Blog

  • Caro Latouche, questo si chiama capitalismo!

    Articoli correlati: Sviluppo sostenibile: un ossimoro

    Si può scrivere un libro che parla sostanzialmente di economia, con contenuti fortemente critici nei confronti del capitalismo, senza mai scrivere la parola «capitalismo»?

    Ne avevo il sentore, ma ora che ho letto Come sopravvivere allo sviluppo di Serge Latouche (2005, Bollati Boringhieri) posso confermarlo: è possibile e tale libro ne è un esempio. Il sottotitolo recita: Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa. L’opera si pone quindi tradizionalmente il duplice obiettivo di decostruzione dell’esistente e di costruzione dell’alternativa: la pars destruens deve cominciare da ciò che Latouche definisce una «sovversione cognitiva» (la radicale messa in discussione del concetto di sviluppo), «premessa e condizione di qualsiasi cambiamento politico, sociale, culturale».

    La critica del concetto di sviluppo, come è noto per chi sa che Latouche è considerato il più influente sostenitore della teoria della decrescita, si basa sulla limitatzza delle risorse in un mondo finito e la conseguente impossibilità di crescita come dogma su cui imperniare un modello duraturo di società.

    L’autore si spinge oltre la critica del semplice sviluppo, e mette in luce la fallacia e l’assurdità dei cosiddetti «sviluppi particolari»: sviluppo sostenibile, sviluppo umano, sviluppo sociale, sviluppo locale e così via, tutti in realtà riconducibili, in un modo o nell’altro, a criteri di natura economica e culturale esclusivi del mondo occidentale e industrializzato e dunque non universali, né di conseguenza esportabili senza distruggere ciò che non si adatta ai parametri occidentali.

    Si parla della menzogna neoliberista del trickle down effect, che è il nuovo nome dato alla teoria della mano invisibile, secondo cui favorendo gli interessi dei ricchi si favoriscono gli interessi di tutti, la quale idea è sistematicamente smentita dai fatti. Se nel 1960 il 20% più ricco del mondo era 30 volte più ricco del 20% più povero, il divario è aumentato a un rapporto 60:1 nel 1990, crescendo ancora a 1:74 nel 1997, in piena realizzazione delle politiche neoliberiste del Fondo Monetario Internazionale. Oggi le tre persone più ricche del mondo guadagnano ogni anno più dei 48 paesi più poveri messi insieme, e allo sviluppo dei paesi poveri si ha rinunciato, preferendo piuttosto degli aggiustamenti strutturali ovvero «piani di austerità imposti dal FMI per ristabilire la solvibilità dei paesi indebitati proprio a causa di progetti di sviluppo illusori».

    L’idea di Latouche è in linea con l’opinione di un suo collega e amico, Gilbert Rist, che paragona il concetto di sviluppo a una stella morta, «che si è già spenta ma di cui continuiamo a vedere la luce»: perché il sogno dello sviluppo è stato smentito dalla realtà, in cui la mano invisibile non esiste e il trickle down effect è solo un pretesto del FMI e del cosiddetto Nord del mondo per imporre politiche di austerità al cosiddetto Sud del mondo. Non solo lo svilluppo è fallito, ma anche lo sviluppo sostenibile è una menzogna (per motivi di cui ho già parlato, ma prima di aver letto Latouche), anzi l’espressione stessa è un ossimoro, in quanto lo sviluppo implica la crescita illimitata, laddove la sostenibilità implica l’adeguamento dei tempi di produzione alle capacità di carico degli ecosistemi e dunque una crescita nulla.

    Del resto, fa notare Latouche, bisogna diffidare delle opinioni in materia economica che trovano approvazione unanime, perché probabilmente sono «parole plastiche» che ciascuno riempie con i contenuti che più gli sono consoni. Il socialista August Bebel, amico di Marx, si chiedeva quale idiozia avesse potuto dire ogni volta che al Reichstag la borghesia lo applaudiva. È partendo da questa considerazione che l’autore critica anche il movimento altermondialista (o almeno una sua componente), reo di continuare a proporre progetti di sviluppo sostenibile, sociale, umano, ecocompatibile noncurante del fatto che il problema è il concetto stesso di sviluppo, a prescindere dall’aggettivo qualificativo che lo segue: anche gli altermondialisti peccano di «sviluppismo», viene rivelato al lettore (ma va? e io che pensavo che il pensiero unico non fosse, appunto, unico) e ciò fa ovviamente comodo al FMI e alle multinazionali, che firmano appelli e manifesti per lo sviluppo sostenibile, e ai politici occidentali, che creano ministeri con quel nome: i più grandi sostenitori dello sviluppo sostenibile sono i più gandi inquinatori e i loro complici.

    In tutto questo, circa un centinaio di pagine, Latouche non scrive mai la parola «capitalismo». Due volte ricorre l’aggettivo «capitalistico» e una sola volta si parla di «capitalisti», mentre le ripetizioni di «capitale» si possono contare sulle dita di una mano, e ciò è comprensibile considerato che il concetto può essere usato in un’accezione piuttosto ampia (capitale naturale, capitale umano) sebbene comunque riconducibile ad una visione capitalistica.

    Vediamo però cosa intende dire quando parla di «sviluppo».

    «…lo sviluppo economico, lanciato da Harry Truman nel 1949 per permettere agli Stati Uniti di impadronirsi degli ex-imperi coloniali europei a impedire ai nuovi Stati indipendenti di cadere nell’orbita sovietica.»

    «…l’esperienza occidentale di decollo dell’economia, così come si è realizzato a partire dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750-1800…»

    «il contenuto implicito o esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l’accumulazione di capitale, concorrenza senza pietà, crescita senza limiti delle diseguaglianze, saccheggio sfrenato della natura»

    «lo sviluppo può essere definito come un processo che porta a mercificare i rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e la natura. Lo scopo è sfruttare, valorizzare, ricavare profitto»

    «è lo sviluppo che domina il pianeta da tre secoli a provocare emarginazione, sovrappopolazione, povertà…»

    «…lo sviluppo non può non produrre l’ingiustizia sociale…»

    «lo sviluppo ha distrutto il locale concentrando sempre di più i poteri industriali e finanziari»

    «…forme di redistribuzione sono la bestia nera degli sviluppisti»

    «i sistemi di protezione contro la povertà, in particolare la “solidarietà comunitaria”, vengono considerati come ostacoli, freni, resistenze allo sviluppo…»

    «con lo sviluppo, il prezzo che si paga sul piano sociale e umano è enorme. Negli anni settanta erano considerate cose “normali” la dittatura, il partito unico, il regime poliziesco, le detenzioni arbitrarie, la tortura o i desaparecidos, se servivano a realizzare il controllo sociale necessario per l’accumulazione “primitiva”»

    «non esiste altro sviluppo che lo sviluppo: è inutile cercarne uno migliore, perché in teoria quello che abbiamo va già bene»

    Insomma, con sviluppo ci si riferisce alla crescita economica, allo sfruttamento di risorse umane e naturali, alla mercificazione di cose, persone e relazioni, alla disuguaglianza sociale, al predominio dell’economia sulla politica, alla concentrazione dei capitali e dei poteri, a un sistema sociale nato in Inghilterra alla fine del Settecento e di cui gli Stati Uniti sono portabandiera… ma caro Latouche, questo si chiama capitalismo!

    Perché questa opera di meticolosa autocensura? Personalmente ho come l’impressione che Latouche abbia paura di esplicitare il proprio anticapitalismo. Pur di non scrivere la parola, inventa delle perifrasi o dei neologismi, come «sviluppismo», «sistema tecnoeconomico», «egoismo dei possidenti», «ricerca del profitto», «corsa al profitto». Biasima chi usa lo sviluppo sostenibile per mascherare ideologicamente lo sviluppo, ma usa lo sviluppo per mascherare ideologicamente il capitalismo.

    Insomma, mi sembra che l’opera demistificatoria di decolonizzazione dell’immaginario auspicata nel sottotitolo sia compiuta solo a metà: da un lato si smonta il dogma della crescita e si mostra la fallacia del concetto di sviluppo, dall’altro lo si fa attraverso un’operazione di mistificazione.

    Sulle proposte di decrescita (in verità solo accennate negli ultimi due capitoli) mi riservo di scrivere la prossima volta. Nel frattempo, il dibattito è aperto.

  • Indignados di Spagna, un articolo di Adbusters

    Traduco e riporto un breve articolo pubblicato su Adbusters, associazione no-profit e agenzia di informazione indipendente, ambientalista, anticonsumista e anticapitalista canadese, famosa per aver lanciato l’idea di un’occupazione simbolica di Wall Street lo scorso settembre dando così origine al movimento Occupy (a proposito consiglio il numero di E-ilmensile di questo mese, incentrato su un’inchiesta dal titolo Occupy America che comprende un’intervista a Tom Morello, che beffardo propone: «se Obama chiude Guantanamo, è quello il posto per i responsabili dei crimini economici. Gli mettiamo una bella tutina arancione e gli facciamo ascoltare i Rage Againt the Machine tutto il giorno»).

    Marta Sánchez su ROARmag.org scrive che una “rivoluzione silenziosa” basata su tre innovazioni tattiche sta emergendo in Spagna dall’entroterra sociale. Ecco alcune delle sue intuizioni più profonde:

    –La decentralizzazione del movimento

    Al termine del maggio 2011, il neonato movimento 15-M doveva trovare un modo per continuare a vivere aldilà dell’occupazione di Plaza del Sol. Così prese piede l’idea di decentralizzare il movimento verso i quartieri: le iniziative “toma los barrios” (prendere i quartieri) hanno supportato e favorito la creazione di assemblee in ogni quartiere di Madrid. In tal modo, il movimento è divenuto locale: dalla creazione di quelle assemblee, il 28 maggio 2011, ne sono fiorite circa altre 120.

    –La comparsa di nuove iniziative sociali

    Una delle più fortunate azioni del movimento 15-M che le assemblee di quartiere hanno contribuito a coordinare è la campagna “stop desahucios” (blocca gli sfratti). Dall’anno scorso circa 200 sfratti sono stati evitati. Intanto, l’assemblea del quartiere Concepción, nel nordest di Madrid, ha una delle più grandi e meglio organizzate “banche del tempo”, coordinata via internet. Gli abitanti del quartiere possono creare un profilo online in cui condividono informazioni sui servizi che sono in grado di fornire, ed entrare in contatto con persone che offrono servizi di loro interesse. La transazione è conclusa tra l’uno e l’altro e se sorgono problemi è prevista una commissione di mediazione. Il tutto senza denaro.

    –Un nuovo clima sociale

    Come ha espresso l’assemblea popolare di Algete su Twitter, “stavamo dormendo, ci siamo svegliati e ora abbiamo un’insonnia cronica”. Il filosofo Amador Fernández-Savater si spinge oltre e dichiara che il movimento 15-M ha aperto un “nuovo stato mentale”.
    Una silenziosa interconnessione di menti ha luogo ogni settimana in tutta la città, nelle piazze e in rete. Ciononostante, i media si ostinano a insistere che il movimento sta perdendo forza. Stiamo assistendo alla comparsa di una economia parallela, alternativa, sotterranea. Ciononostante, chi ha il potere resta cieco a questo. Come dice il politologo Carlos Taibo, “vediamo costantemente come i media dichiarino che il 15-M è morto. E mi sono reso conto che è meglio non replicare: meno conoscono della realtà del movimento, più saranno sorpresi quando emergerà dall’invisibilità”.
    Il movimento degli indignados si è spinto oltre la protesta: è riuscito ad alterare l’immaginario collettivo e l’atmosfera politica alle sue radici più profonde. Ha generato un processo di ripoliticizzazione della società.

  • Sviluppo sostenibile: un ossimoro

    In questo articolo dal titolo volutamente provocatorio intendo raccogliere alcuni appunti sparsi sul concetto di sviluppo sostenibile, sempre più in voga con la diffusione delle idee ambientaliste, altermondialiste e infine decrescitiste. In breve, secondo le correnti maggioritarie di questo tipo di movimenti e scuole di pensiero, è possibile conciliare lo sviluppo economico con il rispetto dell’ambiente.

    Innanzitutto, mi sembra che si faccia molta confusione. Io non sono un esperto di economia, ma noto che affermazioni simili non si curano di distinguere tra sviluppo e progresso: per dirla con Pasolini, che tanti amano citare per le sue considerazioni sui «proletari in divisa» ma in pochi ricordano per quelle sul consumismo, «questo sviluppo è la produzione intensa, disperata, ansiosa, smaniosa di beni superflui mentre il progresso è la produzione di beni necessari». Parlare di “sviluppo sostenibile”, senza specificare che cosa si intende per “sviluppo”, specialmente in un’epoca in cui la classe dirigente giustifica le proprie scelte attraverso un’imposizione violenta del pensiero unico mediata soprattutto dal linguaggio, può essere fuorviante e rischioso, perché in tali condizioni non specificare significa accettare la posizione dominante (in questo post scrivevo che «è più facile che un contenitore vuoto sia riempito da ciò che è abbondante»).

    [youtube=http://www.youtube.com/watch?v=pg8cdmTusHk]

    E la posizione dominante ovviamente è quella che predilige l’aspetto economico dello sviluppo e lo identifica con la crescita economica. Crescita dei profitti prima di tutto: diritti, benessere, socialità, insomma qualità della vita sono accessori compresi solo se il loro incremento è possibile senza compromettere la crescita economica.

    Iniziamo quindi a mettere i puntini sulle “i” e chiamiamo lo sviluppo sostenibile con più chiarezza: “sviluppo economico sostenibile”.

    Ora, il concetto della sostenibilità ambientale risale agli inizi degli anni Settanta, quando il Club di Roma, circolo di scienziati, economisti, attivisti e politici, pubblicò il famoso Rapporto sui limiti dello sviluppo, ovvero uno studio scientifico in cui per la prima volta si riconosceva che, se i tassi di sfruttamento delle risorse, crescita demografica, inquinamento si fossero mantenuti costanti, entro un secolo al massimo si sarebbero verificate (non necessariamente in contemporanea) una serie di crisi dovute alla finitezza delle risorse.

    Non serve studiare troppa chimica per sapere cos’è lo stato stazionario: una condizione in cui le grandezze di un sistema si mantengono a valori costanti nonostante la presenza di processi che, considerati singolarmente, provocano variazioni di tali grandezze. Per i profani, l’esempio più semplice è quello di un tubo attraversato da un liquido a velocità costante: il processo di ingresso a un capo del tubo tende ad aumentare il volume del liquido al suo interno, ma in ogni istante il tubo contiene lo stesso volume perché il processo di uscita all’altro capo coinvolge lo stesso volume di liquido che entra. Lo stesso vale per un organismo vivente, che nel corso della propria vita consuma una quantità di risorse pari anche a centinaia di volte il proprio peso.

    Ora, è evidente che per evitare crisi come quelle prospettate dal Rapporto sui limiti dello sviluppo occorre raggiungere lo stato stazionario nel consumo delle risorse ambientali, ovvero, per quanto riguarda le rinnovabili, che hanno un tasso di rigenerazione, sfruttarle con una velocità di sfruttamento uguale o minore di tale tasso: tagliare meno alberi di quanti ne ricrescono, pescare meno pesci di quanti ne nascono, e così via.

    Ciò implica (e in proposito raccomando Collasso di Jared Diamond) l’adattamento dei ritmi di produzione ai tempi richiesti dalla natura per il rinnovo delle risorse (nel caso delle risorse rinnovabili) oppure la sperimentazione di tecnologie che possano sostituire le risorse non rinnovabili con risorse rinnovabili. Questo significa che, raggiunto l’equilibrio tra ritmi di produzione e tempi naturali, si deve avere “crescita zero”.

    Alla luce di queste considerazioni, appare evidente che l’espressione “sviluppo sostenibile” è un non-senso, se non si respinge l’idea che lo sviluppo si misuri in termini di crescita economica: perché si abbia sviluppo economico deve esserci crescita, perché si abbia sostenibilità deve esserci almeno lo stato stazionario ossia crescita zero o decrescita. Le due cose quindi sono inconciliabili.

    Sia chiaro che con questo non intendo dire che gli sforzi compiuti da associazioni ambientaliste o istituzioni politiche siano del tutto futili; piuttosto, ci si deve rendere conto che a lungo andare il capitalismo (basato sulla crescita e l’accumulo) e la sostenibilità non possono coesistere in quanto si escludono reciprocamente. Prima o poi arriverà sempre il momento in cui l’accettazione della crescita come principio indiscutibile dovrà fare i conti con la realtà, in cui le risorse sono limitate e quelle rinnovabili si rigenerano in tempi non nulli. L’unico progetto reale di sviluppo sostenibile è quindi quello che passa per la messa in discussione del capitalismo.

  • Giustizia per Aldro

     

    Appello perche ciò che è accaduto a Federico Aldrovandi non succeda mai più.

    Il 21 giugno 2012 la Cassazione si è espressa in modo definitivo sul caso di Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso durante un controllo di Polizia all’alba del 25 settembre del 2005 a Ferrara. La Corte ha confermato la condanna dei quattro poliziotti per eccesso colposo in omicidio colposo riprendendo così le sentenze di primo e secondo grado.

    Alla luce della sentenza, chiediamo:

    – che i quattro poliziotti, condannati ora in via definitiva, vengano estromessi dalla Polizia di Stato, poiché evidentemente non in possesso dell’equilibrio e della particolare perizia necessari per fare parte di questo corpo;

    – che venga stabilito in maniera inequivocabile che le persone condannate in via definitiva, anche per pene inferiori ai 4 anni, siano allontanate dalle Forze dell’Ordine, modificando ove necessario le leggi e i regolamenti attualmente in vigore;

    – che siano stabilite, per legge, modalità di riconoscimento certe degli appartenenti alle Forze dell’Ordine, con un numero identificativo sulla divisa e sui caschi o con qualsivoglia altra modalità adeguata allo scopo;

    – che venga riconosciuto anche in Italia il reato di tortura – così come definita universalmente e identificata dalle Nazioni Unite in termini di diritto internazionale – applicando la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 contro la tortura e le altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, ratificata dall’Italia nel 1988.

    Firma e aderisci

  • Sono stato grillino anch’io…

    Ultimamente in molti hanno esternato opinioni sul movimento ispirato alla figura di Beppe Grillo. Non mancano analisi da ogni parte, analisi critiche dei possibili significati del voto che alle amministrative ha visto il Movimento Cinque Stelle accrescere i consensi. Alcune analisi c’erano già da prima, alcune opinioni anche. Opinioni e analisi insomma se ne sono viste tante, e penso che chiunque voglia farsi un’idea sull’argomento abbia a disposizione una montagna di informazioni cui attingere, da editoriali sui più svariati giornali ai blog indipendenti, famosi e meno famosi, passando per i commenti su Facebook.

    Non è mia intenzione quindi articolare dettagliatamente la mia opinione sul fenomeno, sia perché qualcosina l’avevo già buttata giù qualche tempo fa, all’inizio di quest’anno, sia perché, diciamocelo chiaro, i pochi lettori di questo blog probabilmente mi conoscono abbastanza bene da conoscere già la mia posizione in merito. Eppure un paio di considerazioni le aggiungerei, dette così, brevemente, per non far perdere tempo neanche a loro.

    Quando parli con un grillino (se qualcuno conosce un altro modo di chiamare un aderente al Movimento Cinque Stelle me lo faccia sapere. Nota bene: non vale la parola «cittadino» propostami da molti) inevitabilmente giungi ad affrontare il problema della questione morale. Giustamente, ci mancherebbe! Cosa ha sempre proposto Grillo, anche quando era solo un comico, prima del movimento e dei meetup? Qual è la soluzione allo scempio della corruzione? Il “Non Statuto” recita che requisito per la candidatura nella lista del movimento è che i candidati «siano incensurati e non abbiano in corso alcun procedimento penale a proprio carico, qualunque sia la natura del reato ad essi contestato». Lo stesso si trova sul programma, nel punto che parla di «non eleggibilità a cariche pubbliche per i cittadini condannati». Qualsiasi reato. Ma allora se un operaio è stato condannato per un blocco stradale di protesta non può candidarsi? Se un valsusino è stato arrestato per aver tagliato le reti del cantiere del Tav non può candidarsi? Se uno ha partecipato alle giornate di Genova ed è stato picchiato a sangue dai poliziotti macellai della Diaz o di piazza Alimonda, arrestato e infine condannato per devasto e saccheggio, non può candidarsi? Se uno ha semplicemente fatto un incidente ad un incrocio ed è stato condannato, non può candidarsi? Siamo sicuri che stiamo parlando di corruzione o ci stiamo spingendo un po’ oltre?

    La maggior parte delle volte, queste domande trovano un interlocutore accigliato che ribatte: «ma è ovvio che si tratta di reati contro la pubblica amministrazione! Se uno è stato condannato per un incidente cosa centrano le sue capacità politiche e i suoi principi?». Certo, sarà ovvio, ma spiegatemi: dove diavolo sta scritto? Visto che questo è uno dei loro cavalli di battaglia, non dovrebbero prendere una posizione chiara, per evitare di scoprire troppo tardi che per alcuni era ovvia una cosa e per altri un’altra?

    La stessa cosa vale per l’antifascismo. Non sta scritto da nessuna parte che il movimento è antifascista, ma quando lo fai notare la risposta più comune è: «ma è ovvio che lo è». Quando il Financial Times paragona Grillo a un ducetto, lui risponde: «siamo il secondo partito d’Italia e voi ci chiamate fascisti!» con una logica decisamente impeccabile, secondo cui anche a Berlusconi si dovrebbero risparmiare accuse di autoritarismo e fascismo solo perché tra i partiti era il primo. Ma, continuate, se uno è fascista in base a che cosa lo escludete dal movimento? Riporto testualmente le parole di un grillino: «La supervisione di Grillo serve a questo: a certificare che i candidati non lo siano», e questa risposta mette in luce tutto il grande problema di democrazia interna del Movimento Cinque Stelle: uno vale uno ma è Grillo a decidere chi va bene e chi no. Perché, ci vuole un diploma in ragioneria (è il titolo di Grillo) per capire se uno è fascista? E se Grillo diventa fascista che fa, si autocertifica da solo e si autoespelle?

    Ma non è solo questo. Non puoi tenerti nel movimento gente così solo perché la difesa dei diritti omosessuali non è contemplata tra i principi del tuo programma, per poi dissociartene quando torna comodo di fronte alle domande incalzanti e inquisitorie dei giornalisti. Certo, il comunicato di dissociazione spiega chiaramente che l’omofobo sedicente esponente grillino era stato allontanato da tempo dalle attività del movimento, ma il problema è che è plausibile che un grillino la pensi e parli così, visto che né lo statuto né il programma prendono posizione in merito, non ponendo nessun vincolo all’ingresso nel movimento di persone dichiaratamente omofobe. Che poi nei fatti questi individui siano allontanati, per una questione di calcolo politico o per sincero rifiuto, poco importa: dove sta scritto che il Movimento Cinque Stelle non è compatibile con l’omofobia?

    E così arriviamo al dunque: il motivo di queste mancate prese di posizione riguardo questioni che personalmente reputo centrali per la costruzione di un soggetto politico credibile, e che il movimento puntualmente ignora, forse perché si tratta di “roba vecchia”, è che ricerca esplicitamente il consenso dei “cittadini”. Ma chi sono questi cittadini? Che significa questa espressione? Azzardo una risposta: nulla. Anche gli omofobi, i fascisti, i berlusconiani sono cittadini.

    Ecco perché non si ottiene mai una risposta univoca sui grandi temi dei diritti e del lavoro: sarebbe come chiedere che ne pensano gli italiani. Alcuni in un modo, altri in un altro modo. Ma questo non è un progetto politico: cosa faranno, qualora dovesse capitare, quando toccherà decidere che posizione prendere in Parlamento in merito a questioni come matrimoni tra omosessuali o provvedimenti contro l’omofobia? Scopriranno di non essere d’accordo e si scanneranno tra di loro, esattamente come già fa il PD? E sulla cittadinanza a figli di stranieri nati in Italia? Si scanneranno come il PD? No, grazie. Preferisco qualcuno con le idee più chiare, specialmente su certe questioni fondamentali.

    E pensare che a un primo impatto faceva piacere anche a me sapere che in tutta Italia dei comitati composti da “cittadini” si rimboccassero le maniche per cambiare le cose. Ma bisogna sapere anche come cambiarle e in cosa trasformarle. Sono stato un grillino anch’io, sapete. Ma se ne può uscire.

    Notizia di pochi minuti fa: sul Blog di Beppe Grillo è apparso un avviso che pubblicizza Forza Nuova.

  • Eurotower

    Cenere, cenere e polvere e sete troverete. E una torre che tutto scruta.

  • Sarà che sono un pippaiolo

    post correlati: Il popolino del web 3

    Scrive Eveblissett (sul suo blog) che «di solito in circostanze drammatiche il non sapere che dire è una reazione quasi normale, umana. Nella socialvetrina, invece, il non sapere che dire è vietato, diventa un fallimento, una sconfitta per l’ego. E quindi, si dice e l’importante è che qualcosa si dica, anche se è una stronzata».

    Tutto questo mi ricorda qualcosa. Premesso che io non sono un frequentatore di Twitter di lunga durata, perché è da appena un anno che ho aperto un profilo presso il più diffuso servizio di microblogging, e dunque non ho avuto l’occasione di conoscerlo quando era ancora un ambiente virtuale “di nicchia” con certe prerogative che lo rendevano appetibile come strumento di comunicazione e di informazione da parte dei movimenti, riconosco che qualcosa nell’ultimo anno è cambiato: già poco tempo dopo la mia iscrizione si erano verificati degli eventi che, a chi li sapesse leggere opportunamente, lasciavano presagire cambiamenti significativi.

    Il primo evento precisamente collocabile (nonostante alcuni indizi fossero rilevabili anche da prima) risale al 14 novembre 2011: a partire da quella data, Fiorello dagli schermi televisivi lancia davanti a milioni di telespettatori (uno share bulgaro, intorno al 40%) la sua trasmissione dal titolo proposto sotto forma di hashtag #ilpiùgrandespettacolodopoilweekend. L’effetto immediato è analogo a quello sperimentato negli Stati Uniti in precedenza: molti personaggi famosi aprono un profilo su Twitter, seguiti inevitabilmente ciascuno dai propri fan.

    Le ricerche su Google della parola Twitter hanno un picco in corrispondenza dello show di Fiorello

    Come riporta questa analisi sulla crescita di Twitter nella cybersfera italiana, ciò ha comportato non solo un incremento nel numero utenti, ma anche nel numero di tweet giornalieri (pare che l’Italia sia il paese in cui, in relazione al numero di utenti, ne vengono scambiati di più al secondo), nel tipo di trending topic (che ora riflettono gli interessi di un pubblico più vasto) e, secondo me, anche nel linguaggio e nel’utilizzo del social network. Infatti, un tale aumento numero di tweet non è un semplice incremento di attività, ma un sintomo di cambiamento nell’uso dello strumento: personalmente, ho idea che l’effetto Fiorello abbia condotto molti utenti di Facebook a iscriversi a Twitter mantenendo le abitudini che avevano e continuando a esprimersi come nell’altro social network, ignari del fatto che, per una lunga serie di motivi, le due cose sono concettualmente diverse.

    E così, dopo sole due settimane dalla propagazione virale dell’amore viscerale per Twitter, Wu Ming si ritirava dal campo con le mani ai capelli, non senza prima aver fatto una buona analisi e autocritica sul fenomeno, in seguito a violente reazioni di indignazione da parte di questo nuovo “popolo di Twitter” in risposta al loro rifiuto di partecipare alla Colletta alimentare organizzata da Comunione e Liberazione.

    Poi è stata la volta del movimento NoTav. Il “popolo di Twitter” ha trasformato l’appellativo di «pecorella» rivolto a un carabiniere da parte di un manifestante come pretesto per screditare il movimento e additarlo come violento. Grazie a questo tipo di ragionamenti fatti au trou du cul (per dirlo con un francesismo) il potere abbassa l’asticella che segna il limite di tollerabilità di azioni e pensieri, ed è l’unico a guadagnarci veramente.

    Poi è venuto il 25 aprile, ed è nato l’hashtag #liberocommercio in supporto alla decisione del governo di permettere l’apertura dei negozi anche in occasione del giorno della Liberazione. Ho intrattenuto personalmente uno scambio di battute con alcuni dei sostenitori, chiedendo loro in che modo un lavoratore dipendente da qualche datore che avesse deciso di tenere aperto potesse partecipare alle celebrazioni della giornata senza prendersi delle ferie. Mi è stato risposto che solo i fascisti obbligavano i negozi a restar chiusi e che «il dipendente ha scelto di essere dipendente. Proprio per questo dipende dalle decisioni di qualcun altro. Fine». Ora, mi pare evidente che simili stronzate sono dicibili solo in un ambiente in cui si scrivono luoghi comuni e frasi fatte a palate.

    Il manifstante mentre si rivolge al carabiniere

    Per non parlare di #bloccare2giugno, un hashtag che non ho seguito ma che a quanto pare è stato inquinato abbastanza da suscitare il fastidio e il disgusto di diversi utenti di lunga data, tra cui Scalva, che ha deciso di abbandonare per un po’ di tempo il social network per evitare il ripetersi di spiacevoli fraintendimenti. La sua dipartita è stata salutata da un hashtag di grande successo, #occupyscalva, che è stato in classifica sotto gli occhi increduli di giornalisti e utenti che in gran parte non hanno capito un cazzo di quello che fosse successo.

    Ma insomma, con tutto questo pippone che cosa voglio dire? Che la mia previsione dicembrina si è realizzata pienamente. Tornando a Eveblissett, che lamentava il fatto che « Twitter non è più aggregatore di info ma “scazzatoio”», in riferimento sia alle polemiche sulla parata del 2 giugno sia, immagino, sullo spirito di “classe del liceo” di cui aveva già parlato in precedenza, non posso che riportarla:

    «I giornali potranno fare proclami su qual è l’ultima battuta del popolo di Twitter o su qual è stato il motivo della lite online tra Fiorello e la Guzzanti, chi è più stronzo tra i personaggi dell’ultima serie televisiva secondo il popolo della Rete, quanto il web è incazzato e indignato per la violazione delle decisioni referendarie di giugno, se preferisce Vendola o Di Pietro, se Lady Gaga o Madonna. Tutto grazie alla nuova ondata di utenti freschi che ridarà aria ai polmoni del web italiano, che stava per diventare un frame troppo trito e ritrito per essere credibile, troppo poco di moda per fare notizia. Tutto grazie al popolino del web».

    Mi scuso per i contenuti che forse risulteranno quasi incomprensibili a chi non usa Twitter (sarà che sono un pippaiolo). Ma di questo passo rischia di diventare incomprensibile anche a me che lo uso. O meglio, tristemente comprensibile, proprio come avevo previsto.

  • L’orgasmo della mente

    «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo».
    Mahatma Gandhi

    Non esiste aspetto della nostra vita che non sia in qualche modo influenzato dai rapporti sociali che, come singoli, intratteniamo con i nostri simili. Fin da quando nasciamo, il nostro cervello ancora in sviluppo risente della presenza dell’ambiente culturale, della rete di relazioni interpersonali, della simbologia del linguaggio: da queste cose esso è plasmato, sia metaforicamente che materialmente. Il nostro modo di vivere, di parlare, di pensare, di amare, di relazionarci, dipende in ultima analisi dall’influenza che la società esercita su di noi, attraverso la creazione e trasmissione di valori, l’insegnamento della cultura, i condizionamenti cognitivi del linguaggio, la tendenza all’omologazione, la pressione conformista. Siamo imbrigliati in ogni nostra azione, siamo vincolati da gabbie invisibili che confinano l’Io alle sole regioni permesse dai rapporti sociali.

    Prendere coscienza di questo è il primo passo verso la liberazione individuale, che precede, accompagna e segue la liberazione sociale: senza la prima, la seconda è vuota; senza la seconda, la prima è sterile. Una rivoluzione per potersi definire tale deve comprendere, in senso etimologico, la rottura, la discontinuità, nell’approccio che il singolo ha rispetto alla società e alla natura: deve comportare un ribaltamento nella visione del mondo.

    Potrebbe forse sembrare, da ciò che si è detto, che liberazione individuale e liberazione sociale siano due cose separate, nettamente distinguibili. Non è così. Le due cose possono commistionarsi insieme a dare una liberazione dell’Io in funzione della liberazione sociale, la quale risulta dall’incontro degli Io liberati e dal conseguente potenziale di rottura esplosiva.

    Quando si dice che noi «dobbiamo essere i primi a cambiare» si intende questo: la necessità di stravolgere gli schemi e i canoni imposti. A partire dalla scelta del prodotto da acquistare, per finire con il modo di camminare, definito dalla psicogeografia situazionista, passando per il modo di interpretare le azioni di altre persone e addirittura di noi stessi, per l’atteggiamento che adottiamo quando viviamo un’esperienza nuova, per la scelta di ciò che mangiamo, per il modo di usare uno strumento di comunicazione, per il nostro modo di vivere le relazioni sociali e affettive, i nostri amori, le nostre soddisfazioni, le nostre delusioni. Si può diventare un ingranaggio inceppato. Un ingranaggio inceppato ostacola il funzionamento della macchina. Non serve moltiplicare i propri punti di rottura. A volte ne basta uno per scatenare un’energia con forte carica rivoluzionaria. È un atto politico, di lotta. Un atto che inizia dalla mente, dalla persona.

    La forza politica si produce quando le alternative si traducono in reale, invadono la vita delle persone, la abbracciano, si compenetrano in essa. Quando l’arte, la cultura, il linguaggio, le singole azioni, entrano nella lotta, assumono un significato permeando la nostra vita in ogni suo momento e unificando la vita stessa con la lotta. Allora forse si può vincere.

    [youtube http://www.youtube.com/watch?v=lr7J5Wf28sw]

  • Il manganello tecnico

    post correlati: Il manganello facile

    La tecnica ci dice qual è il modo corretto di fare le cose: se non seguiamo i suoi dettami, stiamo tecnicamente sbagliando. Non c’è alternativa tecnica alle soluzioni tecniche dei problemi, quindi addossare a qualcuno la responsabilità di scelte tecniche finalizzate all’attuazione di soluzioni tecniche è non solo scorretto, ma anche stupido. Dal punto di vista di chi sostiene questo paradigma. Se non c’è altra scelta, che colpa ne ha il tecnico?

    Se il tuo computer non si accende, l’esperto di elettronica fa una diagnosi del problema e dice che purtroppo perderai i tuoi dati perché dovrai formattare il disco rigido, non puoi prendertela con il tecnico per la soluzione proposta, perché è l’unica possibile e dunque non è propriamente una scelta.

    Secondo un fronte comune che abbraccia la maggior parte dei giornali, dei politici e dell’opinione pubblica lo stesso vale per un governo tecnico: un tale governo non compie scelte, ma applica rigidamente i dettami imparziali della scienza economica, da cui derivano soluzioni univoche per risolvere i problemi di natura economica.

    Allora la militarizzazione della Val Susa non è più criticabile, perché è una militarizzazione tecnica. Fino alla caduta del governo Berlusconi, alle prime tensioni con le forze dell’ordine si accusava da più parte e a più riprese il governo di non saper intrattenere rapporti con i cittadini che fossero diversi dai lacrimogeni e dai manganelli. Ora, con il governo tecnico, non si parla più di cittadini: le persone coinvolte nelle tensioni e negli scontri sono sempre declassate a “violenti”, una categoria che si merita le botte, perché è composta da “incivili”. Le cariche della polizia, in quanto tecniche, sono giustificate, perché se il governo tecnico, responsabile, sobrio e austero del professor Monti le ordina, significa che non esiste alcun altro modo possibile di gestire la situazione: le cariche non derivano da scelte politiche, solo da “scelte” inevitabili di natura esclusivamente tecnica.

    Come è una scelta puramente tecnica quella di sbarrare la strada, lo scorso febbraio, a manifestanti pacifici di ritorno da un corteo No Tav, a manifestazione conclusa, con la celere in assetto antisommossa, ed è ancor più squisitamente tecnica la gestione delle operazioni da parte di un certo Spartaco Mortola, ex capo della Digos di Genova ai tempi della macelleria messicana, guardacaso assolto per i fatti di Genova «perché il fatto non sussiste» e guardacaso assolto anche dall’accusa di aver istigato alla falsa testimonianza durante il processo per l’irruzione della polizia nella scuola Diaz al G8 del luglio 2001.

    Ma il culmine dell’imparzialità e della sobrietà è stato toccato ieri, con la nomina di Gianni De Gennaro a sottosegretario di Stato da parte di Monti. Forse Monti, dopo il successo del film Diaz, ha pensato bene di manifestare il suo giudizio positivo, tecnico ovviamente, per l’operato ineccepibile, dal punto di vista tecnico ovviamente, durante il mandato di De Gennaro. Sopra, una foto esclusiva del suo curriculum.

  • I vegetariani e il sesso, i ricchi e il sesso

    Uno dei social network di incontri più frequentato è un sito che si chiama OkCupid.
    Conta diversi milioni di utenti e un’analisi dei loro dati può avere un certo valore statistico: questo è esattamente ciò che recentemente hanno provato a fare i gestori del sito, sottoponendo a decine di migliaia di utenti, di cui conoscevano i dati anagrafici e alcune altre informazione personali, una serie di domande su diversi temi, oltre che su quello strettamente sessuale, e poi incrociando le risposte. Per esempio, agli utenti veniva chiesto se usassero twitter e quanto; veniva anche chiesto se e quanto di frequente fossero soliti masturbarsi; infine si incrociavano le risposte per ottenere che, in questo campione statistico, mediamente chi manda almeno un tweet al giorno si masturba con una frequenza giornaliera significativamente maggiore che un utente qualunque.

    Qualcuno potrebbe dire: ma questo non prova nessun rapporto di causa ed effetto!

    E avrebbe ragione, perché una correlazione fatta senza troppo criterio rischia di non essere affidabile e di portare a conclusioni alquanto bizzare, come dimostra l’esistenza di questo sito, che, come spiega il fondatore Shaun Gallagher, «aiuta a scoprire sorprendenti correlazioni tra cose apparentemente non correlate: rispondendo ogni giorno a una domanda nuova, ci aiuterete a stabilire nuove correlazioni; al termine di ogni giornata i risultati del sondaggio vengono confrontati con quelli delle rilevazioni precedenti e i due legami più forti stabiliscono la correlazione definitiva». Ecco un esempio:

    In generale, il 33 per cento delle persone preferiscono le emoticons con il naso. Ma tra quelli che preferiscono il gelato in cono anziché in coppetta, il 44 per cento preferisce emoticons con il naso

    Però questo non mi intimorisce, perché mi sembra che la statistica fatta dai cervelli di OkCupid, i cui risultati sono stati pubblicati su una pagina del blog intitolata OkTrends, siano più significativi in quanto le domande poste e le correlazioni tra le risposte date non sono totalmente casuali ma sono mirate, ricercano la conferma di un’ipotesi, che a volte emerge e altre volte no. Sebbene alcune conclusioni siano a mio avviso piuttosto forzate, vale la pena spenderci su qualche parola.

    Mi limiterò a commentare il chart #3 e i chart #9 e #10, esponendo le possibili spiegazioni immaginate da me e da un mio carissimo amico. Questo ovviamente non toglie che tra i commenti ciascuno è invitato a fornire una possibile interpretazione!

    Il cartello 3 mette in relazione la scelta del vegetarianesimo con il piacere di dare sesso orale. Dalla statistica emerge che tra i vegetariani la percentuale di persone a cui piace dare sesso orale è sistematicamente più alta, sia tra gli uomini che tra le donne.

    Un’interpretazione che si potrebbe dare di questo risultato è che i vegetariani fanno spesso la propria scelta alimentare in sintonia con una più generica attenzione per il proprio benessere psichico e fisico, che si riflette anche sulle abitudini sessuali: ovviamente gli organi sessuali non sono l’unica zona erogena del corpo umano e il coinvolgimento di altre parti del corpo in pratiche sessuali può essere considerata una maniera per raggiungere il piacere e aumentare tale benessere.

    E se questa analisi non vi convince, potete comunque approfittarne per sbizzarrirvi nella creazione di alternative vegetariane al gergo sessuale usuale: non più “salsiccie” e “hot dog” ma “banane” e “meloni”, come si propone nell’articolo di OkCupid.

    Interessanti i cartelli 9 e 10, che correlano, più verosimilmente del precedente, il 9 la retta universitaria (il campione è studentesco) al numero ideale di rapporti settimanali che si vorrebbe avere, il 10 il PIL pro capite alla percentuale di persone «looking for casual sex», cioè in cerca di rapporti occasionali.

    Sistematicamente, gli studenti delle scuole più costose sono più desiderosi di sesso rispetto a quelli iscritti a scuole meno costose. Analogamente, più elevato è il PIL pro capite di un paese, maggiore è la percentuale di persone in cerca di sesso occasionale: in cima alla lista troviamo Svizzera (17.3%), Italia (16.3%), Giappone (16.3%), Austria (15.6%), mentre in fondo stanno Ghana (3.1%), Vietnam (4.2%), Nigeria (4.1%).

    Riporto qui il commento di un mio amico:

    «Darei la colpa all’intersezione di due fattori:
    1) Le università più costose tendono ad essere le migliori. Qual è la popolazione delle università migliori? Si tratta di studenti -in linea di massima- ricchi e -in linea di massima- ambiziosi, se non addirittura arrivisti. Non i nerds che uno magari si aspetta, ma persone abituate al “successo”.
    La persona arrivista è una persona che è eccitata e compiaciuta dal Traguardo, e il Traguardo è solo un sembiante come un altro del potere. Il sesso può essere un altro. Quindi non è sesso come gioco né come piacere, ma come status symbol e metafora.
    2) Le università più costose sono frequentate dagli studenti più ricchi. Gli studenti ricchi provengono dalle classi sociali più alte; e dunque sono stati educati nel culto del potere, nell’edonismo “perché-io-posso”, nel narcisismo e nell’ossessione dello Status (vedi punto 1)».