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Qui la prima parte e la parte introduttiva.
Il marchio Beppe Grillo. Perché questa divagazione apparentemente fuori luogo (vedi prima parte)? Torniamo al blog di Beppe Grillo. Il primo magazine solo online. Questa frase è sostanzialmente un messaggio pubblicitario, e in quanto pubblicità contiene una certa dose di menzogna: chiunque può verificare che i magazine online, o webzine, esistevano già anni prima della data di apertura del blog (26 gennaio 2005), e se non si è convinti si può chiedere a David Talbot.
Se accanto al titolo, dunque in una posizione ad alta visibilità, è collocato un messaggio del genere, ciò è dovuto alla sua natura e funzione: la promozione pubblicitaria. Beppe Grillo è un brand. Ha un logo (il simbolo del M5S e il meno noto suo volto stilizzato in bianco e nero), un CEO (Gianroberto Casaleggio), una società di marketing (Casaleggio Associati), uno spazio di promozione e di vendita (il blog), un mercato di consumatori “fedeli” (i simpatizzanti). Qual è il valore aggiuntivo che il marchio Beppe Grillo conferisce ai prodotti? Un’analisi del capitalismo etico, cioè del «godere della privazione del nostro denaro a fin di bene», azzarda alcune ipotesi plausibili: il marchio Beppe Grillo si basa su surplus del nuovo, surplus del vero, surplus del popolo (vedi). La dicitura del titolo, per esempio, contiene il surplus del nuovo: il blog è stato «il primo».

La descrizione del blog di Grillo come fenomeno di strategia pubblicitaria non è una novità: due anni fa l’inchiesta Grillo e il suo spin doctor: la Casaleggio Associati (su Micromega, qui) faceva luce sulla gestione del blog come struttura commerciale appendice del mercato azionario. Tra i contatti aziendali della Casaleggio Associati, figurano personalità di spicco del mondo imprenditoriale italiano e statunitense. Nello spirito dell’azienda, la rete è uno strumento importantissimo di marketing virale che sfrutta la non-orizzontalità della trasmissione dei messaggi: Casaleggio è un teorico e uno dei guru delle nuove frontiere del marketing digitale ed è ben conscio del fatto che «online il 90 per cento dei contenuti è creato dal 10 per cento degli utenti: queste persone sono gli influencer» (alla faccia di ‘“uno vale uno”…). Le strategie usate sono tipiche del guerrilla advertising di scuola americana: teasing (il blog, le inserzioni a pagamento sui quotidiani); guerrilla (meetup, V-day); consolidating (liste civiche col bollino blu, Movimento di liberazione nazionale poi Movimento cinque stelle).
Ovviamente, Beppe Grillo è il maggiore influencer per il pubblico di consumatori del blog: il marchio Beppe Grillo è per la Casaleggio Associati ciò che Michael Jordan fu all’inizio per la Nike, uno strumento di ottimizzazione della diffusione, massimizzazione delle vendite, costruzione della fiducia nel pubblico, creazione di un’identità aziendale trascendente, basata cioè non su questo o quel prodotto, bensì sull’idea che i prodotti veicolano, ovvero l’idea di novità, di democrazia, di orizzontalità, di trasparenza, come l’idea di sport con cui la Nike mira a identificarsi.
A consolidare la natura di brand del M5S, ci pensano gli innumerevoli video, non ultimi quelli prodotti dagli aspiranti candidati per le prossime elezioni, che somigliano molto più a spot pubblicitari che a video di presentazione di un progetto politico. (qui i candidati e qui un esempio di pubblicità del movimento).
Per prima cosa, Beppe Grillo ha formalizzato l’esistenza di un marchio personale, di sua proprietà legale (vedi), registrando il simbolo alla sezione Marchi e brevetti del Ministero dello sviluppo economico. In parte, questa mossa era stata anticipata di anni dall’articolo 3 del “Non statuto” del M5S, che fin dalla sua prima pubblicazione recita: «il nome del MoVimento 5 Stelle viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso». Questo conferisce a Grillo il potere di revocare il diritto all’uso del simbolo a chiunque, secondo la sua volontà e discrezione, il che è puntualmente accaduto con i casi Salsi e Favia, che saranno affrontati in seguito.
Un marchio, secondo la normativa, deve essere registrato sotto particolari codici che ne stabiliscano gli usi previsti e dunque consentiti dalle leggi sul diritto d’autore, sui brevetti e sulla concorrenza. Il marchio a cinque stelle è stato registrato con tre codici (vedi) che lo identificano come:
35 – pubblicità; gestione di affari commerciali; amministrazione commerciale; lavori di ufficio; ricerche di mercato.
41 – educazione; formazione , divertimento; attività sportive e culturali.
45 – servizi resi in campo politico, civico e sociale.
Né più né meno della Nike.
[continua…]

ono stati gli spot pubblicitari che hanno fatto di Jordan una superstar a livello mondiale». L’incredibile notorietà di Michael Jordan rese lui stesso un marchio: il film Space Jam fu un’enorme piattaforma di lancio per il nuovo ruolo, contenendo pubblicità più o meno occulta per ciascuno degli sponsor di Jordan e fornendo ispirazione per una linea di giocattoli che la McDonald’s distribuì con gli Happy Meals.
Super size me è il titolo di un famoso documentario del 2004 che prende le mosse dalla denuncia sporta, due anni prima, a McDonald’s da parte di due ragazze che accusavano la multinazionale di averle fatte ingrassare propinando loro una dieta eccessivamente ricca di grassi fino a renderle gravemente obese.
Questo porta direttamente alla seconda considerazione. Quando si parla di libertà individuale, si chiamano in causa i filosofi liberali, paladini della tolleranza, rispetto della libertà altrui: Marcuse nota come secondo John Stuart Mill questo fosse un principio applicabile «soltanto agli esseri umani nella maturità delle proprie facoltà», indirettamente rendendo accettabile l’indottrinamento. Ovvero: dopo aver condotto una incessante e capillare opera di indottrinamento, parlare di responsabilità individuale è un modo fin troppo semplicistico per lavarsene le mani e dormire sonni tranquilli.
Colpiscono, comunque, anche gli adulti. Accecati dal marchio, quando comprano qualcosa da McDonald’s non comprano un prodotto, ma un simbolo. Si è talmente persuasi dalla mitologia aziendale costruita intorno ad esso, talmente acriticamente fiduciosi, talmente convinti della corrispondenza tra diffusione e qualità, che si è messi in soggezione dall’immensa aura di sacralità che avvolge la multinazionale. Tanto che anche i medici che hanno seguito Morgan nel suo esperimento, di fronte ai risultati, dati alla mano, stentavano a crederci: balbettavano «ma… McDonald’s…». Come a voler dire: concludere la frase con «fa male alla salute» suona strano rispetto a come siamo abituati, stona rispetto al programma martellante che ci hanno “installato”, propinandocelo giorno dopo giorno.
Infine, inserendo questi contenuti in una visione più ampia, c’è un’ultima considerazione da fare. I prodotti venduti da McDonald’s fanno male e questo è appurato. Tuttavia, non si deve confondere il mezzo con il fine: l’azienda non è intrinsecamente “cattiva”, il suo fine non è far stare male i suoi clienti né gode per i loro problemi di salute. Il fine dell’azienda è il profitto, tutto il resto è un mezzo per massimizzare il profitto: la pubblicità, il pesante condizionamento sociale, il cibo di scarsa qualità, la pressione sugli organi legislativi, la corruzione di giornalisti ed esperti dell’alimentazione sono solo incidenti di percorso.


Un simile ragionamento, lo si trova nel testo Dalla natura alla cultura di B. Chiarelli; il secondo tomo è dedicato alle “origini della socialità e della cultura umana” e i seguenti sono alcuni esempi di applicazione forzata dell’evoluzionismo a fenomeni sociali:
Nella trattazione Interpretazione sociobiologia sull’origine della costante presenza del seno nella femmina umana, che fa compagnia ad altri interessanti titoli che non c’è tempo di analizzare, Interpretazione evolutiva dell’origine del pianto e del sorriso e L’origine del pudore e della vanità, Chiarelli cerca di rispondere alla domanda: «sotto quale pressione selettiva la presenza costante del seno e la sua forma si sono mantenuti ed hanno acquisito la funzione di carattere sessuale secondario, tra i più rilevanti nelle femmine della nostra specie?»
Altre criticità riguardano alcune affermazioni di dubbia validità scientifica, come «l’uomo preferisce donne con distribuzione equilibrata delle masse» o «in generale gli uomini concordano che il seno rappresenti il simbolo sessuale per eccellenza». Il problema, infatti, è che per quanto l’attrazione sessuale sia un comportamento istintivo e quindi innato, il comportamento umano è profondamente influenzato da fattori culturali e quindi acquisiti, su cui la selezione naturale non può aver agito.











