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  • Convergenze ideologiche: il circolo fallace delle sociobiologie

    Le coincidenze a volte sanno essere sorprendenti. Nelle ultime due settimane ho esposto su questo blog le mie perplessità su chi ha la pretesa di considerare universali, naturali, indiscutibili presunti sistemi sociali o leggi economiche quando piuttosto la loro giustificazione è ideologica.
    Ho cercato di dimostrare, nei dibattiti sviluppatisi in calce agli ultimi due post, che non esiste un’astratta e settecentesca “natura umana”, perché l’uomo vive in ogni epoca e in ogni luogo immerso in un ambiente culturale e imbrigliato in una rete di rapporti sociali.
    E cosa mi capita di andare a seguire? Una conferenza, tenuta da Maria Turchetto, docente di epistemologia delle scienze sociali all’Università di Venezia, peraltro già da me conosciuta come direttrice de L’Ateo, che tratta proprio del tema che mi ha ultimamente affascinato e che continua ad appassionarmi. Ve ne propongo un riassunto, ricostruito dai miei appunti e dalla mia memoria.

    Non molti sanno che nella Bibbia sono contenute due versioni della Genesi: in una Dio crea l’uomo a sua immagine e lo crea maschio e femmina, nell’altra, quella più conosciuta, la donna Eva è creata da una costola di Adamo, successivamente alla creazione di quest’ultimo. Nella prima versione i due generi sono creati uguali, mentre nella seconda esiste una evidente subordinazione della donna all’uomo, sia materiale (deriva da una sua parte) che temporale (è creata dopo).
    Richiamandosi all’esegesi biblica, è proprio questo argomento che, nel 2004, l’allora cardinal Ratzinger usò per giungere a una conclusione sulle differenze di genere che si può riassumere con la seguente: è giusto che la donna si adoperi per la conservazione della famiglia tradizionale. La donna ideale è una brava casalinga.
    Partendo da presupposti differenti, di natura scientifica, negli anni Settanta E. O. Wilson, considerato il fondatore della sociobiologia, giunse alle stesse conclusioni: le donne devono anzi non possono non stare a casa e svolgere un ruolo di cura, perché tale ruolo è determinato geneticamente.
    Potrebbe sembrare strano che basandosi su due pensieri così diversi quali quello scientifico e quello religioso si raggiungano idee tanto simili. Eppure questi due ragionamenti hanno qualcosa in comune: il determinismo. Nel caso dell’argomentazione religiosa del cardinal Ratzinger si tratta di un determinismo metafisico («Dio ha detto così quindi non può che essere così»), nell’altro, di derivazione scientifica, di un determinismo meccanicistico («così è scritto inevitabilmente nei geni»); ma sempre di determinismo si tratta, di affermazione dell’esistenza di leggi naturali a cui è impossibile evitare di sottostare.
    Le argomentazioni di Wilson suscitarono moltissimo interesse ed ebbero successo, soprattutto presso il pubblico allora crescente di lettori di divulgazione scientifica, ma in verità non si trattava di un fenomeno nuovo: era l’ultimo di innumerevoli esempi storici di utilizzo della biologia come strumento di legittimazione delle disuguaglianze sociali.
    Tale utilizzo fu fortemente criticato dal genetista Lewontin, che confutò la teoria sociobiologica fin dalla sua formulazione. In un suo libro, intitolato Biologia come ideologia, egli getta luce sulla fallacia dei presupposti sociobiologici su cui Wilson elaborava le sue teorie: l’errore di Wilson risiede nel considerare un particolare sistema sociale come espressione universale e naturale del genere umano, anziché come costruzione di forze sociali, culturali, politiche.
    In questo, nell’epoca moderna è possibile la sostituzione della religione con la scienza come strumento di giustificazione della realtà sociale esistente, affermando attraverso il determinismo l’impossibilità di alternative.
    Storicamente questo è accaduto in epoca moderna con il darwinismo sociale, il razzismo scientifico, la sociobiologia di Wilson. Lorenzo Calabi (in Darwinismo morale) ha definito «circolo fallace» l’artificio dimostrativo che sarebbe sotteso ai ragionamenti basilari di queste teorie, ovvero:

    Astraggono un comportamento sociale moderno e lo traspongono in una condizione naturale, […] dando ad esso un significato in quella condizione. Astraggono poi il significato e lo ricollocano nella contemporaneità

    concludendo così che quel comportamento è naturale e intrascindibile. Questo salto ontologico non è razionalmente accettabile. Allo stesso modo, qualcuno potrebbe osservare le formiche in fila indiana e notare che somigliano a operai lungo una catena di montaggio; tornato poi in fabbrica, troverebbe gli operai al lavoro e, vedendoli in fila indiana, concluderebbe che, dal momento che anche le formiche adottano un comportamento simile, questo deve essere naturale («Toh, gli operai fanno come le formiche, evidentemente è una legge di natura!»).
    Il darwinismo sociale è stato formulato da Spencer nella seconda metà dell’Ottocento prendendo spunto dalla teoria darwiniana dell’evoluzione attraverso la selezione naturale: secondo Spencer, ciò che accade in natura, ovvero la lotta per la sopravvivenza e la vittoria del più forte, si replica all’interno della società e ciò avviene inevitabilmente in quanto dovuto a leggi insite nella natura animale dell’uomo. Oltre che per la forzatura e l’interpretazione inesatta della propria teoria (che parla di sopravvivenza del «più adatto» e non del «più forte»), Darwin respinse la paternità di tale trasposizione sociale dell’evoluzionismo non appena gli fu rinfacciato di aver giustificato Napoleone e ogni commerciante che raggiri i clienti, in quanto più forti. Anzi, in opere successive esaltò le qualità collaborative e di solidarietà dell’animale uomo.
    Marx, con una strizzata d’occhio al naturalista, riconosceva il circolo fallace nella concorrenza e nell’interpretazione che Spencer ne dava («Nel mercato c’è concorrenza. La competizione è naturale. Dunque il mercato è naturale»).
    In effetti, nel caso del socialdarwinismo, il circolo fallace di cui parla Calabi non si chiude: Darwin aveva esplicitamente preso ispirazione, nella formulazione della sua teoria, dall’economista Malthus; ma Malthus non aveva preso ispirazione dalla natura. Si tratta dunque di un semicerchio, in cui la fallacia non risiede tanto in un salto ontologico bensì nell’invasione, da parte del darwinismo, di un ambito esterno al suo campo di applicabilità.

    La sociobiologia di Wilson attribuisce ai geni la responsabilità per comportamenti sociali, procedendo come segue: descrive caratteri comuni dell’essere umano in ogni luogo e in ogni tempo; afferma che tali caratteri sono universali perché genetici; conclude che, essendo genetici, sono stati determinati dal processo della selezione naturale, che seleziona caratteri vantaggiosi per l’individuo e, per estensione, per la specie. Ovvero: viviamo nel migliore dei mondi possibili.
    I più notevoli tra i caratteri comuni sono, guarda caso: eterosessualità, monogamia, amore per la proprietà privata, predominio del sesso maschile, xenofobia. Si tratta insomma di un pensiero profondamente reazionario espresso in forma scientifica. Oggi un qualunque antropologo può confermare che i caratteri sopracitati non sono effettivamente comuni alle società umane in ogni luogo e in ogni tempo, eppure liquidare la teoria di Wilson come stupida è inutile e potrebbe addirittura rivelarsi dannoso: le masse di “profani”, infatti, notoriamente tendono a optare per la via più lineare, semplice e breve e trascurare questo fenomeno comporta il rischio che si ripetano grandi tragedie come quelle che il secolo XX ha tristemente conosciuto.
    Va quindi confutata razionalmente punto per punto. La confutazione sistematica di questo modus operandi prende in esame i passaggi logici in cui si articola e l’affidabilità sperimentale delle presunte affermazioni scientifiche in esso contenute:
    –la scelta di caratteri comuni non è scientifica, perché non contempla un controllo; inoltre ignora concetti elementari di antropologia
    –affermare che i caratteri comuni sono universali significa confondere la descrizione di un fenomeno con la sua spiegazione
    –affermare che i caratteri comuni sono genetici non ha semplicemente senso: sarebbe come dire che siccome in Finlandia sono quasi tutti luterani allora esiste il gene del luteranesimo.
    –il meccanismo di espressione genica proposto denota una profonda ignoranza dei principi di biologia dello sviluppo (che del resto erano ancora poco chiari negli anni Settanta)
    –ricondurre la presenza di ogni carattere a eventuali vantaggi evolutivi significa seguire erroneamente un ingenuo adattazionismo (mentre non tutto ciò che c’è c’è perché favorito dalla selezione naturale, come spiegato elegantemente qui da Lewontin e Gould). Ragionando così, potremmo dimostrare che le mele cadono verso il basso perché la selezione naturale ha sfavorito quelle che “cadevano verso l’alto”.

    Insomma, i tentativi di legittimazione biologica dei sistemi sociali sono di scarso grado di scientificità. Da sempre le classi dominanti hanno cercato di fare apparire le differenze di classe come differenze antropologiche naturali, ma ciò impone loro di rievocare il mondo naturale, in cui, purtroppo per loro, l’enorme varietà di comportamenti e strategie rende del tutto arbitraria la scelta che operano sugli aspetti della realtà: per esempio, in natura la formica regina è la casalinga perfetta, non esce mai di casa e non fa altro che sfornare figli, e sarebbe un ottimo modello per chi volesse sostenere le disuguaglianze di genere, se non fosse che è incestuosa, dato che solo una copula con i propri figli maschi può farle avere figlie di sesso femminile. Ora, nessuno prenderà la formica regina come esempio per dimostrare la naturalità dell’incesto, invece ciò può accadere per il ruolo di cura del sesso femminile o per la catena di montaggio fordista.

    Confutati i principi della sociobiologia, resta da individuare cosa, se non i geni, determina i comportamenti umani nelle loro relazioni sociali. Nel fare questo, si deve reprimere la tendenza a considerare l’umanità, specificità distintiva del genere umano, in contrapposizione all’animalità.
    In Ontogeny and phylogeny, S. J. Gould insiste sulla continuità tra uomo e altri animali: sul piano genetico, uomo e scimpanzé sono affini per più del 98%. Allora cosa ci contraddistingue sul piano cognitivo? La risposta deriva paradossalmente proprio dall’alto grado di affinità genetica con i primati più vicini all’uomo: strettissima somiglianza genetica ma importanti differenze nei caratteri rivelano che le differenze genetiche interessano geni regolatori, che influiscono sulla costruzione dell’assetto morfologico, sui tempi dello sviluppo, sull’espressione di altri geni. Da qui deriva l’ipotesi, oggi piuttosto accreditata, che l’evoluzione dell’uomo a partire dalle grandi scimmie primitive sia un caso di neotenia, ovvero di ritenzione di caratteri infantili nello stadio di vita adulto: un uomo appena nato somiglia molto più ad un feto tardivo di scimmia che a una scimmia appena nata e un uomo adulto somiglia molto più ad una scimmia appena nata che a una scimmia adulta. L’uomo ha mascelle non prominenti e denti piccoli, ha pochi peli sul corpo, ha una notevole capacità di apprendimento, è capace di digerire il latte anche da adulto, nelle femmine la vulva è in posizione più frontale che negli altri ominidi, e soprattutto la testa nei neonati è grande in proporzione al resto del corpo e contiene un cervello che alla nascita non è ancora completamente sviluppato.
    Da quest’ultima caratteristica dipende il fatto che lo stadio dello sviluppo dell’encefalo che nelle altre scimmie è fetale, nell’uomo avviene in un neonato che è già a contatto con l’ambiente esterno, costituito principalmente dall’esperienza culturale.
    Allora non si può più dire che gli elementi comuni all’uomo in ogni tempo e in ogni luogo, ammesso che ce ne siano, sono di derivazione genetica, perché potrebbero essere dovuti all’influenza culturale! Che, siccome non è eliminabile, non permette di isolare sperimentalmente i fattori esclusivamente genetici: durante lo sviluppo del cervello, la cultura lo plasma, non solo metaforicamente ma anche materialmente, promuovendo la realizzazione di sinapsi tra certe popolazioni di neuroni piuttosto che tra altre, la sintesi di certi neurotrasmettitori piuttosto che di altri.
    Qualcuno a questo punto potrebbe pensare di aver dimostrato che l’uomo è del tutto privo di determinazione comportamentale. Non è esattamente così.
    Innanzitutto restiamo esseri corporei, costruiti secondo informazioni contenute nei geni, e tale vincolo non è da trascurare, almeno in linea teorica. Per quanto concerne il comportamento, comunque, è l’ambiente a farla da padrone (del resto il comportamento è definito come «modo di agire di un individuo nei rapporti con l’ambiente e con le persone con cui è a contatto») e nel caso dell’uomo l’ambiente è approssimativamente assimilabile alla cultura: non c’è nulla di assoluto.

    Detto questo, aggiungo una mia riflessione.
    Siamo dunque determinati nei comportamenti non tanto da fattori genetici quanto da fattori culturali. Ora, se fossimo determinati dai geni dovremmo pensare, come i sostenitori del pensiero unico e dei vari tipi di determinismo biologico, che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che lo stato di cose presente è inevitabile, che non esistono alternative possibili, perché i geni non sono sotto il controllo della nostra volontà.
    Ma siamo determinati dalla cultura, che al contrario dei geni è una nostra costruzione, e che se non ci piace possiamo distruggere, proprio come l’abbiamo costruita, seppur tra mille difficoltà.
    Viva Kant, viva la liberazione sociale.

  • Le ideologie sono sempre degli altri

    (breve manuale di autodifesa nell’era post-ideologica)

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    C’è chi dice che l’uguaglianza sociale tra gli uomini «porterebbe la società ad atrofizzarsi», perché il singolo individuo non troverebbe più ragioni per fare del suo meglio al fine di contribuire allo sviluppo culturale, scientifico, economico della società in cui vive, se non gli fosse garantito un tornaconto strettamente personale.
    A prescindere dall’adesione o meno al concetto espresso in questa frase, intendo mostrare che essa è di natura ideologica, né più né meno della frase «il capitalismo è intrinsecamente ingiusto», che è ovviamente stata tacciata di essere ideologica e non aderente alla realtà.

    Cominciamo con un primo concetto: la parola “ideologia”, nel discorso che segue e ove non diversamente specificato, è usata nella sua accezione comune, quella giornalistica e dei saltimbanchi dei salotti televisivi. Ovvero, è un’interpretazione della realtà che si pone dei punti di riferimento e degli schemi interpretativi e che fa ricadere praticamente ogni fatto sociale, politico, economico, culturale, nella sfera di interpretazione definita da tali schemi. Spesso l’accusa di essere ideologico è usata per screditare l’interlocutore, sottintendendo che l’ideologia è un male da estirpare, per persone dalla mente chiusa, incapaci di accettare qualunque cosa che non si accordi perfettamente con i loro dogmi, i loro miti e le loro idealizzazioni.

    Questa retorica contrappone alle ideologie, vecchie e sconfitte, le idee, nuove e portatrici di pensiero critico; allo stesso tempo afferma la necessità di basarsi sui fatti e di adottare un pensiero post-ideologico per il bene dell’umanità, pensiero che è insegnato nelle scuole e nelle università ed è veicolato dai mezzi di comunicazione di massa, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente. Però qualcosa non torna nella pretesa di essere post-ideologici: se l’ideologia è uno strumento di interpretazione dei fatti, cosa significa superare le ideologie? Se significa rinunciare a schemi organici di interpretazione della realtà, cioè osservare i fatti senza la pretesa di interpretarli, allora tale superamento non ha senso.
    Prima di tutto perché l’oggettività assoluta non esiste: neanche la scienza, che è quanto di più vicino all’oggettività l’uomo abbia mai prodotto, rinuncia all’interpretazione dei fatti, anzi è essa stessa una loro interpretazione. I fatti, qualunque sia la loro natura, devono essere interpretati e l’interpretazione che se ne dà costituisce quella che comunemente è detta ideologia.
    In questo modo cade la distinzione tra idee e ideologie. Cosa sono le idee, astrazioni slegate dalla realtà dei fatti? No: se così fosse, di che utilità potrebbero mai essere? Anche le idee derivano da un’interpretazione, che non è concettualmente diversa da quella che conduce alle cosiddette ideologie.

    Ma se il superamento delle ideologie non è possibile, che cosa nasconde la pretesa di essere post-ideologici?
    Propugnare il superamento delle ideologie significa di fatto sostenere un’ideologia del pensiero unico, in cui si accettano le idee e si respingono le ideologie: generalmente chi fa questo discorso di contrapposizione tra idee e ideologie tende a considerare idee tutto ciò che fa parte dell’ideologia dominante e ideologia tutto ciò che non ne fa parte. La distinzione tra le due cose è dunque fittizia ed arbitraria. Anzi, con una strizzata d’occhio diciamo pure che è ideologica (marxianamente, questa volta!).

    Così, l’affermazione «il capitalismo è intrinsecamente ingiusto», che si basa su un patrimonio filosofico e politico che spazia da Marx a Žižek passando per Marcuse e Debord, è ideologica tanto quanto la convinzione che «l’uguaglianza sociale porterebbe la società ad atrofizzarsi», che descrive ciò che accadrebbe se l’uguaglianza sociale fosse praticata in un sistema capitalistico, che ha le sue leggi economiche difficilmente applicabili ad altri sistemi. Infatti, l’esistenza in passato (ma anche nel presente) di società egualitarie, spesso basate sulla distribuzione equa delle risorse e della produzione, che non sono implose, ma anzi sono prosperate per secoli o millenni, dimostra bene che l’affermazione ha scarsa capacità descrittiva dello stato reale di cose, non appena si esce da un sistema capitalistico.

    Ora, che l’economia borghese pretenda velleitariamente di descrivere leggi universali è già stato detto da qualcuno che ne sapeva sicuramente più di me, ed è stato poi confermato da altri e da altri ancora.
    Il punto è prenderne coscienza, tutti, e non farci ingabbiare dalla logica del pensiero unico.

  • Il migliore dei mondi possibili al tempo del pensiero unico

    Articolo correlato: Aiutiamo il vicino

    Riporto in versione integrale una discussione digitale avvenuta tra me e alcuni miei amici (uno in particolare), che spero possa dare spunti di riflessione ai lettori. La continuazione del dibattito è naturalmente benvenuta.

    La discussione si articola inizialmente su un video, che in realtà non è indispensabile vedere (e non costa nulla, è breve) per poter comprendere il resto. Basti sapere che si parla di decrescita: un esponente del Movimento 5 Stelle, Giovanni Favia, sostiene la teoria della decrescita, mentre il responsabile di economia del Pd di Ferrara, Luigi Marattin, la boccia come inconsistente.

    Giuseppe: Devo ammettere di non essere molto informato sul tema della decrescita. Però nessuno dei due dice cazzate. È vero, come dice Marattin, che il segno + davanti al PIL ci vuole, ma è anche vero, come dice Favia, che se fai un incidente e deve venire ambulanza, carrattrezzi, eccetera, il PIL cresce, ma non è che noi stiamo effettivamente meglio.. Credo il tema sia piuttosto complicato, non a caso ci sta lavorando Stiglitz.

    Tancredi: Sono sicuramente meno informato di te sul tema. Comunque sì, sono d’accordo con ciò che dici.

    Piero: Perché dovrebbe essere indiscutibilmente vero, ovvio ed evidente che «il segno + davanti al PIL ci vuole»? Io non ci trovo un minimo di questa verità, ovvietà ed evidenza.

    Giuseppe: Perché, ad oggi, rimane il miglior indicatore di cui disponiamo per misurare il benessere di un paese. Come dice Marattin nel video, il segno – davanti al PIL vuol dire licenziati, disoccupati e cassintregrati. Se poi vogliamo discutere del sistema malato, che non funziona, di diversi modelli di sviluppo economico, quello è altro conto. Allo stato attuale delle cose dovremmo sempre augurarci di avere il segno + davanti al PIL.

    Piero: Sinceramente mi auguro che si riesca a scardinare il sistema malato basato sulla necessità di avere sempre il segno + davanti al PIL. Proprio perché allo stato attuale di cose un PIL negativo significa licenziati, disoccupati, cassintegrati io penso che il mito del PIL sia un’arma dei padroni con cui questi possono ricattare il resto della società, come con lo spread e la morbosa ricerca di approvazione di scelte politiche da parte dei mercati, considerati come un’entità astratta ed impersonale. «Aboliamo l’articolo 18 altrimenti lo spread sale! Tagliamo le borse di studio, ce lo chiedono i mercati! Privatizziamo tutto o il PIL va in rosso!».
    La questione, per come la poni («allo stato attuale di cose»), sembra non potersi risolvere in alcuna alternativa al neoliberismo e al capitalismo finanziario, sembra che il fatto che il PIL debba essere sempre positivo sia una legge inconfutabile della natura. Allora io dico che non mi accontento di augurarmi un PIL in crescita allo stato attuale di cose, ma che voglio cambiarlo, lo stato attuale di cose. Non so se mi spiego.
    Eppoi esistono anche queste cose: http://www.benessereinternolordo.net/

    Scusa per i pensieri espressi confusamente.

    Tancredi: Se il segno più non vuol dire necessariamente incremento del benessere, il segno meno vuol dire disoccupazione. Se ciascuno di noi incominciasse a consumare solo i prodotti del proprio orto il PIL diminuirebbe, probabilmente aumenterebbe il nostro benessere (magari si tratta di prodotti biologici, poi diminuisce anche l’inquinamento) ma diminuirebbe quello di chi fino ad ora ha lavorato nel settore agricolo (che si trova senza lavoro).
    Se si fanno degli altri interventi e si trovano delle soluzioni a questa contropartita della diminuzione del PIL allora la cosa funziona, altrimenti, come dice Marattin più realisticamente, sarebbe meglio parlare di “conversione dell’economia”/“qualificazione della crescita”.

    Piero: Ma (molto riduttivamente e semplicisticamente) il lavoratore del settore agricolo che si trova senza lavoro non può anche lui coltivare come tutti gli altri? Immagina un attimo: tutti coltivano e chi non può coltivare ne riceve un po’ dagli altri, «todo para todos, nada para nosotros».

    Jack: Ragazzi non scordiamoci cosa diceva Toni Negri riguardo al fatto che possiamo lasciare alle macchine il lavoro alienante (me lo posso anche essere sognato, ma mi ricordo così).

    Giuseppe: Il PIL misura il valore totale (al netto dell’inflazione) dei beni prodotti durante l’anno da un paese. In altre parole, è una misura della produzione industriale. Ora, si può immaginare un mondo in cui si produce di meno, lavorando di più? Se la produzione cala, diminuisce anche il bisogno di forza-lavoro e, quindi, aumenta la disoccupazione. Personalmente, non riesco ad immaginare come si potrebbe avere più occupazione producendo di meno. Data questa premessa, il PIL è e resta un importante indicatore per la situazione economica di un paese e, qualsiasi modello di sviluppo abbiamo in testa non possiamo non preoccuparci dell’andamento del PIL.
    Il capitalismo resta ad oggi il miglior sistema economico che si sia riusciti ad attuare. È’ sicuramente pieno di difetti e aspetti “oscuri” ma ciò non toglie che si possa migliorare (ed è a questo che gli economisti lavorano, anche se qualcuno li immagina come degli stregoni malvagi pronti a tutto pur di conquistare il mondo). Anche la finanza rapprenta un miglioramento del capitalismo, contrariamente a quanto si possa pensare. Costituisce un ottimo strumento per la circolazione dei capitali e fornisce a tutti (non solo ai superpotenti) la possibilità di rimediare denaro più velocemente e facilmente per i propri investimenti. Anche la finanza poi è piena di difetti e se ha portato all’attuale crisi, è a causa di giochi di potere e dell’eccessiva innovazione che si è avuta in mancanza di regole e che ha portato alla creazione di strumenti semi-sconosciuti e pericolosi (vedi muti sub-prime, securisation, abs, cdo e via dicendo).
    Poi possiamo anche decidere di tornare ognuno a coltivare la propria terra, ma lo sviluppo e il progresso hanno un prezzo e, onestamente, a periodiche epidemia di colera o che altro, preferisco periodiche crisi finanziarie che, in un modo o nell’altro, si superano sempre.

    Piero: Mi sembra di capire che facciamo partire i nostri ragionamenti da basi troppo differenti e inconciliabili: io di sinistra, tu di destra.

    Se non riesci a immaginare come si possa avere più occupazione producendo di meno posso proporre un’idea: lavorare tutti e meno, la produzione globale del pianeta è di moltissimo superiore ai reali bisogni della popolazione mondiale. Per fare un esempio, c’è cibo a sufficienza per sfamare ben più dei 7 miliardi di persone, eppure quasi 2 miliardi soffrono cronicamente la fame. Lo sai perché? Grazie all’amato capitalismo e alla globalizzazione neoliberista, una manciata di multinazionali sottraggono terreno all’agricoltura di sussistenza sfruttandolo per piantagioni di té, tabacco e caffè, perché sono più produttive, competitive sul mercato globale e quindi «aumentano il PIL». Ma è più importante aumentare il PIL o dare da mangiare a milioni di famiglie espropriate della propria terra?

    E poi, gli aspetti “oscuri” del capitalismo e della finanza, la perfettibilità del sistema, l’elogio della finanza buona contro quei cattivoni degli speculatori che ci hanno portato all’attuale crisi. Questa storia che c’è un capitalismo cattivo e uno buono è un meme che si ripete come un mantra ogniqualvolta si metta in discussione la struttura intrinseca del modo di produzione, di accumulazione e di distribuzione attuali. Il capitalismo è intrinsecamente ingiusto, puoi provare a migliorarlo, ma con scarso, anzi scarsissimo successo. Questo era l’obiettivo dei partiti socialisti, riformisti e socialdemocratici di tutto il Novecento e dove ci hanno portato? A miliardi di morti di fame e ad un’isola di pace e prosperità (a dir la verità ultimamente neanche molto sicura) in un oceano di povertà e guerra.

    Con questo non propongo assolutamente di tornare ognuno a coltivare la propria terra, come qualche decrescitista e comunitarista dell’ultim’ora, nostalgico dei bei tempi andati del Medio Evo. Se è questo che hai capito dovrei scrivere molto di più fino a farmi venire l’artrite e la tendinite insieme, perché in sostanza e molto in breve, quello che propongo è la rivoluzione (e non perché sono un romantico o un utopista o un idealista o un pericolosissimo marxista rosso, che sono tutti appellativi con cui, se vuoi, puoi anche chiamarmi).

    Giuseppe: Sicuramente hai ragione nel dire che partiamo da basi differenti: io cerco di basarmi sui fatti, tu mi sembra più sulle ideologie. Scusa ma non mi prendo nemmeno la briga di rispondere alla tua prima frase. Certi argomenti mi sembrano fatti più di retorica che di logica.

    Demonizzare il capitalismo per intero basandosi sui suoi mali mi sembra un po’ ipocrita. La nostra democrazia ha tanti difetti e spesso ci lamentiamo di come non funzioni a dovere, eppure continuiamo a ritenerla il modello migliore e a cui tendere di giorno in giorno. Perchè allora alcuni aspetti negativi del capitalismo, dovrebbero rendere tutto il capitalismo stesso un sistema marcio?
    Le ruberie e le devastazioni delle grosse multinazionali nei paesi del terzo mondo rappresentanto sicuramente uno dei mali del capitalismo, ma ciò è dovuto più alla mancanza di regole e, spesso, alla complicità dei governi di quei paesi, più che all’ingiustizia intrinseca del capitalismo. L’Italia e i paesi occidentali sono costellati di multinazionali, eppure non mi sembra che noi facciamo la fame.

    Su quali basi affermi che il capitalismo sia “intrinsecamente ingiusto”? Se ci ispiriamo ai principi, quelli del capitalismo mi sembrano anche preferibili: il merito viene premiato, il denaro ripaga i tuoi sforzi, per cui “chi fa di più avrà di più”; mi sembra molto meglio che “chi fa di più avrà quanto gli altri”, indipendentemente dagli sforzi. L’uguaglianza va garantita nei punti di partenza, nelle capacità potenziali, non nel punto di arrivo. So bene che la realtà del capitalismo attuale è ben diversa e spesso succede tutto il contrario di quel che dovrebbe, ma d’altronde non mi pare che nell’URSS (o in altri paesi che hanno sperimentato sistemi di produzione comunista/socialista) tutti fossero felici e contenti, anzi. Mi dirai che non si è mai avuta una vera forma di comunismo nella storia, ti posso rispondere con la stessa argomentazione che non si è mai avuta una forma di capitalismo perfetto, ma possiamo sempre provare ad avvicinarci un po’.

    Facciamo la rivoluzione, e poi? In cosa consisterebbe questa rivoluzione? Cosa dovrebbe venire dopo? Il mondo delle favole è bello e attraente, ma la realtà, purtroppo, è tutta altra cosa.

    Piero: Ho riletto diverse volte la mia prima frase per cercare che cosa la rendesse poco logica. Ho avuto scarso successo, quindi ignorerò anche io questa sottile arroganza.

    Tu dici «io cerco di basarmi sui fatti, tu mi sembra più sulle ideologie»; mi sembra di aver riportato alcuni fatti, come i monopoli della distribuzione alimentare e i tentativi storici fallimentari di indirizzare socialmente il capitalismo. Che questi siano fatti è innegabile, come è innegabile che per argomentare la mia posizione io mi sia basato su di essi. Non capisco quindi perché dici che non mi baso sui fatti ma sull’ideologia. Cosa intendi per ideologia? Per me è uno strumento di interpretazione della realtà, quindi non è da contrapporsi ai fatti. Se hai intenzione di rispondere che è necessario abbandonare l’ideologia per basarsi sui fatti oggettivi, metto le mani avanti dicendo che ritengo che ciò sia impossibile: i fatti, comunque vada, qualunque sia la loro natura, vanno interpretati e la interpretazione che se ne dà costituisce l’ideologia; abbandonare l’ideologia significa abbandonare l’interpretazione dei fatti, il che a mio parere non è una cosa sensata. Ovviamente va da sé che questo discorso vale soltanto se per ideologia io ho inteso ciò che tu intendevi.

    Tu dici: «la nostra democrazia ha tanti difetti […] eppure continuiamo a ritenerla il modello migliore e a cui tendere di giorno in giorno. Perchè allora alcuni aspetti negativi del capitalismo, dovrebbero rendere tutto il capitalismo stesso un sistema marcio?»

    Personalmente (ma non è vero che tutti, indistintamente, ritengono la democrazia il modello migliore: chiediamolo agli anarchici individualisti, ai fondamentalisti islamici, ai nostalgici fascisti. Come vedi, ci sono delle minoranze non democratiche), io credo che la democrazia sia la migliore forma decisionale e ciò nonostante gli innumerevoli difetti che ha e che, come dici, spesso ci troviamo a lamentare e denunciare. Perché: perché ritengo che i principi fondamentali della democrazia siano giusti.
    Contrariamente, ritengo che siano intrinsecamente ingiusti i principi fondamentali del capitalismo: proprietà privata dei mezzi di produzione, privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite, darwinismo sociale. Quindi non vedo come da parte mia respingere il capitalismo sia ipocrita. Semplicemente non è conciliabile con alcuni principi in cui mi riconosco.

    Tu dici: «l’Italia e i paesi occidentali sono costellati di multinazionali, eppure non mi sembra che noi facciamo la fame».
    Non facciamo la fame perché le multinazionali prendono le risorse ambientali rinnovabili e non rinnovabili dai “paesi poveri” e le portano nei “paesi ricchi”. L’illusione che il capitalismo possa far star bene interi popoli come quelli occidentali nasce nel momento in cui si considera un sistema di osservazione incompleto. Infatti, piuttosto banalmente, scegliendo come sistema l’occidente l’affermazione è vera: il capitalismo ha portato benessere alla maggior parte delle persone. Ma prendendo il mondo intero, si scopre ancora più banalmente che il capitalismo non porta al benessere della maggioranza, ma al benessere di una minoranza sulle spalle di una maggioranza povera e sfruttata. Non crea Stati di diritto, crea Stati di diritto *e* Stati dittatoriali fantocci degli Stati di diritto, e a lungo andare assoggetta tutti gli Stati, di diritto e non, al mercato e al grande capitale.
    Questa è la dura realtà, il mondo delle favole è pensare che il sistema capitalistico faccia stare tutti bene senza produrre sfruttati e crescenti divari sociali ed economici.

    Giuseppe: Della tua prima frase criticavo solamente quanto semplicisticamente ti affrettavi ad affermare “io sono di sinistra, tu di destra”, parole che hanno sempre meno significato, di questi tempi, in cui quello di cui abbiamo bisogno sono conoscenze tecniche, non ideologie. Un esempio? Alla domanda “Dovremmo introdurre un salario minimo per legge per certe categorie?”, credo che uno “di sinistra” si affretterebbe a rispondere che sì, assolutamente, si deve garantire un salario minimo. Tuttavia, se questo tizio “di sinistra” avesse studiato anche un po’ di economia, saprebbe che la soluzione non è così facile e che anzi, spesso, un salario minimo può essere controproducente per le aziende ed i lavoratori stessi.

    Per me è ideologica la tua contrapposizione a priori al capitalismo (quando ad esempio dici che esso è “intrinsecamente ingiusto”). Ideologia e idee sono due cose completamente diverse. L’ideologia è tutto il contrario delle idee: ne è l’annullazione. Credo che ognuno debba avere un proprio sistema di idee, sviluppandolo e modificandolo continuamente. Racchiudersi tra le strutture di un’ideologia, non mi pare molto diverso dall’aderire pienamente ad una religione ed accettarne tutti i dogmi: al pari delle religioni, le ideologie costituiscono oppio per la mente e il pensare critico.

    La proprietà privata dei mezzi di produzione e dei profitti si è rivelata storicamente l’unico modo di stimolare l’ingegno, l’investimento e, quindi, favorire la crescita e lo sviluppo. Senza un’adeguata remunerazione per gli sforzi sostenuti, quanti dedicherebbero la loro vita alla ricerca e allo sviluppo di nuove idee? (sì, ok, esiste gente buona, dal cuore tenero e dal profondo senso civico che lo farebbe per l’amore della ricerca, ma non prendiamoci in giro, siam realisti)
    A cosa dovrebbe portarci la rivoluzione di cui parli? Quale nuovo sistema dovrebbe instaurarsi, per renderci tutti felici? I fatti, hanno dimostrato che il capitalismo è il miglior sistema che si sia riusciti a creare finora. Credo non ci sia bisogno di commentare i fallimenti di sperimentazioni attuate in passato. Il comunismo si è rivelato un fallimento sia dal punto di vista pratico, che dal punto di vista tecnico-teorico (soprattutto come sistema di produzione).

    Nessuno qui ha mai parlato di un capitalismo perfetto, in grado di renderci tutti felici e spensierati. Il capitalismo va migliorato e questo va fatto anche ispirandosi a principi “di sinistra” (e questo è già successo, non è illusione, vedi nascita del Welfare State e dello Stato sociale). Non è un’illusione pensare che questo sistema si possa migliorare. L’illusione, semmai, nasce nel momento in cui si addossano al capitalismo tutte le colpe di questo mondo e si millanta una rivoluzione che d’un tratto cancellerebbe tutte le ingiustizie e le meschinerie dei più potenti. La realtà è un’altra cosa.

    Piero: Sinistra e destra hanno un loro significato, se poi esso è sfigurato dall’uso comune, dalle imposizioni culturali della classe dominante e dal martellamento quotidiano dei mass media, le parole non ne hanno alcuna colpa. Non ritengo assolutamente di doverlo spiegare, visto che studiando queste cose ne saprai più di me, ma ricordo che se cerco una definizione generica del termine “sinistra” trovo (su wikipedia inglese perché è il luogo più spersonalizzato possibile) «In politica, per sinistra si intende generalmente il sostegno al cambiamento sociale al fine di costruire una società con una struttura più egualitaria. Solitamente le politiche di sinistra comportano una preoccupazione per coloro che nella società sono svantaggiati rispetto agli altri e un’assunzione che esistano delle disparità ingiustificate (che la destra vede come naturali o tradizionali) che dovrebbero essere ridotte o abolite».
    Quando io scrivo di ritenermi di sinistra e di ritenerti di destra lo faccio basandomi su ciò che leggo nei miei e nei tuoi commenti, non è che lo dico per insultare, prendere in giro o altro: affermo ciò che per me è un’evidenza, ovvero che la tua posizione è di difesa del sistema capitalistico, che vive di disparità, e dunque è di destra. Non è peccato mortale, è solo la tua opinione, io la rispetto ed espongo la mia, precisando, all’inizio di questa, che partiamo da presupposti inconciliabili. Non è retorica, ma logica.

    Chiarito questo punto, non sono d’accordo sul fatto che competenze e conoscenze tecniche possano superare il binomio destra-sinistra (a proposito, se ne sta discutendo, piuttosto confusamente, in calce a questo articolo). La competenza dei governanti è necessaria, ma deve essere accompagnata da scelte politiche, anzi non può non esserlo: tutte le scelte spacciate per puramente tecniche nascondono intenti politici (espliciti o impliciti). Per esempio, se la scelta “tecnica” è di privatizzare i servizi, in realtà esegue i dettami di un’ideologia (quella neoliberista). Lo stesso si può dire del Tav o dei tagli allo stato sociale. Tagliare la formazione e lasciare intatti miliardi di spese militari è una scelta politica. Eccetera.

    Sul superamento delle ideologie, dico solo che generalmente chi fa questo discorso di contrapposizione tra idee e ideologie tende a considerare idee tutto ciò che fa parte dell’ideologia dominante (neoliberista, capitalistica) e ideologie tutto ciò che non ne fa parte. Quello che sto cercando di dire è che non può non esserci ideologia, perché l’ideologia è un modo di interpretare la realtà dei fatti. Cosa sono le idee, astrazioni slegate dai fatti senza alcuna pretesa di interpretarli?
    Propugnare il superamento delle ideologie significa di fatto sostenere un’ideologia del pensiero unico, in cui si accettano “le idee” (ovvero ciò che è conforme al sistema attuale) e si respingono “le ideologie”. A proposito, prendo una frase da questo mio scritto di tempo fa: «Vorrei informare chi crede alla favoletta della mano invisibile che il liberismo è un’ideologia, con le sue mitizzazioni e le sue idealizzazioni, come quella del self-made man, della crescita e delle missioni di pace, e con i suoi martiri, i suoi ideologi, i suoi eroi e le sue vittime».

    Tu dici: «Il capitalismo va migliorato e questo va fatto anche ispirandosi a principi “di sinistra” (e questo è già successo, non è illusione, vedi nascita del Welfare State e dello Stato sociale)»; ma lo Stato sociale si è dimostrato incompatibile, a lungo andare, con il capitalismo finanziario. Basta guardare com’è ridotta la Grecia e come sono ridotti quei paesi europei oggi, africani, asiatici e americani anche ieri, che hanno sperimentato l’attuazione del modello neoliberista e delle politiche di austerity, di tagli e privatizzazioni.

    Tu dici: «L’illusione, semmai, nasce nel momento in cui si addossano al capitalismo tutte le colpe di questo mondo e si millanta una rivoluzione che d’un tratto cancellerebbe tutte le ingiustizie e le meschinerie dei più potenti».
    Avevo previsto, già qualche commento fa, che si sarebbe arrivati a questo punto: tra gli appellativi che avevo proposto (“romantico, utopista, idealista, marxista”) non ne hai usato neanche uno ma il succo è quello.
    Tuttavia, nessuno sta millantando una rivoluzione che dovrebbe risolvere tutti i mali, bensì quelli connaturati all’attuale sistema di produzione. Né tanto meno dovrebbe risolverli d’un tratto. Prima mi hai chiesto «facciamo la rivoluzione, e poi? Cosa dovrebbe venire dopo?». Il punto è che la rivoluzione non è l’evento di rottura, è ciò che viene dopo. Non è l’abbattimento del sistema precedente, è la costruzione del sistema successivo. La Rivoluzione Francese è nel 1791, non nel 1789. Non so se mi spiego. Il capitalismo ha dei problemi che sono risolubili cercando di perfezionarlo, come dici, ma ha altri problemi che non sono risolubili che con la negazione di esso stesso.
    Detto questo, lasciami abbandonare questa serietà e abbracciare un po’ di umorismo: ma tu non eri un compagno?

  • La fine del collasso

    Propongo un’ultima carrellata di considerazioni tratte dal saggio di Jared Diamond intitolato Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, che recentemente mi ha fornito abbastanza materiale da scriverci su diversi articoli: un discorso sui beni comuni che ha dato vita ad un dibattito sulla loro gestione, un altro sull’ambientalismo e, di riflesso, sulla teoria della decrescita; una riflessione sull’insegnamento che può esserci dato dalla storia dell’isola di Pasqua e di come i suoi abitanti finirono col distruggerne le risorse provocando la fine della prospera civiltà, un’altra sulla fine dei norvegesi in Groenlandia accompagnata da una serie di parallelismi con i tempi moderni; il tutto non senza suscitare qualche perplessità.

    Prima di tutto, al capitolo “Business e ambiente”, in cui si cerca di spiegare che la cura dell’ambiente produce non solo benessere ma anche vantaggi economici a lungo termine, ci sono esempi di grandi imprese che adottano, in merito al rispetto dell’ambiente, comportamenti virtuosi e altre che ne adottano di disastrosi. Lasciando da parte la diatriba già nota dell’inconsistenza del frame che contrappone capitalisti buoni da capitalisti cattivi, propongo piuttosto una storia tra tante.

    «In Asia sudorientale e nelle isole del Pacifico, l’industria del legno è prevalentemente nelle mani di multinazionali: […] operano comprando dai governi il diritto di taglio su foreste appartenenti alla gente del luogo, esportano i tronchi grezzi e non ripiantano gli alberi abbattuti. […] Spesso avviene che le multinazionali ottengano i contratti offrendo bustarelle ai funzionari governativi, e poi passano a costruire strade e a tagliare alberi ben oltre i limiti dell’area effettivamente presa in affitto. In altri casi, le aziende inviano semplicemente una nave cargo, stipulano accordi veloci con le comunità locali, portano via tutto il legno che riescono ad arraffare e fanno così a meno del permesso governativo. […] Il permesso delle comunità locali si ottiene corrompendo i capivillaggio. […] Spesso fanno promesse che non saranno mantenute, come quella di ripiantare la foresta e di costruire ospedali. In alcuni casi ben noti, avvenuti nel Borneo, sulle isole Salomone e in altri paesi, quando le multinazionali sono arrivate sul posto con un permesso del governo centrale e hanno incominciato ad abbattere gli alberi, la gente locale, resasi conto che ci avrebbe rimesso, ha cercato di far cessare il taglio bloccando le vie d’accesso o incendiando le segherie; a quel punto, le imprese sono ricorse alla polizia o all’esercito per far rispettare i loro diritti. Gli oppositori vengono anche minacciati di morte».

    Mi rendo conto che questo breve resoconto non aggiunge nulla di nuovo a storie che già si conoscono (come quella di Ken Saro Wiwa, resa celebre dal brano del Teatro degli orrori, di cui ho parlato in questo articolo), ma ho voluto riportarlo per ricordare che queste pratiche non sono esattamente un’eccezione nel panorama del commercio e della finanza internazionale.
    [youtube http://www.youtube.com/watch?v=sIn3Z54fi5Q]

    La seconda considerazione è un avvertimento che invita a diffidare dei comportamenti virtuosi sbandierati fin troppo facilmente da tante grandi imprese di produzione e distribuzione. Tanto per dirne una, esiste una organizzazione internazionale (FSC) senza scopo di lucro, imparziale e indipendente, che ha lo scopo di stabilire i criteri per definire una strategia di gestione forestale corretta e di valutare se una determinata azienda si conformi a tali criteri, azienda che in tal caso riceve un certificato di conformità. Dopo la nascita, nel 1993, di questa certificazione, sono nate tantissime organizzazioni di controllo che rilasciano simili “bollini verdi”: la loro indipendenza e imparzialità, però, non è altrettanto assicurata. Infatti, non richiedono che la certificazione sia effettuata da terzi, ma permettono alle imprese di autocertificarsi; gli standard non sono esattamente quantificabili, ma molto più vaghi e aleatori; infine non è prevista alcuna certificazione della filiera, con il risultato che se una segheria certificata acquista prodotti non certificati questi diventano ufficilmente certificati. Insomma non tutti i bollini hanno lo stesso valore (ne approfitto per ricordarvi un articolo di Precaria Guerrilla).

    L’ultima considerazione, che ho scelto non a caso, è tratta dal capitolo “Perché i popoli fanno scelte sbagliate?”. Si tratta del pensiero di gruppo, definito (fonte Wikipedia) come «sistema di pensiero esibito dai membri di un gruppo sociale per minimizzare i conflitti e raggiungere il consenso senza una messa a punto, analisi e valutazione critica delle idee». L’esempio maggiormente studiato è quello della gestione da parte del presidente Kennedy e del suo staff della questione della Baia dei Porci, che si rivelò con conseguenze disastrose e dunque una scelta sbagliata. Secondo gli studi sociologici in merito, generalmente le caratteristiche di una deliberazione che porta a prendere scelte sbagliate sono una sensazione prematura di apparente unanimità, la repressione di dubbi personali, la mancata espressione di punti di vista contrari, un leader che conduce la discussione tendendo a minimizzare il disaccordo.

    Mi domando se lo stesso discorso può applicarsi anche ai governi tecnici.

  • Il pelo nell’uovo

    Come dice Nello, «Diamond è come il maiale, di lui non si butta niente».
    Nonostante questa caratteristica, che deriva dalla scientificità e dalla quantità di informazioni fornite dalla lettura dei suoi libri, mi è capitato di trovare tra le righe affermazioni poco scientifiche e più ideologiche, che ho ricondotto (per esempio nella prima parte di questo articolo) all’adesione “conformista” a frame di interpretazione e di comunicazione (ovvero del linguaggio): per esempio quando, senza motivarlo adeguatamente, ritiene il capitalismo un passo avanti nello sviluppo delle società umane. Questo non toglie valore ai contenuti di saggi come Armi, acciaio e malattie (1997) e Collasso (2004), ma dovrebbe mettere in guardia chiunque dal comprensibile e frequente fenomeno per cui si condividono le parole del Maestro acriticamente: l’ipse dixit è stato uno dei memi culturali che più hanno ostacolato lo sviluppo del pensiero scientifico nella storia.

    Vorrei riportare, tanto per la cronaca, un’altra posizione dettata dalla velleitaria ricerca dell’imparzialità che si rivela però solo apparente, in quanto ideologica: nel capitolo XIII sull’Australia, Diamond parla degli effetti deleteri dello sfruttamento agricolo di un territorio ecologicamente fragile come il continente in questione, che comprendono in particolare la salinizzazione, un esempio di degrado ambientale la cui gravità, anche in caso di recupero, può permanere per diversi secoli, e la deforestazione, che in Australia interessa soprattutto le specie vegetali autoctone.
    Secondo Diamond,

    c’è da dire che il paese possiede un buon livello d’istruzione, un benessere elevato e istituzioni politiche ed economiche sane, relativamente agli standard mondiali. Per questo, i problemi australiani non possono essere spiegati come il frutto di cattiva gestione ambientale, di una società incolta e disperatamente povera, e di un establishment corrotto e incapace, come potrebbe forse dirsi in altri casi.

    Tuttavia, andando avanti nella lettura, si approfondisce la questione della deforestazione ed emerge che

    l’incessante abbattimento delle foreste antiche sta causando un acceso dibattito. I due maggiori partiti politici australiani, a livello sia statale sia federale, appoggiano il disboscamento. Nel 1995 il National Party ha annunciato il suo sostegno all’industria del legno in Tasmania, e poco dopo si è venuto a sapere che i tre maggiori donatori di fondi al partito erano tre società del settore.

    Considerando che questo è solo un esempio dei tanti che è possibile fare e che sono documentati in innumerevoli siti internet, saggi (questo compreso) e organi di informazione, direi che sì, i problemi ambientali dei paesi con «un buon livello d’istruzione e benessere elevato» in tantissimi casi sono determinati proprio da una cattiva gestione e da un establishment corrotto, che mette i beni comuni a disposizione degli interessi di pochi e che permette il controllo delle “istituzioni democratiche” da parte di gruppi di potere. Questa non è meno corruzione di quella del Ruanda o di Haiti.
    P.S. Sì, sono polemico e cerco il pelo nell’uovo. Buona lettura!

  • Occupy Affari, la Bocconi e i sassi

    Oggi una manifestazione nazionale a Milano raccoglierà tutte le forze contrarie alle politiche di austerità del governo Monti. Il percorso del corteo doveva originariamente partire dalla Bocconi per terminare di fronte alla borsa italiana, in Piazza Affari. Ma ciò, spiega Cremaschi, «non ci è stato permesso; mi ricorda quando c’era Berlusconi e a Roma si poteva manifestare ovunque ma non davanti a Palazzo Grazioli. Evidentemente la Bocconi è considerata casa di Monti».

    Prima della manifestazione verrà portata una corona di fiori in memoria di Roberto Franceschi, studente ucciso durante le proteste che scoppiarono la sera del 30 gennaio 1973 in seguito alla decisione del rettore dell’università di impedire l’accesso alle assemblee studentesche serali a tutti coloro sprovvisti di libretto universitario: infatti, per garantire il rispetto di tale scelta, il rettore chiamò la celere, che circondò l’università, respinse gli studenti raccolti all’ingresso e non esitò a sparare ad altezza uomo, dunque in mezzo alla folla, mentre questi ultimi si allontanavano. Roberto fu colpito alle spalle, come Roberto Piacentini, mentre fuggiva dalla violenza dello sgombero. Non riprese mai più conoscenza.

    La prima versione della Questura fu che il giovane era stato colpito da un sasso lanciato dai giovani contestatori. Vi ricorda qualcosa?

    Caduta questa versione, le indagini si rivolsero verso gli agenti. La Questura, sulla base del rapporto del colonnello Arcangelo Scarvaglieri, avanzò la versione dell’agente in preda a raptus: affermò infatti che l’agente di PS Gianni Gallo avrebbe sparato in stato di semi-incoscienza. Ma tu pensa un po’. In quel periodo dovevano esserci tanti agenti semi-coscienti; che fosse una malattia endemica non ancora diagnosticata?

  • L’ambientalismo non basta: il caso di Balaguer

    Chi ha letto Diamond e conosce il suo stile oggettivo e imparziale, quello dello scienziato che disseziona la realtà e cerca di spiegarla senza pretese giustificazioniste, sa bene di non doversi aspettare troppe divagazioni politiche in senso stretto nei suoi libri. Trattando di popoli, modelli culturali, economici e sociali, di sistemi politici dai più egualitari ai più autoritari e dittatoriali, si trova spesso a scrivere di regimi: non c’è una volta che lasci trapelare quale sia il colore di questi regimi. Per esempio, leggendo il capitolo di Collasso sul genocidio dei tutsi, devi cercartelo per conto tuo che in Rwanda, ai tempi del massacro degli anni Novanta, c’erano di mezzo i fascisti del Hutu Power.

    L’espediente letterario è sensato o perlomeno legittimo: Diamond ha operato una scelta nella sua analisi, ovvero quella di prediligere gli aspetti ambientali e di sfruttamento delle risorse naturali del territorio, e dunque resta coerente occupandosi esclusivamente di tali aspetti, senza sbilanciarsi sul resto. Che gli hutu estremisti fossero organizzati in squadre fasciste paramilitari poco importa ai fini della valutazione degli effetti che hanno avuto sull’ambiente in cui vivevano. Condivisibile o meno che sia, questo è il ragionamento seguito da Diamond.

    Per questo motivo, sono rimasto sorpreso quando, a pagina 358 di Collasso, al capitolo XI, ho letto per la prima volta la parola «capitalismo». In realtà, trattando di economia in generale e dunque anche negli ultimi secoli, fin dal primo capitolo si parla di capitalismo, senza però menzionarlo. Questa inaspettata comparsa si ha nello stralcio seguente, a conclusione del paragrafo su Joaquín Balaguer, complice per trent’anni del dittatore Trujillo e poi autoritario presidente dominicano per decenni, fino al 1996:

    Nel 1961, dopo l’assassinio di Trujillo, molto politici dominicani avrebbero potuto essere validi presidenti, ma nessuno di loro aveva, neanche in minima parte, l’esperienza pratica di Balaguer. Quasi tutto concordano sul fatto che riuscì a far nascere un abbozzo di capitalismo e un vero ceto medio, e in generale a modernizzare e rafforzare il paese. Grazie a questi risultati, molti dominicani sono disposti a chiudere un occhio sulla sua tirannide.

    Non è la prima volta che Diamond, nella sua tradizionale imparzialità, si lasci sfuggire giudizi politici ideologici e non più scientifici. Nello stesso capitolo assume uno strano atteggiamento riguardo la nascita di Haiti nel 1804

    Gli ex schiavi ribattezzarono il loro paese Haiti e si diedero a massacrare i bianchi e a distruggere le piantagioni. Le terre furono ridistribuite e suddivise in piccoli appezzamenti a gestione familiare. Anche se questa soluzione era più equa rispetto al sistema precedente, a lungo andare si dimostrò disastrosa per l’economia, perché la produttività calò e le esportazioni diminuirono. Tragica fu anche la perdita di risorse umane, per l’uccisione di gran parte della popolazione bianca e l’emigrazione dei pochi sovravvissuti.

    o riguardo il neonato consumismo della Repubblica Dominicana, criticato esclusivamente per il fatto che «l’economia dominicana ancora non riesce a sostenerlo».

    La spiegazione più plausibile, secondo me, è che Diamond, sulla cui onestà intellettuale non nutro dubbi, si sia lasciato sfuggire alcune opinioni che rientrano nei vari frame tipici della nostra epoca e della nostra società: del resto, nessuno può essere assolutamente obiettivo. Insomma, non credo che queste dichiarazioni siano camuffate in malafede.

    Tenendo da parte queste considerazioni, l’aver tirato in ballo il dittatore Trujillo e il suo successore Balaguer ci permette di farne delle altre, a proposito dell’ambientalismo: Joaquín Balaguer, infatti, era uno strenuo difensore della causa ambientalista, in un momento storico in cui essa non si era ancora affermata né era efficacemente strutturata (si tratta di un periodo che inizia già agli inizi degli anni Sessanta).

    Rafael Trujillo governò la Repubblica Dominicana dal 1930 al 1961, anno della su uccisione avvenuta forse con l’assenso o l’aiuto materiale della CIA. Il dittatore gestì il paese come se fosse un’azienda privata, ottenendo consensi attraverso il culto della personalità e cercando di ricavarne il massimo profitto: a tal fine, però, andava posto il problema dell’esaurimento delle risorse in un territorio, come quello dominicano, che per secoli aveva subito uno sfruttamento eccessivo e che rischiava la deforestazione, la perdita di fertilità, la salinizzazione dei suoli e la loro erosione, processi che erano già preoccupantemente in atto e che alcune organizzazioni cittadine locali avevano già cercato di limitare prima della dittatura. Per questo il regime finanziò un vasto programma di recupero, che prevedeva l’importazione dall’estero di gas, la costruzione di dighe per la produzione di energia idroelettrica e la protezione delle poche foreste rimaste: tutti provvedimenti volti a evitare l’abbattimento degli alberi.

    Con la morte di Trujillo, i terreni pubblici incominciarono a essere occupati e le foreste a essere bruciate per ricavarne terreno agricolo: iniziò così un periodo di abbattimento delle foreste a ritmi forsennati, che non furono rallentati neanche dai tentativi del nuovo governo, democraticamente eletto, di regolamentare le attività, dato che i grandi proprietari terrieri riuscirono a farlo cadere.

    Nel 1966 fu eletto presidente Balaguer, per decenni al servizio del precedente regime coprendo importanti posizioni di comando. Le politiche ambientali di Balaguer furono più drastiche di quelle di Trujillo, ma mentre quest’ultimo cercava un tornaconto, giacché aveva valutato il potenziale commerciale del legno e aveva fatto in modo di eliminare la concorrenza, il primo sembrava disinteressatamente convinto della necessità di proteggere il territorio (ciò è testimoniato dal fatto che fece distruggre delle ville appartenenti a suoi amici, perché si trovavano in aree protette): vietò il taglio del legno a scopi commerciali, fece chiudere le segherie, affidò all’esercito il compito di far rispettare le leggi ambientali, attraverso sorveglianza aerea e operazioni a tappeto (durante una delle quali furono uccise dieci persone), dichiarò l’abbattimento degli alberi un crimine contro la sicurezza nazionale.

    Per ridurre la domanda di legno locale, scoraggiò la produzione e l’utilizzo di carbone e promosse l’importazione di gas naturale estero, regalando poi ai cittadini bombole di gas e stufe per agevolarne l’uso.

    Ampliò le riserve naturali e istituì i primi parchi costieri, protesse le zone umide, dichiarò inviolabili gli argini dei fiumi, vietò la caccia per dieci anni, tassò pesantemente le attività minerarie inquinanti, cercò di combattere l’inquinamento atmosferico e il mancato trattamento dei rifiuti industriali.

    I fini di tutela ambientale prevalevano per Balaguer sullo sviluppo direttamente economico, anche a costo di rinunciare ad infrastrutture: bloccò la costruzione di strade, aeroporti e porti.

    Insomma, la Repubblica Dominicana sarebbe stata un paradiso per gli ambientalisti e i decrescitisti.

    Non fosse che Balaguer si era macchiato di complicità nei precedenti trent’anni di regime, che ricorse alla violenza e all’intimidazione per vincere le elezioni, permise il dilagare della corruzione, organizzò squadracce criminali che assassinarono migliaia di esponenti dell’opposizione, scacciò i poveri senza terra dai parchi nazionali, diede l’ordine di uccidere chi fosse colto in flagrante nell’atto di tagliare un albero.

    Una decrescita non proprio felice, eppure il programma era decrescitista ante litteram.

    La morale della storia? Sta scritta nel titolo.

  • Scialuppe di salvataggio

    Com’è ormai consueto ultimamente, propongo un brano tratto da Collasso di Jared Diamond, di cui ho già parlato (qui e qui). Segue dibattito, spero di iniziarlo bene una volta che avrò messo in ordine i miei pensieri.

    […] In breve, i norvegesi esaurirono, senza volerlo, le risorse ambientali da cui dipendevano, tagliando gli alberi, asportando le zolle di torba, lasciando pascolare gli animali più di quanto il territorio potesse sopportare e provocando l’erosione del suolo. Le risorse naturali della Groenlandia di per sé, combinate con la variabilità del clima, erano appena sufficienti a sostenere una società europea che vivesse di pastorizia. […]Immagine

    È probabile che quando una fattoria povera si trovasse ridotta alla fame per la scomparsa di tutto il bestiame, i suoi abitanti si spostassero nelle fattorie migliori, dove entravano con le buone o con le cattive.

    L’autorità dei preti e dei maggiorenti sarebbe stata riconosciuta e rispettata soltanto a condizione che costoro, per volontà di Dio, proteggessero tutta la comunità. Ma la fame e le malattie fecero crollare la fiducia della popolazione nelle autorità religiose e civili, proprio come era accaduto 2000 anni prima con la peste di Atene, secondo quanto racconta Tucidide nel suo terrificante resoconto. La gente affamata si riversò su Gardar in gran numero, e le autorità, travolte, non poterono impedire che la folla macellasse le ultime mucche e pecore rimaste. Le provviste, che sarebbero forse bastate a mantenere in vita i residenti della fattoria, se tutto il vicinato non vi si fosse riversato in massa, furono interamente consumate nel corso di quell’ultimo inverno, in cui tutti cercavano di saltare a bordo dell’ultima, sovraccarica scialuppa di salvataggio, mangiando cani, animali appena nati e gli zoccoli delle mucche.

    Questa situazione ricorda i fatti di Los Angeles, al tempo dei disordini seguiti al caso Rodney King. L’assoluzione degli agenti incriminati di aver brutalmente malmenato un malcapitato di colore scatenò lo sdegno di migliaia di abitanti dei quartieri poveri, che si riversarono nelle strade distruggendo negozi e saccheggiando i quartieri ricchi.

    Il loro numero superava di molto quello dei poliziotti, che non poterono far altro che sbarrare con dei cordoni le strade che conducevano ai quartieri ricchi, nel vano tentativo d’impedirne l’accesso ai saccheggiatori.

    Oggi assistiamo sempre più di frequente a fenomeni simili su scala globale: gli immigranti provenienti dai paesi poveri si riversano a fiotti sul battello di salvataggio rappresentato dai sovrappopolati paesi ricchi, e i controlli alla frontiera sono incapaci di arrestare questo flusso, proprio come le autorità di Gardar o i cordoni di Los Angeles. Stanto così le cose, sarebbe sbagliato liquidare il caso dei norvegesi in Groenlandia come la storia di una piccola società remota vissuta in un ambiente fragile, irrilevante per la nostra ben più vasta e solida civiltà.

  • «Tutti gli uomini hanno due occhi»

    Immaginatevi una persona. Sì, una persona qualunque: non importa il sesso, l’etnia, le origini, il credo religioso o il colore degli capelli. Una persona qualunque, che sta lì davanti a voi e pronuncia distintamente la seguente affermazione: «Tutti gli uomini hanno due occhi».
    Saranno tutti d’accordo, innegabilmente, sul fatto che il contenuto dell’affermazione è generalmente corretto (tolta qualche rara eccezione), nel senso di aderente alla realtà dei fatti.
    Aggiungiamo ora dei dettagli alla situazione: questa persona qualunque sta correndo, e mentre corre pronuncia l’affermazione che abbiamo già avuto occasione di riportare: «Tutti gli uomini hanno due occhi». Il contenuto dell’affermazione è cambiato? No. Il suo grado di aderenza alla realtà è cambiato? No. L’affermazione si rivela, dunque, corretta a prescindere dall’azione compiuta da chi la pronuncia.
    Aggiungiamo ancora qualcosa: un contesto. Questa persona sta correndo nel bosco perché è in fuga da qualcuno, e mentre corre urla «Tutti gli uomini hanno due occhi». Cambia qualcosa nel contenuto della sua affermazione? No. Il suo grado di aderenza alla realtà è cambiato? Di nuovo no. E non sarebbe cambiato nemmeno se questa persona fosse stata inseguita non da qualcun altro ma da un rinoceronte, un unicorno o da un prodotto della sua fantasia.
    Abbiamo capito quindi qualcosa: che l’aderenza del contenuto di un’affermazione alla realtà si misura attraverso il confronto con la realtà, poco importa l’identità di chi afferma. Tanto che questa persona è una persona qualunque e ciascuno se la sarà immaginata in una maniera diversa, eppure tutti siamo d’accordo sul fatto che non si sta sbagliando quando afferma che «Tutti gli uomini hanno due occhi».
    Bene, ora sostituite la frase «Tutti gli uomini hanno due occhi» con «La TAV è un’opera inutile» e immaginate la persona qualunque come volete, seduta, che cammina, che corre, che lancia un sasso e carica la polizia o che prende manganellate e scappa dalla polizia. Il grado di aderenza della sua affermazione alla realtà dipenderà dalla realtà, non dalla violenza praticata o ricevuta. Non è la violenza che determina se il contenuto di una frase o di un’idea è vera o falsa.

    NO TAV!