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  • La conoscenza è un atto politico

    Per chi oggi non avesse comprato Terra, quotidiano nazionale, con il supplemento della Rete della Conoscenza, pubblico qui il mio articolo dal titolo “La conoscenza è un atto politico”

    Cosa succede quando decine se non centinaia di migliaia di studenti in tutta Italia decidono di riempire le piazze delle loro città, di occupare le proprie scuole costruendo un’idea di riforma alternativa, di riunirsi in gruppi di lavoro e di discussione mettendo in pratica lo strumento indispensabile della condivisione e dell’orizzontalità democratica, di stabilire una fitta rete di informazione sul piano nazionale e, spesso, a livello territoriale?
    Finché tutto ciò si risolve con manifestazioni di piazza organizzate durante quelle che dovrebbero essere le ore di lezione, l’effetto immediato ed evidente è un rallentamento l’attività didattica.
    Niente di meglio per il regime dell’ignoranza contro cui le manifestazioni sono indirizzate.
    Ma se quelle manifestazioni diventano non l’ultimo effetto passeggero della naturale tendenza ribelle insita nei giovani, passionale, istintiva, quasi ingenua, per trasformarsi in passi singoli di un progetto organico, insomma se il corteo diventa uno strumento da sfruttare al massimo anziché un fine da perseguire, il regime trema.
    Se in quelle assemblee si fa informazione, un’informazione vera, non distorta dalle lenti del potere ma generata dalla volontà di chi è protagonista dei fatti raccontati di comunicare, di descrivere oggettivamente, di sfuggire agli strumenti del “quarto potere” ufficiale, il regime trema.
    Se in quei dibattiti ci si rende conto che il primo passo per superare la crisi economica globale e il sistema che l’ha prodotta non può che essere quello di “produrre cultura”, si forgia l’arma che meglio di tutte le altre può essere usata contro il regime dell’ignoranza, e il regime trema.
    Se in quelle riunioni si elaborano strategie di lotta nuove e idee nuove per costruire non solo una scuola diversa ma una società diversa, alternativa a quella esistente, lontana dalle disparità, dalle disuguaglianze e dalle discriminazioni, il regime trema.
    Ci vuole più informazione, più responsabilità, più attaccamento folle a ogni singolo possibile frammento di cultura esistente nel nostro Paese, da parte di ciascuno di noi, da parte di tutti. Quello che vogliamo non si ottiene soltanto con la doverosa partecipazione a manifestazioni di piazza ma in definitiva con la scelta di uno stile di vita che sia conforme ai valori che abbiamo deciso di abbracciare.
    Il sapere in sé non ha un colore politico, eppure in una società che premia l’ignoranza, l’apparire e la corruzione piuttosto che la cultura, l’essere e la legalità, la conoscenza un colore politico ce l’ha: chi è onesto e consapevole dei propri diritti non può sostenere queste politiche governative di disfacimento dell’apparato scolastico e universitario italiano, questa politica dei privilegi, della disinformazione e dell’individualismo.
    La storia ci sta chiamando: sentiamola e rispondiamo con tutte le nostre forze. La conoscenza è un atto politico.

    Piero Lo Monaco

  • Indisponibili davvero

    Considerazioni sulla protesta del mondo della formazione e critica dei metodi di lotta finora utilizzati. Ecco cosa propongo invece per una minaccia che sia vera, viva, valida.

    Bloccare le università non basta per bloccare l’economia.
    È vero che la ricerca produce ricchezza e che l’Italia è retrocessa economicamente rispetto ad altri paesi industrializzati e post-industriali proprio a causa dell’insufficienza dei finanziamenti per la ricerca, ma questo è un processo che si sviluppa a medio o lungo termine (per esempio l’arretratezza attuale è dovuta non ai tagli di oggi ma alla tanta negligenza di ieri rispetto a tutti i luoghi della formazione e della cultura), e il blocco della didattica, se non si ha la certezza che il Governo ascolterà il disperato grido d’allarme lanciato dall’università, non può protrarsi per un intervallo di tempo esageratamente lungo come quello che servirebbe a convincere coi fatti che senza ricerca non c’è sviluppo e che noi siamo in grado di bloccare lo sviluppo bloccando la ricerca.

    Le strategie di lotta passate non sono più efficaci.
    È vero che, dopo due anni dalla nascita del movimento di opposizione alle scellerate politiche governative in materia di istruzione, università e ricerca nel mondo della formazione, l’agitazione sociale ha contribuito alla formazione di una forte coscienza critica, ma le strategie utilizzate si sono evidentemente rivelate pressoché inutili. La prova lampante è che il ddl Gelmini è ancora in parlamento, dove è sempre stato, e forse verrà approvato.

    Il corteo non fa paura a nessuno.
    Non serve una mente geniale a capire che dei cortei e delle manifestazioni civili dei generi più svariati e delle modalità più diverse, non si cura il Governo. Come ha detto tante volte Berlusconi, «il governo va avanti», «per la sua strada», con o senza la gente in piazza. Anche qui si potrebbero fare infiniti esempi delle numerosissime manifestazioni rimaste inascoltate. Il corteo e il blocco delle università non fanno più paura a nessuno, il primo perché basta non dare risalto mediatico all’evento (che in una dittatura mediatica equivale a cancellare la sua esistenza) o dargliene troppo (trasformandolo in spettacolo di intrattenimento delle masse da illudere), il secondo perché non provoca danni immediati, ammesso che riesca a provocarli.
    Il problema è che non riusciamo a convincere i vari Tremonti, i Berlusconi, i Gelmini, che siamo in grado di costituire un danno per il sistema, perché né il corteo né il blocco della didattica sono realmente in grado di farlo, non costituiscono un ricatto né una minaccia.

    Indisponibili davvero.
    Fin da subito questo movimento ha preso il nome di «indisponibili».
    I ricercatori si sono dichiarati indisponibili a svolgere, senza essere pagati, compiti che dovrebbero essere svolti da altri lavoratori, i quali però non ci sono dato che assumerli significherebbe spendere soldi per il mondo della formazione.
    Si sono rifiutati di fare qualcosa che non rientra nei compiti previsti dai contratti.
    Se anche noi studenti vogliamo essere indisponibili davvero e non solo a parole, non solo come segno di vicinanza alla protesta dei ricercatori, dobbiamo rendere la nostra indisponibilità una pratica che rispecchi la nostra condivisione di principi fondamentali.
    Dobbiamo fare in modo che l’indisponibilità si concretizzi, diventi uno strumento di ricatto e di minaccia, dobbiamo mostrare che con la nostra indisponibilità, se vogliamo, possiamo bloccare tutto.
    È ora quindi che ci rifiutiamo anche noi di pagare di più: è ora che rispettiamo anche noi i contratti degli affitti, meticolosamente, pagando la cifra prevista, né più né meno.
    Finché non li sfideremo su quel fronte, colpendoli nel loro punto debole, quello dei soldi, non solo loro ma anche l’opinione pubblica e la cittadinanza, si accorgeranno che noi esistiamo solo se il corteo passa davanti ai loro portoni o se ne parlano i mezzi di informazione. Ma se blocchiamo l’economia, non si potrà trascurarci.
    Se siamo gli indisponibili perchè siamo disposti a pagare la stragrande maggioranza degli affitti in nero? Il boicottaggio è il vero strumento con cui possiamo tenere in scacco, bloccare, letteralmente paralizzare l’economia della città, e pretendere che ci venga ridato ciò che ci è stato tolto. Senza boicottaggio, il corteo è una sfilata informe. Con il boicottaggio, il corteo farà di nuovo paura.

  • Ritorno alla metafisica

    Il titolo parla di metafisica e capisco bene chi, conoscendomi, strabuzzerà gli occhi nell’accorgersi che recita alla metafisica e non dalla metafisica. Non li biasimo; in fin dei conti hanno più che ragione, dal momento che con metafisica intendo la sua accezione kantiana, ovvero di scienza dei limiti della ragione, ma pur sempre scienza e non astratta illusione. Già, perchè che esistono scienza e illusione è un fatto, e se la ragione si sofferma ad esaminare i propri limiti (come suggerisce un celebre titolo) non può che farlo dal punto di vista proprio della ragione, cioè in maniera scientifica. Per questo può dirsi non dico l’esistenza, perchè sconfinerei appunto nella metafisica, ma per lo meno la validità formale di una scienza dei limiti della ragione, che chiamiamo metafisica (kantiana, se vogliamo).

    Con ritorno alla metafisica mi riferisco al piuttosto lungo lasso di tempo che separa il presente dall’ultima volta in cui mi sono abbandonato, catturato dallo studio della filosofia settecentesca, a fantasticherie filosofiche che secondo alcuni lasciano il tempo che trovano, e che secondo me sono invece in grado di diventare interessanti, guardate da almeno un punto di vista (che è il mio), e ciò mi dà automaticamente il diritto di pubblicare questo genere di riflessioni tra le righe che seguono.

    Lo studio della matematica mi rende sempre più persuaso del fatto che nulla è dato perchè tutto deriva da quelle che in matematica chiamiamo posizioni (posizione è da intendere come l’atto di porre qualcosa, cioè di stabilire una regola). Gli assiomi sono le prime posizioni e da queste segue tutta l’impalcatura teorica che è un sistema matematico. Per esempio, dobbiamo dimostrare che esiste un solo elemento neutro per l’addizione e uno solo e un solo elemento neutro per la moltiplicazione e uno solo e che questi elementi sono rispettivamente zero e uno. Per quanto logico e scontato possa sembrare il fatto che x+0=x e che x*1=x, queste sono da dimostrare a partire da pochissimi assiomi, i quali sono considerati veri per mera evidenza. Qualcuno potrebbe osservare: “come se non fosse meramente evidente il fatto che un numero sommato al nulla o preso una volta rimanga uguale“.

    In effetti io potrei svegliarmi un mattino, magari con acuti postumi di una sbornia difficile da ricacciare nel mondo dell’irrazionale da cui proviene, e stabilire assiomi completamente diversi da quelli che sono assunti come veri per mera evidenza e nessuno potrebbe impedirmelo o dire che il risultato di operazioni numeriche o insiemistiche eseguite nel nuovo sistema siano scorrette, perchè la scorrettezza implica una correttezza che non esiste di per sé, ma è data proprio da chi esegue quelle operazioni scegliendo un sistema o un altro. Il motivo per cui riteniamo evidentemente vere le posizioni assiomatiche su cui si basa l’abituale sistema matematico è che esse sono in accordo con l’esperienza che noi abbiamo della realtà, ma ciò non deve portare alla conclusione che quelle proposizioni sono assolutamente vere, giacché la verità dipende da una scelta operata dal soggetto (e anche perchè l’assolutamente vero e l’assolutamente falso sono concetti da tempo superati dalla logica matematica, cfr. Le menzogne di Ulisse, P. Odifreddi), il che richiama in qualche modo la teoria quantistica (in particolare il collasso della funzione d’onda) che comunque non affronterò hic et nunc per insufficiente competenza.

    In definitiva, la cosa interessante è che la credenza religiosa più semplice, quella deista, e la matematica, condividono la caratteristica di essere basate su idee non dimostrabili. La differenza risiede nel fatto che la matematica non ha la pretesa dell’assolutezza e può mettere quindi in discussione se stessa e i propri principî, addirittura la propria validità ed esistenza. E dal momento che non può farlo che conformemente ai propri caratteri, lo fa in maniera razionale e scientifica, proprio come la ragione kantiana.

    II primo che dimostrò il triangolo isoscele (si chiamasse Talete o come si voglia), fu colpito da una gran luce: perché comprese ch’egli non doveva seguire a passo a passo ciò che vedeva nella figura, né attaccarsi al semplice concetto di questa figura, quasi per impararne le proprietà; ma, per mezzo di ciò che per i suoi stessi concetti vi pensava e rappresentava (per costruzione), produrla; e che, per sapere con sicurezza qualche cosa a priori, non doveva attribuire alla cosa se non ciò che scaturiva necessariamente da quello che, secondo il suo concetto, vi aveva posto egli stesso.

    I. Kant, Critica della ragion pura

  • Sull’egemonia culturale

    Ecco quella che potrebbe essere la domanda di inizio di un saggio, anche interessante, ma che invece voglio destinare ad un’altra funzione: quella del dibattito e della riflessione. Sono sempre più convinto (e sempre più socialista..) che il marxismo sia un’ottimo strumento di analisi sociopolitica e sociologica in genere, ovviamente soprattutto nell’ambito economico, e non tanto per i suoi fini, la cui discutibilità e condivisione sono soggette all’arbitrio dei singoli e il cui valore è dunque soggettivo, quanto per il suo metodo, che è piuttosto oggettivo e sa indagare al cuore dei problemi in questione. La domanda è dunque:

    Cosa rende lo storico scienziato (“cosa rende il marxista” direbbe Gramsci) così persuaso della correttezzza della teoria gramsciana dell’egemonia culturale, così propenso ad accettare l’idea secondo cui il sistema valoriale della classe produttiva non è che un’imposizione camuffata, un’elaborazione pianificata e saggiamente studiata dalla classe dirigente per il mantenimento dello status quo, cioè del proprio potere?

  • Sull’estetica del conflitto [parte 2]

    Manifestazione bracciantile a Mantova, 1957

    Il modello della minaccia, che evidenzia un conflitto reale, è valido solo sotto certe condizioni, che naturalmente non sempre si verificano in ogni sistema sociale, in ogni luogo e in ogni epoca, come naturalmente non mantengono la propria validità in ogni sistema sociale, in ogni luogo e in ogni epoca le leggi socio-economiche che molti ritengono, a torto, avere un carattere assoluto.

    A prescindere dalla moltitudine di fattori che possono avvalorare o, al contrario, compromettere l’applicabilità del modello della minaccia, esiste un presupposto per la sua efficacia, ovvero l’effettività della minaccia stessa: deve prospettare al minacciato la possibilità che realmente egli corra un rischio non trascurabile. Tolto ciò, la minaccia perde il suo valore potenziale ed è assunta piuttosto come semplice reiterazione tradizionale di linguaggi non più credibili non solo nella forma ma anche nella sostanza. Quando gli operai per entrare nella storia minacciavano il blocco della produzione, la classe a cui essi si rivolgevano sentiva e subiva la minaccia perché era cosciente che un’eccessiva negligenza avrebbe realmente rischiato di compromettere l’esistenza del sistema che loro, per sé stessi, avevano costruito, perché sapevano che certamente gli operai, se l’avessero voluto, avrebbero potuto bloccare definitivamente una fabbrica, un paese o una nazione forgiando un sistema alternativo all’esistente modellato su basi già poste da altri, decenni prima, solo sul piano teorico ma con l’intenzione dichiarata di non lasciare che restassero meri scritti utopici e inconcludenti. Questo significava il blocco del sistema produttivo: plasmare la realtà concreta dandole una forma voluta, realizzare il sogno di pensatori e grandi uomini del passato, riscattare la dignità di miriadi di esseri umani che avevano da sempre popolato la storia del mondo.

    Risulterà allora chiaro che il blocco produttivo come strumento ha senso soltanto quando è causa della rovina di chi controlla il sistema produttivo; che esso non può dunque valere come minaccia se non implica la certezza che al blocco produttivo seguirà un insieme di blocchi in grado di rendere inutile la strategia di sopravvivenza dell’altrui sfruttamento, se non implica in ultima anlisi la volontà e la possibilità di proporre un «ordine nuovo».

    Oggi questa condizione fondamentale manca, pertanto è poco efficace, ai fini della lotta, tutto il linguaggio che da tale condizione fondamentale ha tratto in passato le mosse: sarebbe una reiterazione poco credibile non solo nella forma ma anche, particolarmente, nei contenuti.

    Ed è per questo che cambieremo linguaggio e parleremo dell’estetica del conflitto, del modo con cui si trascina dietro il ricordo di vecchie forme di lotta (il ché non è di per sé negativo, anzi più che meritevole) eppure trascura la speculazione teorica (l’elaborazione di nuove idee, o ancora meglio sistemi di idee, teorie, che spieghino a quelle miriadi di esseri umani cosa succede nel mondo reale) e l’invenzione di forme di lotta nuove, che sostituiscano le vecchie e tornino a rappresentare una minaccia vera, viva, valida.

  • Sull’estetica del conflitto [parte 1]

    Fin dai primi anni di elaborazione delle teorie marxiste e della conseguente presa di coscienza del conflitto sociale di classe, la struttura di quest’ultimo ha trovato sostegno pragmatico e giustificazione teorica nella pratica della minaccia.

    I movimenti operai  dei primi del Novecento contavano sulla possibilità reale di provvedere, se le istanze proprie della classe proletaria non fossero state prese in considerazione dalla classe proprietaria, alla costruzione di un modello organizzativo autonomo e autogestito che capovolgesse dialetticamente i rapporti tra capitale e lavoro salariato, così che, per dirla con Marx stesso, o meglio, per ragioni di precisione storico-filologica, con Hegel suo maestro, il servo potesse diventare «padrone del padrone» e viceversa, il padrone potesse diventare «servo del servo».

    Si pensi, per esempio, al cosiddetto biennio rosso (1918-20), periodo di intensi contrasti e fortissimi conflitti, anche parecchio sanguinarî, che sorsero spontaneamente in tutto il continente europeo e per due anni furono sul punto di mettere in ginocchio lo Stato borghese riducendolo progressivamente ad una condizione di timore che si risolse, secondo la situazione specifica di ogni paese, con l’istaurazione di governi reazionari, militaristi o addirittura, come nel caso della Germania e dell’Italia, totalitari o quasi-totalitari: durante il suddetto periodo l’efficacia della protesta dipendeva primariamente dalla capacità che avevano gli organi di resistenza economica e sociale (partiti rivoluzionari e camere del lavoro) di presentare alla classe non produttiva una minaccia, cioè la minaccia di rivoluzionare il sistema produttivo attraverso l’utilizzo di quella stessa disciplina e organizzazione che il vecchio sistema aveva insegnato, qualora gli esponenti del vecchio sistema e i magnati industriali non avessero sua sponte ceduto, infine, di fronte ad una crisi economica evidentemente irrecuperabile nel rispetto dei diritti umani, tra cui il diritto al lavoro, ad una vita vivibile e fuori dalla schiavità e dallo sfruttamento.

    Il fenomeno non è valido solo per il periodo circoscritto di cui sopra, ma è rappresentativo di un’epoca intera, in cui l’aut aut dato da chi protesta suona più o meno così: «visto che a lavorare e rendere operative le vostre decisioni siamo noi, o decidiamo anche noi, oppure lavoriamo da soli e, in assenza di chi lo renda operativo seguendo le vostre disposizioni, non avrà più alcun senso il vostro decidere». I soggetti di questa minaccia sono i consigli di fabbrica e le cooperative agricole, e gli strumenti per esprimerla e renderla manifesta sono gli scioperi, l’occupazione delle fabbriche e, anche sul piano sociale e cognitivo, i centri sociali, da considerarsi come mezzi di affermazione e diffusione dei saperi indipendenti in cui convergono e vengono incanalate le altre forme di lotta e, eventualmente, ne vengono elaborate nuove attraverso lapratica della consivisione e dello scambio democratico e dialogico.

    [continua…]

  • Prefazione al Manifesto del partito comunista

    Il Manifesto riconosce appieno il ruolo rivoluzionario giocato nel passato dal capitalismo. La prima nazione  capitalistica è stata l’Italia. La conclusione del Medioevo feudale e l’inizio della moderna era capitalistica sono segnate da una figura grandiosa : è un italiano, Dante, l’ultimo poeta medievale e insieme il primo poeta della modernità. Come nel 1300, una nuova era è oggi in marcia. Sarà l’Italia a darci un nuovo Dante, che annuncerà la nascita di questa nuova era, l’era proletaria? 

    Londra, 1° febbraio 1893
    Friedrich Engels 

    Povero illuso, Engels… 

  • Pecore rosse

    Pensate a come sarebbero andate le cose se le pecore avessero avuto lana rossa anzichè bianca.
    I Fenici, essendo un popolo di pastori e con molta lana rossa in giro, non avrebbero certo avuto l’esigenza di basare la propria economia sulla porpora, tintura ottenuta dopo una complicata lavorazione di molluschi marini, e non sarebbero dunque diventati così ricchi da avere il monopolio economico di migliaia di chilometri di costa mediterranea; di conseguenza, probabilmente non avrebbero fondato Cartagine, e Roma 6 secoli dopo non avrebbe trovato alcun ostacolo nella sua espansione; probabilmente una Roma senza guerre puniche non avrebbe conosciuto la crisi politica e sociale origintasi come conseguenza del periodo di intense guerre che privarono i piccoli proprietari terrieri della propria attività rendendoli ostili agli aristocratici patrizi. Niente populares e optimates, perciò, e quindi niente Cesare, il conquistatore della Gallia. Forse sarebbe stata conquistata più tardi, o forse affatto. Fatto sta che senza un Cesare che centralizzi il potere e inneschi il periodo delle guerre civili, la potenza repubblicana romana sarebbe esistita più a lungo; escluso anche Augusto, principe e primo imperatore romano, neanche il grande Impero si sarebbe formato. Gli attriti sociali sarebbero scoppiati probabilmente in seguito, qualche secolo dopo.
    In tale situazione, forse il Cristianesimo non avrebbe riscosso così successo, in un momento in cui i valori del mos maiorum non venivano di certo a mancare; tuttavia questo avrebbe contratto consensi, se eventualmente si fosse sviluppato, solo a Oriente e in province romane di recente conquista (come forse la Gallia meridionale).
    Il medioevo, o meglio il periodo seguito alla fine dell’egemonia economica e culturale romana, non sarebbe stato dominato dal  lontano sogno di ricostituire un Impero mai esistito; niente dunque diatribe tra Chiesa e Impero, non essendoci probabilmente neanche una Chiesa così capillarmente istituzionalizzata. Senza Impero caduto infatti la Chiesa non si sarebbe sentita erede di nessuna potenza politica. Eventuali papi medievali non avrebbero indossato abiti rossi, in quanto il rosso sarebbe stato il colore della plebe, dei pastori e dei nullatenenti, ma magari blu, verdi, gialli.
    Le classi sociali sarebbero state più vicine alla tipologia romana, nella suddivisione tra equites, optimates, proletarii, servi.
    Inoltre, niente medioevo vuol dire niente Rinascimento o almeno non come lo studiamo, e niente Rinascimento vuol dire molte altre cose e queste ne implicano altre.

    Insomma, ci rendiamo conto di quanto un semplice scambio di colore possa influire sul corso della storia, così come può farlo e lo fa qualsiasi piccola cosa, benchè minima. Anche se governato da leggi universali, il mondo è affidato al caso, e io sia dannato da Dante Alighieri perchè io sono colui che <<tutto a caso pone>>