cui «le regole vanno rispettate», passando per la condanna degli antirazzisti bollati come “razzisti al contrario”: alle accuse di xenofobia si sono sostituite quelle di xenofilia, mostrando un cambiamento nella percezione di cosa sia socialmente accettabile e cosa non lo sia.

    Tutto questo mostra che nelle questioni dell’immigrazione e delle minoranze etniche si siano imposte, in una situazione di egemonia culturale, la retorica nazionalista e la narrazione identitaria care all’estrema destra, che ha puntualmente sfruttato politicamente il fenomeno, alimentandolo per costruire le basi della propria affermazione: come descritto da Guido Caldiron (intervistato qui), «una delle caratteristiche della “nuova estrema destra” è l’aver saputo imporre nel dibattito pubblico varie proposte radicali senza ricorrere ad argomenti apertamente razzisti o nostalgici del passato». Il risultato è che le destre populiste xenofobe stanno trovando margini di azione politica in tutta Europa.

    Torniamo ora alla questione iniziale. Se il razzismo non è più narrato ricorrendo apertamente al concetto di “razza”, ormai scientificamente smontato e politicamente obsoleto, occorre ridefinirlo per poterlo comprendere. Banalmente (ma forse no), è innanzitutto discriminazione: trattare le persone in maniera diversa in virtù della loro identità, classificare le persone in base al loro essere. Questa definizione permette di riconoscere il razzismo anche in affermazioni che non si richiamano al concetto di razza, come «lo stato italiano deve pensare prima agli italiani».
    L’obiettivo di questo articolo non è tracciare una genesi e risalire alle origini storiche del fenomeno: certamente l’odio per lo straniero, le proclamazioni di superiorità, la discriminzione basata sulla diversità razziale, etnica o culturale non sono recenti e nel corso della storia hanno assunto diversi significati e sono stati declinati in varia maniera, essendo di volta in volta espressioni del contesto storico funzionali ai sistemi sociali ed economici entro cui si sviluppavano.

    Qual è il significato del razzismo nel contesto attuale?
    Prima di tutto è parte di una tendenza più ampia, che consiste nella discriminazione su base identitaria. La discriminazione implica il riconoscimento di disuguaglianze che fungono da elementi intorno a cui si articola la sua legittimazione. Il razzismo dunque richiede, per poter esistere e diffondersi, che le persone siano educate alla disuguaglianza, considerandola naturale, e che siano disposte a discriminare, ovvero ad attribuire diritti diversi a persone diverse, a conferma della stessa disugualianza.
    A ben vedere, questo è esattamente una breve descrizione di ciò che accade nel sistema economico capitalistico, in cui esiste una disuguaglianza economica, ritenuta naturale, che si traduce in una disuguaglianza di diritti per cui chi produce è escluso dalle scelte connesse alla produzione, e tale esclusione è ritenuta anch’essa naturale.
    Allora non è una tendenza, ma una componente strutturale del sistema economico, che è intrinsecamente gerarchico, autoritario ed escludente. E in un sistema escludente l’esclusione appare normale, è un boccone facile da digerire: se il modo di produzione esclude quotidianamente e sistematicamente, ci si abitua all’idea, e allora perché non escludere su base razziale? Perché non su base di genere? Perché non su base religiosa?

    A questo “dispositivo psicologico” della discriminazione si aggiunga il vantaggio economico del razzismo: esso è funzionale al sistema di sfruttamento. Permette di formare e mantenere un sottoinsieme della classe lavoratrice in condizioni di ricattabilità e a bassissimo costo, con la comodità che tale suddivisione interna agli sfruttati può essere perpetuata senza l’uso di forza militare, ma semplicemente costruendo una narrazione razzista che assecondi una preesistente assuefazione alla marginalizzazione.
    «Le razze non esistono, ma l’organizzazione del lavoro finisce per riprodurle e per imporre gerarchie lungo la linea del colore» (da qui). In altre parole, la questione di razza facilmente si tramuta in questione di classe: le politiche italiane sull’immigrazione mostrano un chiaro esempio di questa possibilità, favorendo indirettamente lo sfruttamento dei migranti in agricoltura (qui il rapporto di Amnesty).

    Secondo questa stessa direzione, la discriminazione di razza spesso si rivela una forma di discriminazione di classe, che più che essere basata su caratteri etnici o razziali, trova in queste una legittimazione di facciata, mentre i criteri profondi di pregiudizio sono di carattere sociale (per esempio nel sempreverde «rubano»). In una società intrinsecamente gerarchica e discriminatoria, è prevedibile che chiunque discrimini chi nella gerarchia sta più in basso, e puntualmente ciò accade, ad esempio quando i poveri discriminano i poverissimi perché «loro sono sempre i primi della lista per l’assegnazione delle case popolari».

    In definitiva, il razzismo implica la discriminazione, che implica la disuguaglianza.
    Il razzismo e il capitalismo si rafforzano e si compenetrano, si nutrono l’uno dell’altro: il primo è funzionale al secondo, il secondo legittima il primo.
    Condannare il razzismo ma non il sistema di sfruttamento è un po’ come condannare le violenze poliziesche della Diaz ma non l’intero apparato militare che, dispiegato durante quel G8, le ha generate.

  • Non esiste un tempo che non sia reo

    L’epoca in cui viviamo è un’epoca violenta: violento è il sistema economico, intrinsecamente autoritario, basato sulla gerarchia e sulla disciplina piuttosto che sulla partecipazione e sulla condivisione; violenta è l’esistenza precaria di milioni di persone, determinata dall’esigenza di una fonte inesauribile di schiavi ricattabili; violento è il destino di chi non possiede mezzi per vivere se non la possibilità di vendere la propria forza-lavoro; violenta è la negazione dei diritti a chi rifiuta di vivere seguendo questa regola; violenta è la costrizione cui sono soggetti esseri umani considerati da punire anziché da ascoltare; violento è il linguaggio che esecra le alternative, condanna la diversità, rafforza l’ordine costituito, accentua le discriminazioni e perpetua le disuguaglianze; violenti sono i luoghi comuni; violenta è la rimozione del processo di produzione dall’immaginario collettivo; violenta è la mercificazione di ogni cosa; violenta è l’imposizione culturale, la propagazione di stereotipi, la normazione dei comportamenti, la morbosità del decoro borghese.

    Violenta dunque è quest’epoca in cui viviamo, ma il “reo tempo” non è questo tempo: la Storia è una storia di oppressioni, prodotte dall’esistenza nelle organizzazioni sociali di interessi contrapposti e inconciliabili.
    Videro la storia all’opera gli schiavi che costruirono le grandi piramidi per i loro oppressori di millantata discendenza divina; la saggiarono i compagni di Spartaco nel risalire la penisola italica partendo dalla Sicilia per sfidare i loro padroni; l’attraversarono i contadini che si rivoltarono contro i signori che li affamavano; la sentirono sulla propria pelle i popoli invasi e conquistati; la misero alla prova i giacobini e i bolscevichi; la conobbero gli operai durante il processo di industrializzazione; l’assaggiarono i popoli sotto i regimi del Novecento; la sfidò la Resistenza europea; ne sperimentarono una manifestazione gli studenti e i lavoratori immateriali; la subirono le vittime della repressione, in tutte le epoche dall’inizio della storia e della società divisa in classi.

    Un faraone, un aristocratico romano, un re, un cardinale, un borghese ottocentesco, un dittatore militare, un banchiere affabile: sono i volti del potere che opprime.
    Non esiste tempo che non sia reo.
    upper class

  • L’austerità è incompatibile con la democrazia, non col fascismo

    L’incompatibilità tra austerità e democrazia è un concetto negli ultimi anni sostenuto a più riprese dai movimenti sociali: migliaia di manifestazioni, presidi, cortei hanno attraversato i continenti per dire «our democracy against their austerity» rivelando la contrapposizione tra le due, per ricordare ai presunti paladini dello Stato di diritto espressione della sovranità popolare che «o povo é quem mais ordena».

    La modalità di introduzione delle norme che hanno ridefinito il mercato del lavoro per renderlo più “flessibile”, eroso diritti conquistati in decenni o secoli di lotte, aumentato le disuguaglianze sociali, costretto milioni di persone alla precarietà e alla povertà, da alcuni sono state definite “tecnofascismo”. I provvedimenti di privatizzazione dei servizi, smantellamento dello stato sociale, ristrutturazione del debito a suon di tagli, ovvero le famose riforme, in passato imposti ai paesi dell’altra metà del mondo con il nome di “piani di aggiustamento strutturale”, sono stati imposti nei paesi europei scavalcando i parlamenti nazionali, esautorati nelle questioni economiche di primaria importanza dagli organismi finanziari internazionali. Istituzioni non soggette a controllo democratico hanno pesantemente condizionato istituzioni rappresentative: è la “dittatura dei mercati”.

    Dal canto loro, i rappresentanti del potere hanno sempre fatto il possibile perché questa narrazione degli eventi prendesse piede e hanno reagito di volta in volta misurandosi sapientemente con la situazione: provando inizialmente a smorzare i toni per tenere a bada l’opinione pubblica, cercando di ricondurre le soggettività potenzialmente sovversive e le loro simpatie alla “ragionevolezza”, ovvero al riconoscimento dell’inevitabile supremazia del mercato con conseguente genuflessione alla sua volontà trascendente (Papademos quando diceva: «sacrifici o baratro»); quando ciò non era possibile, hanno optato per la via della compiacenza, mostrandosi premurosi e comprensivi, chiarendo che le rivendicazioni dei movimenti erano giuste e le proteste sacrosante, ma questioni tecniche imponevano di rimandare la loro realizzazione (Draghi quando diceva: «li capisco, noi alla loro età non abbiamo dovuto aspettare»); quando il riconoscimento da parte delle masse dell’esistenza, nella società, di interessi contrapposti e inconciliabili si è fatto un rischio elevato a tal punto da far scricchiolare le fondamenta della retorica dei sacrifici, la risposta è divenuta repressiva.

    I momenti di mobilitazione sono stati spesso teatro di pratiche conflittuali che hanno incontrato la repressione del dissenso in nome dell’ordine. Ecco perché i movimenti sociali, nell’interfacciarsi con queste imposizioni, vi riconoscono il fascismo: si tratta di scelte prese da una ristretta minoranza e imposte con la violenza a garanzia dell’ordine sociale ovvero delle disparità.

    È per questo che, durante la campagna elettorale greca dello scorso anno, il tanto sgolarsi dei vertici europei per invitare a non votare Syriza fu motivo di indignazione ma non di sorpresa; lo stesso può dirsi del mancato invito a non votare il partito neonazista greco Alba Dorata: l’austerità è incompatibile con la democrazia, non con il fascismo.

    Quello che non era ancora successo era l’ammissione esplicita dell’incompatibilità tra austerità e antifascismo, avvenuta meno di un mese fa e passata quasi inosservata dai mezzi di informazione. Il 28 maggio, la società finanziaria JPMorgan Chase&Co, con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali, ha pubblicato un documento di analisi (qui visualizzabile per intero) sull’attuale situazione nella zona Euro, contenente considerazioni sulla funzione a lungo termine dell’austerità, sul suo stato di avanzamento, sugli ostacoli che ne impediscono la piena attuazione.

    «La gestione della crisi nella zona euro si è evoluta nel corso degli ultimi tre anni, ma una questione di fondo è sempre stata presente, costantemente: che i problemi esistenti a livello nazionale dovrebbero essere affrontati a livello nazionale prima che la regione intraprenda ulteriori passi di integrazione» recita il documento già nell’introduzione.

    «All’inizio della crisi si pensò che i problemi nazionali preesistenti fossero soprattutto di natura economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea»

    «I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo»

    «I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. Le carenze di tale eredità politica sono state rivelate dall’incedere della crisi: i paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, con esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)»

    Praticamente, in questo documento per la prima volta dei banchieri ammettono apertamente che ordinamenti costituzionali basati sui valori dell’antifascismo non sono compatibili con i dettami di quella che ritengono la “scienza economica”, che non è altro che l’economia neoliberista.
    In questo modo, il tecnofascismo di oggi giunge alle stesse conclusioni del fascismo di ieri, con la differenza che mentre i fascismi novecenteschi giustificarono la propria azione articolandola sul piano politico, l’austerità viene imposta perché considerata l’unica alternativa sul piano economico. Gli effetti non sono dissimili: è necessario un governo forte che scavalchi facilmente i parlamenti, bisogna abolire le tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, non deve essere permesso manifestare il proprio dissenso contro proposte sgradite. Si deve insomma ammorbidire gli eccessi di democrazia, che sono eccessi nella misura in cui minacciano un sistema economico fondamentalmente autoritario, basato sulla gerarchia anziché sulla partecipazione e sulla condivisione: in questo senso, i fascismi del secolo scorso ebbero la funzione storica di frenare gli stessi eccessi.

    Una volta lo facevano per difendere «la nazione», oggi lo fanno per difendere «la crescita». Entrambi sono vuoti feticci.

     

    Uno dei pochi articoli sull’argomento: JP Morgan all’Eurozona: “Sbarazzatevi delle costituzioni antifasciste”

  • Reo tempo

    Scrivere scritti lucidi richiede lucidità.
    Questo spazio ha sempre cercato di essere un angolo di lucidità.
    Contro la tendenza dominante, fatta di parole vuote o non comprese.
    Quelle parole nascondono in verità un tremendo silenzio. Frastornante.
    Il non sapere è alla base di questa epoca del vuoto: si manifesta in molteplici forme.
    Dall’ignoranza all’insensatezza, dall’indecisione alla precarietà. Sono tutte forme di non sapere.
    È un vuoto che avvolge tutto, avvolge le singole persone.
    Non viviamo predisposti alla speranza, che lascia tempo per pensare ed agire, ma siamo immersi in una continua attesa del futuro prossimo, che non lascia tempo a nessuno.
    Ho la sensazione che ci stiano fregando.
    Vorrei interrompere solo per un momento il vuoto che circonda gli individui.
    Un vuoto la cui ombra precariamente incombe su ogni cosa, oscurando la luce delle nostre speranze future.
    Ma sappiate, voi che leggete: per un po’ di tempo poca sarà la lucidità.
    Magari, quando i suoi livelli rientreranno, avremo il piacere di tornare a costruirla insieme.
    Nel frattempo, niente sarà qui più scritto, per scongiurare il rischio di cambiare il genere di spazio. Il quale non intende perdere la sua anima lucida. Del resto, «la massima creatività possibile viaggia entro regole più rigide possibili: tu non devi vivere in una situazione che ti aiuta a tirare fuori tutto il possibile quello che hai dentro, ma in una situazione che ti obbliga a tirare fuori solo quello che assolutamente deve venir fuori».
    Intanto il compito lo lascio a voi.
    Riempire il silenzio di questo frastuono.
    E intanto, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

    [youtube http://www.youtube.com/watch?v=kLeQ8hRYTkk]

  • La decrescita che non va al nocciolo

    Qualche tempo fa, sono andato ad un incontro con Maurizio Pallante, organizzato dal Teatro Rossi Aperto. Per chi non lo conoscesse, Pallante è il fondatore del Movimento per la decrescita felice (Mdf), associazione italiana che si ispira alle teorie di Serge Latouche, l’ormai noto filosofo francese ideologo della decrescita.

    L’incontro è stato una buona occasione per attingere informazioni di prima mano sulla decrescita, senza distorsioni giornalistiche e preconcetti, nonché per intavolare una discussione su alcuni suoi punti controversi. Questa possibilità ha tuttavia messo in luce limiti non trascurabili della struttura, sia teorica che pratica, che si è dato in particolare il “ramo italiano” della decrescita, ovvero il movimento di Pallante.

    Egli ha inizialmente esposto i principi della “decrescita felice” inquadrandoli nella sua personale visione, è passato poi a descrivere le possibili soluzioni ai problemi di natura sociale ed ambientale che pone l’attuale paradigma economico. Il discorso è diviso quindi in due parti: una di analisi, l’altra di prassi. Riporto di seguito due questioni, una per ciascuna parte.

    Il ragionamento alla base della decrescita, riassunto all’osso, è il seguente: il fine ultimo del regime economico in cui viviamo è la crescita, ma questa è impossibile da mantenere illimitatamente a causa della limitatezza del pianeta; di conseguenza, è necessario raggiungere un regime di sostenibilità riducendo il consumo di materia ed energia; questo non deve significare, come erroneamente viene detto pensino i sostenitori della decrescita, una società di deprivazione e miseria, una condizione di recessione permanente, perché la riduzione deve interessare quella produzione e quei consumi che non aumentano il benessere ma che sono tenuti in vita dal sistema economico esclusivamente in quanto permettono la crescita, che si configura così come dannosa. La decrescita consiste nella rinuncia volontaria e ragionata alla crescita, non si tratta di subire proprio malgrado un decremento del PIL («è una dieta, non un deperimento»).

    Nell’illustrare le modalità di tale riduzione, Pallante fa riferimento a due concetti distinti: quello di “merce” e quello di “bene”. Nella sua interpretazione, una merce è tutto ciò che può essere comprato o venduto, cioè che può diventare oggetto di scambio monetario; diversamente, un bene è tutto ciò che è in grado di soddisfare un bisogno; non tutti i beni sono merci (per esempio, le relazioni sociali) e non tutte le merci sono beni (per esempio, gli sprechi di cibo). Per una “decrescita felice”, Pallante propone di ridurre il consumo delle merci che non sono beni, cioè di quelli che chiama “sprechi oggettivi”: l’esempio più comunemente citato nei suoi discorsi è quello dell’energia sprecata per riscaldare un’abitazione, che potrebbe essere risparmiata coibentando le pareti in maniera ottimale.

    Il motivo per cui riporto questa interpretazione è che secondo me fa acqua da tutte le parti.

    Infatti, come ho provato a contestare direttamente a Pallante, la distinzione tra beni e merci è arbitraria (anzi, c’è chi la definisce «una stronzata»): per come definiamo un bene, cioè qualcosa che soddisfa un bisogno, facciamo riferimento a un concetto che non è assoluto, ma plasmato dalla società, dalla cultura, dal momento storico, ovvero il concetto di “bisogno”. Esistono infatti bisogni naturali e bisogni indotti. I primi si limitano all’esigenza di mangiare, bere, intrattenere relazioni sociali, proteggere il proprio corpo. Tutto il resto, tutto, è bisogno indotto dal tipo di società in cui si vive, dall’educazione ricevuta, dalle esperienze passate. Senza specificare il tipo di bisogno cui fare riferimento, è inutile proporre di ridurre la quantità di merci che non sono beni, perché qualunque merce può soddisfare un bisogno. Per esempio, la pubblicità crea bisogni, proprio al fine di aumentare il consumo di merci alimentando così la crescita: posso curarmi di tenere il frigorifero sempre pieno, anche a costo di buttar via gli alimenti in eccesso rispetto alla mia capacità di consumarli, senza concepire questo come uno spreco, perché soddisfa il mio bisogno (indotto) di “non sentirmi un pezzente”.

    Cosa si intende allora con “merci che non sono beni”? È la domanda che ho posto a Pallante, il quale ha risposto: «io non voglio definire quali bisogni siano legittimi e quali meno, altrimenti va a finire che mi dicono che sono totalitario, perché porrei un limite arbitrario e del tutto soggettivo alla possibilità altrui di soddisfare i propri bisogni». Dovrebbe essere evidente a tutti che questo rifiuto fa crollare l’idea di base su cui è costruita tutta la visione del Mdf: se propongo di ridurre le merci che non sono beni ma non chiarisco cosa intendo per merci che non sono beni, sostanzialmente non sto dicendo niente di significativo.

    Ci sono anche altri punti opinabili nella narrazione di Pallante. Egli parla di “sprechi oggettivi”, ma dimentica che tali sprechi non esistono se non perché conviene a qualche soggetto sociale: si tratta quindi, sempre, di “sprechi soggettivi”. Per esempio, non è corretto dire che l’eccedenza di energia usata per riscaldare una casa non coibentata rispetto a quella usata per riscaldare una casa ben coibentata sia uno “spreco oggettivo”: per chi vende quell’energia, lo spreco è un vantaggio immediato, perché si traduce in guadagno. La stessa cosa vale per il cibo avariato eliminato dal frigorifero sempre pieno, nonché per tutte le merci (a prescindere dal loro essere beni o meno): se sono vendute è perché la loro vendita conviene a qualcuno.

    Spreco alimentare. Foto da www.greenme.it

    Questi nodi si collegano direttamente alla questione successiva, cioè l’insieme di pratiche proposte dalla teoria della decrescita e la visione del mondo che sottendono. L’idea che esistano “sprechi oggettivi” e “beni oggettivi” rivela una tendenza generale insita nell’analisi proposta da Pallante: l’incapacità di riconoscere il conflitto. Uno spreco è tale perché la ragione, neutra e oggettiva, lo riconosce come tale. Non esistono interessi contrapposti e inconciliabili all’interno della società, non esistono soggetti sociali che vivono di crescita e altri che ne alla crescita soccombono: esistono individui che, usando la propria ragione, lasciati liberi di scegliere, opteranno per la via che assicuri a lui e quindi alla collettività il massimo beneficio. Questa concezione individualista della società, in cui il singolo è considerato avulso da condizionamenti, capace di scegliere nel proprio interesse, autonomo e libero come un Robinson Crusoe su un’isola deserta, come vedremo si riflette anche nella proposta pratica.

    La seconda domanda che ho posto a Pallante è stata la seguente: «la decrescita si pone anche come risposta al problema ambientale di un mondo in cui si consumano le risorse molto più velocemente di quanto siano rigenerate (si abbattono più alberi di quanti ne ricrescano, si mangiano più pesci di quanti ne nascano, e così via). Questo problema è strettamente correlato alla produzione: se essa ha, come scopo, la crescita, è logicamente impossibile raggiungere uno stato stazionario, in cui si consumino le risorse sempre a ritmi più lenti di quelli richiesti per rigenerarle. Ora, il fine della produzione dipende da chi ne controlla la gestione, cioè, nella nostra economia, i capitalisti. Cosa propone la decrescita per ridefinire i fini della produzione?».

    Ancora una volta, la risposta lascia insoddisfatti: gli strumenti della decrescita per cambiare la società consisterebbero in «una vera e propria rivoluzione culturale» grazie a cui sempre più persone rinunciano ai consumi inutili, cosicché la produzione sia costretta ad adattarsi ai nuovi flussi di merci. Tuttavia questa ipotesi non risponde alla domanda e oltretutto è poco plausibile: pensare di poter convincere «la produzione», cioè i capitalisti, a smettere di perseguire la crescita è come pensare di poter convincere una persona a smettere volontariamente di respirare, perché rinunciare alla crescita sarebbe incompatibile con i principi su cui si basa il capitalismo. In realtà, secondo la logica individualista, questo non è un problema: i capitalisti, illustrata loro la bontà della teoria della decrescita per il benessere collettivo, comprenderebbero autonomamente e liberamente la necessità di abbattere il capitalismo e agirebbero di conseguenza. Purtroppo, c’è un problema non da poco, che Pallante si rifiuta di notare: a loro questo non conviene.

    C’è un’altra mancanza: nel descrivere i rimedi ad alcuni sprechi e le modalità di riduzione dei consumi inutili, Pallante elenca una serie di cose che «si deve fare», ma non dice mai chi deve farle, non c’è mai un soggetto esplicito. I cittadini? I consumatori? I lavoratori? I popoli? In realtà, date le premesse, dovrebbe essere chiaro qual è il soggetto: l’individuo. L’individuo che, preso atto che il dogma della crescita è dannoso per l’umanità e il pianeta, e presa coscienza che esistono alternative che ciascuno può personalmente adottare, agisce di conseguenza, modificando il proprio stile di vita e non certo quello degli altri, perché come ben dice Pallante rivelandosi di matrice libertaria (anzi libertariana), «quella sarebbe un’imposizione». A questo punto la decrescita si configura come un progetto cui aderire su base volontaria, e mi chiedo in cosa differirebbe la società decrescitista auspicata da quella attuale: i singoli possono già scegliere il proprio stile di vita.

    Il nodo centrale è proprio questo: rifiutare di imporre la volontà decrescitista contro gli sprechi in maniera conflittuale significa avallare la legittimazione culturale degli sprechi. Bisogna riconoscere che non esistono sprechi oggettivamente inutili, né c’è razionalità che regga: se non si influisce sui rapporti sociali, ogni progetto di ribaltamento è sterile.
    Sull’isola di Pasqua era evidente a tutti che il legname stesse per finire, ma si continuò a sfruttare quella risorsa in modo non sostenibile perché ciò consentiva alla casta al potere di mantenere l’autorità. Allo stesso modo, è inutile cercare di convincere il sistema a cambiare in virtù di nobili fini ragionevoli: il sistema non può essere convinto, deve essere forzato.

    Come ultima cosa, mi preme precisare che la parola “decrescita” è stata qui usata tutte le volte per riferirsi alla “decrescita felice” del movimento di Pallante, quindi alla componente italiana, non all’originaria teoria della decrescita: il pensiero di Pallante si discosta da quello di Latouche su punti che non possono essere considerati secondari, e che rendono il secondo un pensatore tendenzialmente di sinistra e la visione del primo tendenzialmente di destra. Mi spiace, ma “purtroppo” non riesco ad abbandonare queste “vecchie” categorie. Latouche affronta molte delle questioni cui Pallante non ha risposto o ha risposto in maniera insoddisfacente: egli parla esplicitamente di necessità di «superare la proprietà privata dei mezzi di produzione» e di «ridefinire il fine della produzione attraverso le relazioni sociali» e reputa legittimo che la collettività stabilisca dei limiti ai bisogni degli individui.
    Un punto di contatto è costituito comunque dall’utilizzo di concetti marxisti in maniera da non renderlo evidente, anzi pretendendo di rifiutarne la legittimità: Pallante si spinge addirittura alla citazione quasi letterale di un passaggio del Capitale di Karl Marx attribuendolo al sociologo statunitense Richard Sennett.

    Agli inizi del movimento, prima di optare per il nome di “decrescita”, assemblee di sostenitori discussero la scelta della denominazione da adottare. Tra le opzioni c’era il termine “ecosocialismo”, che fu scartato. Le parole pesano: se fosse stato scelto, probabilmente si sarebbero evitate certe simpatie.

  • Mi paga il PD

    Negli ultimi tempi si è parlato molto di Grillo. A dirla tutta, in pochi hanno parlato: molti hanno urlato, altrettanti ne hanno chiacchierato per cambiare i soliti argomenti come la meteorologia, il calcio e la farfalla di Belen o semplicemente per ingannare il tempo. Pochi rompicoglioni hanno provato a intavolare analisi lucide e ragionate sul personaggio e sul fenomeno, partorendo discorsi più o meno fruttuosi e interessanti. Anche su questo blog se n’è discusso.

    Ma non è questo l’argomento che sta per essere affrontato, anche perché, e qui lo dichiaro apertamente, per un intervallo di tempo di durata indefinita ma lunga la questione non sarà ripresa, almeno non direttamente. I motivi sono molteplici e vanno dalla nausea al rischio di alimentare una troppo facile caduta, a sinistra, dall’antiberlusconismo all’antigrillismo. Prima di inaugurare il temporaneo silenzio stampa, però, la mia coscienza mi impone di sciogliere le mie remore e fare chiarezza su un punto particolare.

    Nel corso delle mie lunghe vicissitudini, infatti, un interrogativo mi si presentava con insistenza, ogniqualvolta il mio interlocutore fosse uno di quei cittadini  cui ormai comunemente si è soliti riferirsi con l’appellativo di “grillini”. La domanda, il più delle volte retorica, era riconducibile alla seguente: «ma ti paga il PD?». Ebbene, amici e amiche, lettrici e lettori, so di essere in procinto di deludere molti di voi, ma non posso più convivere col mio segreto, non posso più tenervi all’oscuro della verità che è arrivato il momento di rivelarvi una volta per tutte: sì, mi paga proprio il PD.

    Mi ha pagato il tesoriere in persona, Antonio Misiani, accreditandomi di volta in volta una certa somma (un esempio di finanziamento dai partiti ai semplici cittadini come me, quindi qualcosa che dovrebbe ergersi a esempio per tutti i grillini).

    Il pezzo sul marchio, per esempio, mi è valso 64,34 € più un bonus di 11,98 € per non aver ricordato ai lettori quanto il PD faccia pena come progetto politico; gli interventi su Giap mi hanno fruttato la bellezza di 172,50 € per la visibilità ottenuta; i commenti su Facebook di meno, perché non visibili a tutti; tutte le argomentazioni da me espresse sono valse un gettone aggiuntivo di 25,00 € se contenenti almeno un riferimento al fascismo. Per non parlare  di quelle volte in cui l’evidenza a favore delle mie specifiche ragioni lasciava interdetto il grillino di turno tanto da togliergli la parola o fargli preferire la fuga dal dibattito, seppur esposto per questo al pubblico ludibrio: quelle volte mi sono fatto 35,00 € a botta, spesso senza neanche troppa fatica. L’analisi O noi o i nazisti è costata alle casse del PD la cifra di 399,99 € in tutto, di cui 129,99€ soltanto per il finale della terza parte, in cui si fa notare la mancanza di reale democrazia interna e si osa addirittura fare analogie con il fascismo.

    Sono somme piuttosto esigue, irrisorie se volete, roba da poco, lo so. E io sono un pezzente, penserete voi. Sticazzi. È roba da poco ma comunque più di quanto basta per arredarsi una stanza con mobili Ikea nuovi, lasciando forse qualcosa di resto per l’ultimo album di Guccini, e l’idea di una stanza nuova mi solleticava da un po’, così come mi piaceva il Maestro.

    Insomma, volevo dirvi questa cosa e ve l’ho detta. Com’è risaputo, la rete è piena di pennivendoli e rompicoglioni al soldo del PD, che vanno in giro a disseminare fastidiosi dubbi: io sono uno di questi. Pardon, sono stato, visto che quando si saprà che ho svelato il complotto difficilmente il tesoriere mi riaffiderà un incarico. Scusami Antonio, ci eravamo tanto amati.

    (A proposito di complotti, se il M5S paga bene, sarei interessato a disseminare in giro anche quelli.)

     

    P.S. Potreste starvi chiedendo quanto mi è stato corrisposto per la pubblicazione della recensione di Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu, che ha avuto un inaspettato successo, ma la risposta è che non mi è stato corrisposto nulla. E poi quel pezzo non è su Grillo, quante volte ve lo devo dire.

  • Emilio non era convinto

    Emilio fu uno dei pochi seriamente preoccupati fin dal principio.

    «Basta con le parole» dicevano. «Bisogna passare ai fatti. Viva la rivoluzione!»
    «Quale rivoluzione?» chiedeva lui.
    «La rivoluzione: dateci una rivoluzione e noi vi seguiremo».

    Ma su che presupposti di base? Perseguendo quali principî, quali ideali, quale idea di società da costruire? Questo interrogativo Emilio si poneva in quei primi anni, ma alla domanda non c’era risposta, come si evinceva da dichiarazioni come quella fatta dal capo ispiratore di questa decantata rivoluzione: «Tutte le altre associazioni, tutti gli altri partiti, ragionano in base a dei dogmi, in base a dei preconcetti assoluti, a degli ideali infallibili, ragionano sotto la specie della eternità per partito preso. Noi, essendo un antipartito, non abbiamo partito preso».
    Qualche anno più tardi lo stesso ribadirà: «Il programma non è una teoria di dogmi sui quali non è più tollerata discussione alcuna. Il nostro programma è in elaborazione e trasformazione continua; è sottoposto ad un travaglio di revisione incessante, unico mezzo per farne una cosa viva, non un rudere morto».
    Tali esternazioni chiarivano fin da subito che la grandezza di quella particolare rivoluzione, secondo i suoi sostenitori, consisteva proprio nell’assenza di ideologie, considerate astratte e inadatte a produrre una qualunque risposta adeguata alla situazione esistente e da contrapporsi all’azione, la quale invece è in grado di risolvere concretamente i problemi reali, attraverso la dedizione, l’impegno, l’entusiasmo che prende l’animo e permette all’essere umano di imbarcarsi in grandi eventi, in imprese di importanza storica: il primo programma si definiva solennemente «rivoluzionario perché antidogmatico».

    Emilio non era convinto. Questi pretendevano il raggiungimento di un insieme di obiettivi senza collocarli in una visione coerente: in virtù della sfoggiata mancanza di dogmi a influenzarne l’azione politica, perseguivano tutto ma anche il suo contrario. O almeno, questo davano a intendere.

    L’incredulità di Emilio cresceva col tempo di fronte alle disarmanti giustificazioni di suoi amici ed compagni di partito che, uno dopo l’altro, passavano a sostenere questa nuova forza, più o meno apertamente. Chi perché tutti vi potevano trovar casa, purché disprezzassero la politica tradizionale e adorassero il nuovo («Voi siete democratici? E io non sono forse democratico? Voi siete autonomisti e repubblicani? Ebbene continuate ad esserlo, nessuno ve lo impedisce. Noi siamo un mosaico in cui la diversità dei colori e il multiforme aspetto dei dettagli danno maggiore splendore all’insieme»); chi perché così doveva andare, per forza di cose, perché «di questo passo non si può andare innanzi», perché «i tempi sono difficili».
    Non diversamente accadeva dentro le istituzioni, nelle grandi città, nelle campagne, in tutto il paese: chi in tempo di guerra era sembrato non avere alcuna voglia di morire, ora si dichiarava pronto alla morte; chi diceva «se quelli trionfano, la civiltà del nostro paese rincula di venti secoli», pochi giorni dopo prendeva incarichi con orgoglio da quelli che intanto avevano trionfato; chi era un sincero radicale oppositore, adesso si convertiva alla causa, motivandola con abbondanti ragioni ideali.

    Emilio Lussu scrisse Marcia su Roma e dintorni nel 1931, dopo il confino a Lipari per la sua opposizione al fascismo. Attraverso la sua narrazione, con cui intendeva «fissare gli avvenimenti politici del mio paese, così personalmente li ho vissuti in questi ultimi anni», egli si proponeva di raccontare i meccanismi alla base della nascita del fascismo, soprattutto per scongiurare il rischio che simili fenomeni si riproducessero altrove.
    La scelta di rivolgersi a lettori stranieri è significativa: nella prefazione, Lussu dedica il libro esplicitamente a un pubblico di non italiani e le prime edizioni non furono in lingua italiana: tutte erano precedute da una ragionata premessa da cui si evinceva lo scopo originario del libro, cioè illustrare la genesi del fascismo. Infatti, con quale illusione, e addirittura con quale utilità, raccontare il fascismo agli italiani? Questi già conoscevano bene, in cuor loro, i motivi che li avevano spinti in massa a rifugiarsi sotto le ali del fascio littorio, da sinistra e da destra. Gli abitanti di altri paesi invece no, perciò aveva senso stilare un’opera con funzione di prevenzione, di difesa immunologica, di sviluppo degli anticorpi culturali e degli strumenti necessari a sventare l’affermazione di fascismi simili.
    Oggi più che mai, Marcia su Roma e dintorni deve essere letto dagli italiani: dopo decenni di rimozioni, mistificazioni, falsificazioni, revisioni, abbiamo dimenticato, come popolo, di averlo vissuto in prima persona, il racconto di Emilio Lussu. Noi, oggi, siamo come coloro ai quali era dedicato il libro: siamo come degli stranieri, siamo estranei alla nostra storia e straniati dal presente che è ancora storia. Oggi, questo libro è dedicato a noi.

     

    Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l’autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, dovrebbe essere guardata e guidata con qualche precauzione.
    Piero Gobetti, Elogio della ghigliottina

  • VOTA DADA

    «Dada non significa nulla»
    Tristan Tzara, Manifesto Dada

    Alla fine della settimana corrente, gli italiani saranno chiamati, nella maniera più colorata, gioiosa, pacifica e civile possibile, a festeggiare il compleanno di mio fratello. Nell’attesa, molti amici, ritenendomi chissà quale esperto di compleanni, chiedono indicazioni di voto.

    A me non è mai piaciuto dare questo tipo di suggerimenti per poi dichiararmi sistematicamente deluso e gridare al tradimento dello spirito originario, ed è per questo che rispondo a tutti di essere ben disposto a dar piuttosto indicazioni di non voto: non nel senso di promuovere attivamente l’astensione, ma in quello di fornire elementi per costruire una visione critica, attività più comunemente nota come “rompere i coglioni” oppure, con una variante cara soprattutto agli elettori di centro-sinistra, “fare polemica”.

    Non è mia intenzione intavolare di seguito la solita «sterile polemica» sul fatto che il Movimento Cinque Stelle ricalchi le stesse pulsioni psicologiche e antropologiche sottese al primo fascismo degli anni Venti, che Rivoluzione Civile non sia affatto un partito rivoluzionario bensì uno schieramento socialdemocratico, seppur l’unico probabilmente presente nel prossimo Parlamento, che il Partito Democratico sia un partito di destra liberale moderata, che Giannino esattamente come il PD non possa essere considerato opzione votabile da una persona di sinistra (e sono ancora turbato dalla scoperta che queste persone effettivamente esistono). Propongo di dare per scontati tutti i contenuti di queste fastidiosissime polemiche.

    Invece, ci si potrebbe chiedere se i principali problemi che ci troviamo a fronteggiare, e che condannano la nostra società alla genuflessione innanzi agli eterei, universali, assoluti, divini e impalpabili valori del mercato e della concorrenza, siano in qualche modo risolvibili dall’interno del Parlamento, o perlomeno dall’interno del prossimo, quello votato tra fiumi di spumante stappato in occasione del natale di mio fratello. A ben vedere, la risposta è “no”, giacché qualunque voto, direttamente o indirettamente, sarà un voto per il sobrio professore, per il tecnico disinteressato, per il servitore dello Stato (leggi qui per saperne di più).

    Come fare dunque? Essendo io, come dicevo prima, poco esperto in compleanni, mi rivolgo a un amico che sembra sapere il fatto suo:

    «Non rimane», risponde dopo aver scolato il suo boccale di birra scura «che seguire le regole dell’attuale democrazia e, in mancanza di un partito che mi rappresenti fra i due schieramenti che possono davvero decidere qualcosa, votare. Ma non un partito qualsiasi, quello è qualunquismo ed è pericoloso: bisogna avere dei criteri ben definiti, ed io condivido ora i miei, che possono essere riassunti in ciò che chiamo voto DADA.

    «Il punto principale è quello estetico: devi trarre soddisfazione dall’avere tracciato una “X” su quel simbolo e non su di un altro. Secondariamente, va considerato l’impatto del voto: idealmente il partito che stai votando non deve poter usufruire del tuo voto esattamente come i big che non hai votato, vale a dire che più è lontano dalla soglia di sbarramento meglio è. Meno importante ma non banale è il fattore random: non fissarti su di un solo partito, selezionane due o tre (fino a sei per gli estimatori del dado) e lascia che sia il caso a decidere».

    Insomma, vota dada. Tanto, questa volta, davvero ogni voto è inutile.

    Dada non significa nulla. Il voto è dada. Il voto non significa nulla.

  • Disinformazione civile

    Ieri è comparso, sul sito di Rivoluzione Civile, un articolo di Valentina Stefutti, candidata alla Camera dei Deputati, che chiarisce la posizione programmatica della sua lista rispetto alla questione della sperimentazione animale. L’analisi che viene proposta è purtroppo infarcita di inesattezze quando non di affermazioni false, che rinnovano il clima di disinformazione e distorsione della realtà molto diffuso sul tema grazie a una cattiva divulgazione e ad una scarsa educazione scientifica. Sono di seguito riportate le parzialità e le inesattezze presenti nell’articolo.

    «La sperimentazione sugli animali è un metodo basato sull’assunto, totalmente sbagliato, che i risultati ottenuti sugli esemplari in laboratorio possano essere utili per gli esseri umani»

    Questa affermazione è falsa: i risultati ottenuti su modelli animali in laboratorio sono di fatto stati utili nella ricerca e nella realizzazione di metodi di cura di una grande quantità di malattie, congenite e non; inoltre nessun ricercatore pretende che la sperimentazione animale sia di per sé sufficiente a dimostrare l’efficacia di una cura e la sua applicabilità su un essere umano, a causa della intrinseca diversità degli esseri viventi e delle loro risposte fisiologiche. I modelli animali costituiscono tuttavia un buon filtro tra le possibili vie da adottare nella ricerca, sia pura sia applicata, in quanto i risultati concernenti i meccanismi di base sono spesso generalizzabili, seppur con eventuali correzioni, a tutto il mondo animale.

    «Utilizzata come modello per lo studio delle malattie e per la sperimentazione di farmaci e sostanze chimiche, questa branca definita non a caso “cattiva scienza” dalla prestigiosa rivista scientifica internazionale “Nature” (novembre 2005), cela in realtà ingenti interessi economici»

    Questa affermazione è volutamente inesatta: Nature è una rivista molto prestigiosa e pubblica centinaia di migliaia di articoli. Ogni tanto, com’è normale nella prassi scientifica, dà spazio a legittime critiche su specifici modelli o applicazioni di tecniche che rientrano nell’ambito della sperimentazione animale: per esempio, il caso citato, del novembre 2005 (qui), metteva in discussione l’affidabilità di un particolare esperimento condotto su un particolare oggetto di studio, i test tossicologici, in particolari modelli murini. Non si tratta quindi di una critica ragionata della ricerca su animali in generale, ma di un dubbio legittimo che concorre allo sviluppo del dibattito intorno a risultati specifici.
    Inoltre, anche se l’articolo in questione avesse espresso forti critiche sulla sperimentazione animale in toto (cosa del resto piuttosto improbabile, dato che la ricerca scientifica non può fare a meno del suo oggetto di studio, per definizione stessa di scienza), dire che Nature avrebbe definito «cattiva scienza» la sperimentazione animale sarebbe comunque stato un ignobile tirare per la giacchetta una delle più prestigiose riviste scientifiche nel mondo: se in uno o più articoli sono comparse opinioni, pur suffragate da dati sperimentali o da analisi di altro tipo, contrarie all’efficacia della sperimentazione animale, ciò non fa di queste posizioni la posizione ufficiale di Nature.
    Questa posizione semplicemente non esiste: una rivista pubblica risultati, non esprime opinioni.
    Tra l’altro, è interessante citare un articolo su Nature contrario alla sperimentazione animale, viste le centinaia di migliaia di articoli che invece si basano proprio su questa e hanno quasi sempre mostrato coerenza e affidabilità nel tempo, confutando così l’idea che questa sia inutile e allo stesso tempo l’idea che Nature consideri la sperimentazione animale «cattiva scienza».

    «La logica che sta alle spalle della sperimentazione animale, lungi dal perseguire il miglioramento della salute umana, è piuttosto da identificarsi in un interesse economico. L’universo di aziende e risorse destinate all’allevamento di animali da laboratorio è grandissimo e per questo non si intende utilizzare metodi diversi e meno costosi dal punto di vista economico e delle vite animali sacrificate»

    Questa affermazione è parziale. Non è da escludere che le aziende ricerchino inevitabilmente il profitto privato, pure operando nel settore della ricerca, giacché il capitale ambisce a rigenerarsi e ad accrescersi, a prescindere dal mezzo, sia esso costituito da farmaci, beni di consumo, giocattoli o navi da guerra. Il difetto della frase riportata è che evita di citare i tanti casi in cui un miglioramento della salute umana c’è stato e omette il reale motivo dell’utilizzo di animali nella ricerca, che risiede nella definizione stessa di ricerca e di scienza: la scienza è, per definizione, sperimentale. La sperimentazione animale è semplicemente un’esigenza delle scienze biologiche, che per studiare l’essere vivente devono disporre dell’essere vivente: questo è nella natura del metodo scientifico.
    Inoltre, dipingere il mondo della ricerca come totalmente subordinato agli interessi delle grandi aziende significa insinuare che gli scienziati non siano dotati di indipendenza nelle proprie scelte professionali, ovvero che si rifiutino di adottare certi metodi sperimentali anziché altri con lo scopo esclusivo di garantire la tutela di interessi diversi da quelli scientifici; questo, effettivamente, può accadere, ma pensare che tutti gli scienziati che conducono esperimenti sugli animali, ovvero pressoché tutti gli scienziati del settore biologico, lo facciano con questo scopo, è puro complottismo.

    «Le reazioni avverse ai farmaci sono la quarta causa di morte nei Paesi industrializzati. Nella sola Europa sono circa 200mila le persone decedute a causa degli effetti collaterali»

    Questa affermazione è fuorviante: anche se la stima fosse affidabile (ma non me ne sono sincerato), il fatto che i farmaci manifestino effetti collaterali non è necessariamente correlato alla sperimentazione animale. Se questi effetti esistono è piuttosto dovuto alla natura stessa del farmaco: tutti i farmaci sono molecole tossiche e, nel somministrarle, si spera sempre che gli effetti positivi siano maggiori di quelli negativi per la salute. Si sono verificati casi, in passato, di farmaci ritirati dal mercato in quanto ne è stata scoperto un grado di tossicità non compensato dai loro effetti benefici. In ogni caso, gli effetti collaterali non possono di certo essere attribuiti alla sperimentazione animale.

    «D’altronde sono numerosi e ben più scientificamente accurati i metodi alternativi alla sperimentazione animale»

    Questa affermazione è incompleta. Esistono moltissimi metodi alternativi, come le colture cellulari, le simulazioni al computer, gli studi clinici ed altri, che di norma non usano animali vivi, ma morti, perché i materiali utilizzati da qualche parte devono pur venire. Anche i metodi alternativi, quindi, fanno uso degli animali, e non c’è da stupirsi: non si può studiare un animale senza animale.
    Questi metodi, inoltre, sono comunemente utilizzati in qualunque laboratorio di biologia nel mondo: far passare l’idea che siano pratiche poco diffuse e ostacolate dagli istituti di ricerca o dalle aziende farmaceutiche significa divulgare il falso.

    «Uno fra tutti, la tossicogenomica: un metodo che prevede di mettere in contatto il DNA della cellula umana con le sostanze delle quali intendiamo verificare l’effetto tossico o dannoso»

    L’esistenza di un metodo in grado raggiungere buoni risultati evitando di usare animali non dimostra che si possa farne a meno in generale: ad oggi, la maggior parte delle risposte fisiologiche non sono accuratamente prevedibili in assenza di un modello in vivo. Questo significa che in molti ambiti, per condurre una buona ricerca, non è sufficiente utilizzare metodi alternativi: per esempio, la tossicogenomica può servire a valutare gli effetti di una sostanza sul materiale genetico, ma non può prevedere gli effetti biologici cellulari, tissutali o sistemici dell’azione di una sostanza. Al momento, in nessun ambito della ricerca che coinvolge la biologia animale si può fare a meno degli animali.

    «Anche in tema di costi, abbandonare la sperimentazione animale sembra la soluzione migliore»

    È vero che la ricerca deve tener conto anche dei costi, ma non si può fare della riduzione dei costi della ricerca un cavallo di battaglia, soprattutto se il programma della lista con cui si è candidati propone un’inversione di tendenza rispetto ai tagli precedentemente apportati al settore.
    Si sta così facendo della questione scientifica un problema di carattere economico, come se lo sviluppo delle conoscenze e il progredire del sapere scientifico dovesse sottostare alle leggi di mercato, non diversamente dalle forze politiche dalle quali Rivoluzione Civile si vanta di distinguersi.

    Per concludere, c’è da fare una considerazione anche sulla competenza dell’autrice in materia di sperimentazione animale, ricerca scientifica, scienze della vita. Valentina Stefutti è un avvocato: è quindi competente in giurisdizione, ma non conosce il mondo della ricerca. Le opinioni espresse nel suo articolo sono frutto di un’ingannevole propaganda costituita da slogan forvianti che non esaminano come dovrebbero un argomento complesso, banalizzandolo e semplificandolo all’osso (e scusate se parlo di ossa), e propongono alle persone inesperte una visione parziale e insufficiente a una valutazione oggettiva; di un’informazione manipolata che cita, per esempio, l’aforisma di Einstein «nessuno scopo e tanto alto da giustificare metodi così indegni» che in verità non si riferiva alla sperimentazione animale, ma conferisce autorevolezza alla posizione contraria; dello sfruttamento, al pari di tanti movimenti politici, dell’impatto emotivo, che non invita a valutare razionalmente la realtà, ma a prendere posizioni identitarie che minano l’essenza stessa del pensiero critico.

    Fin dalla nascista di Rivoluzione Civile, li ho chiamati ironicamente «compagni che sbagliano». E purtroppo sbagliano sempre di più.