Author: Monsieur en rouge

  • La Lotta è il Tempo

    Ieri sera c’è stata a Pisa un’assemblea di Movimento a cui ho partecipato e in cui sono intervenuto.
    Dal momento che ho messo abbastanza carne al fuoco e che in seguito a questo mio intervento l’assemblea ha affrontato dei discorsi ricchi, interessanti e costruttivi, vorrei cercare di riportarlo per iscritto qui, almeno in linea di massima, per condividerlo con tutti sperando di affrontare nuovamente quegli argomenti che mi stanno a cuore e che secondo me sono centrali per la riuscita e il successo reale delle attuali proteste mondiali contro il predominio della finanza sulla politica e la società (leggasi socialità).
    Ho sentito molti parlare della questione del 15 ottobre e di come il movimento dovrà rapportarsi a questa data, come dovrà elaborarla, farla propria, digerire le sconfitte e le vittorie di quella giornata e trarne le dovute conclusioni. Però mentre noi ne parliamo è già passato da allora quasi un mese e il nostro problema principale è che questo movimento, in Italia, sembra scemare e trovarsi in una situazione di stallo se non di reflusso. Cerchiamo di capire perchè e partiamo da un’altra osservazione: la stessa cosa è successa nelle giornate di Luglio del 2001, con il movimento cosiddetto “noglobal” contro il G8, il 13 febbraio 2003, con il movimento, anch’esso mondiale, contro la guerra in Iraq, il 14 dicembre dell’anno scorso, con il movimento universitario. Ora si ripete il 15 ottobre. Evidentemente sono stati fatti degli errori e per di più ripetutamente. Ci sono però dei movimenti che non hanno conosciuto questo decorso e nei quali non si è verificato questo fenomeno di reflusso in seguito alla data principale di mobilitazione: per esempio il movimento NoTav o il movimento OccupyQualcosa nel resto del mondo.

    Il movimento NoTav non ha mai fissato delle scadenze, delle date più importanti di altre. Se il 3 luglio c’è stata una grande manifestazione nei boschi della Val Susa con scontri anche violenti (in verità più che altro era un attacco da parte della polizia), ora i NoTav non stanno a piangersi addosso e a parlare di un fantomatico “post-03/07”. Noi invece parliamo di “post-15/10”. Perchè? Perchè il 3 luglio i NoTav non hanno giocato il tutto per tutto, non hanno concentrato tutte le loro forze su una singola data sperando che andasse bene, salvo poi leccarsi le ferite e pigliarlo in quel posto se fosse andata male. Non hanno fatto assemblee intitolandole “verso il 3 luglio”: hanno deciso di porre dei punti fissi sugli obiettivi del movimento anziché sui metodi, hanno fatto crollare la retorica repubblichista di distinzione tra manifestanti violenti e non violenti, buoni e cattivi: i NoTav erano tutti buoni e tutti cattivi. Tanto che quando il raggiungimento dell’obiettivo prefissato, e su cui non si transige, ha richiesto l’uso della forze, non hanno esitato ad utilizzarla o ad applaudire chi l’aveva usata; e quando, al contrario, si sono resi conto che la violenza avrebbe danneggiato il movimento, com’è stato il 23 ottobre, hanno deciso, dico deciso, di non utilizzarla. Avevano la situazione sotto controllo. Un po’ diverso dal nostro 15 ottobre romano.

    Passiamo al movimento OccupyQualcosa. Solo il braccio italiano di questo movimento, cioè noi, stiamo risentendo del reflusso post-15/10. In altri paesi, piuttosto, è stato un crescendo da allora. A Oakland la cittadinanza ha saputo organizzare, per la prima volta dal 1947, uno sciopero generale cittadino autogestito, non convenzionale. Da Wall Street (la parte occupata, ovviamente) è partito un appello di mobilitazione mondiale. A Londra in queste ore stanno provando a occupare Trafalgar Square dopo un enorme corteo [quest’ultimo esempio lo aggiungo solo ora perchè la notizia è di oggi]. Perchè? Perchè solo in Italia si è preferita una protesta centralizzata e convergente sulla capitale, in tutti gli altri paesi del mondo che hanno aderito alla protesta la mobilitazione si è articolata in cortei e iniziative disseminate sul territorio, con una media di 10-11 luoghi di protesta per ogni nazione.

    Questi due esempi insegnano due cose: la prima è che si deve essere intransigenti sugli obiettivi e non sui metodi, la seconda è che la protesta non deve essere centralizzata. Anzi, deve essere ubiquitaria, come ubiquitario è il nostro avversario. La lotta non è in un posto preciso né in un tempo preciso, la lotta è il Tempo, la lotta è lo Spazio.

  • Cecità

    Non molto tempo fa ho letto Cecità di Saramago (titolo originale Ensaio sobre a Cegueira, “Saggio sulla cecità”).
    Un bel romanzo di certo, che, come tutti i romanzi di Saramago, non sembra mai avere la pretesa di raccontare una storia universale anche se in realtà nasconde una profonda attenzione per l’umanità, le sue debolezze e i suoi difetti, affrontati con caratteristica ironia.

    Lo stile è quello spesso riscontrato in altre opere dello scrittore, con un uso anticonvenzionale della punteggiatura e, in particolare, vorrei ricordare l’espediente letterario che preferisco: i personaggi non hanno mai un nome. Forse perchè il nome è già un’etichetta, una maschera pirandelliana che impedisce la libera espressione, forse perchè l’assegnazione di un nome ad un’entità molteplice e mutevole come un’onda quantistica equivale al collasso d’onda. Fatto sta che questa tecnica conferisce al racconto un sapore un po’ fiabesco, perchè i personaggi appaiono lontani, senza tempo e senza luogo, un po’ reale, perchè quei personaggi potrebbero essere chiunque, anche il biciclettaio, il giardiniere o il vicino di casa, con il risultato che nel periodo in cui lo leggevo tendevo a confondere il contenuto del romanzo con la realtà quotidiana, tanto che cominciando una nuova pagina mi stupivo del fatto che non fossi ancora diventato cieco e fossi ancora in grado di leggere.

    La trama, di cui non svelo i dettagli per amore degli amanti della lettura a cui consiglio il libro, è semplice e la si può trovare riassunta su qualche recensione o direttamente sul retro del libro stesso: gli abitanti di un paese sono improvvisamente affetti da una malattia endemica che provoca cecità, di un tipo mai visto prima e dalla natura misteriosa, che dilaga senza alcun accenno di arresto. Perdendo la vista, gli altri sensi cercano di compensare il più importante che l’uomo ha per conoscere l’ambiente che lo circonda e instaurare relazioni con altri individui (non sempre ce ne accorgiamo). Eppure, evidentemente, non riescono a sostituirsi alla vista e a colmarne la deficienza, e ciò provoca lo sgretolamento delle relazioni umane, sociali e familiari: a prendere il sopravvento è l’istinto egoista di ciascuno, che si afferma anche con la violenza e il degrado morale in un climax di bellum omnium contra omnes, di homo homini lupus, di mors tua vita mea e probabilmente di altre espressioni latine.

    Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono (moglie del medico, personaggio di Cecità)

    Vi rimando, a proposito della vista come senso i cui aspetti possono essere sintomi di qualcosa che nella società non funziona, ad un altro blog (avrei potuto rimandarvi al sito de La Repubblica, ma ho mille motivi per non farlo e per pubblicizzare piuttosto uno spazio virtuale interessante e sicuramente più libero e meno untuoso).

    Per finire, un link anche al blog di José Saramago (traduzione italiana), che merita di essere ricordato come artista e come persona sempre dedita a dar voce ai sentimenti più umani e universali e che «con parabole, sostenute dall’immaginazione, dalla compassione e dall’ironia ci permette continuamente di conoscere realtà difficili da interpretare» (ragioni per cui nel 1998 gli è stato assegnato il premio Nobel per la Letteratura).

  • Il feticismo dei post-it

    Dedico le mie parole a tutti coloro che hanno condannato ciecamente le violenze (ostiniamoci ad etichettarle così, almeno ci capiamo, care anime belle) dello scorso 15 ottobre rivendicando la natura pacifica della manifestazione, anche se in realtà non ho intenzione di parlare direttamente di quei fatti. Ho scelto voi come interlocutori perché ritengo che il movimento (sì, mi ostino anche ad utilizzare questa parola per esprimere qualche cosa che forse in realtà non esiste) italiano debba rivedere le sue strategie per ritrovare la vitalità e l’efficacia che aveva un tempo e che prima del 15 ottobre era riuscito ad esprimere l’ultima volta verso la fine del 2003, quando era già agonizzante: e siccome voi fate parte del movimento tanto quanto me e io credo nella forza del dialogo e nelle armi della democrazia, vi dico da pari come la penso.

    Non mi va di rifare discorsi che sono già stati fatti sulla questione violenza-nonviolenza e che hanno prodotto un’immensa mole di materiale su cui riflettere. Ai fini dell’argomento che mi accingo ad esporre è però necessario rimarcare come la violenza sia da considerarsi, senza esprimere giudizi morali, uno strumento come tanti altri: può essere lo strumento del potere che si difende, del capitale che sfrutta, della mafia che minaccia, dell’autonomo che lancia il sampietrino, e come ogni altro strumento può essere usato bene o male, da intendersi come efficacemente o meno. Per esempio, i fatti dimostrano che la violenza del 15 ottobre è stata poco efficace per il raggiungimento degli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere (a parte quello immediato di alcuni: esprimere un disagio, lanciare un segnale di rabbia e frustrazione).

    Ma sarebbe stata efficace la strategia che auspicavano quei tanti che intendevano recarsi a Roma per esprimere coloratamente o coloritamente la loro “indignazione”? Fa davvero paura al potere un corteo di centinaia di migliaia di persone, anche di un milione di persone, se queste camminano insieme, piantano tende, intonano cori? O fa forse più paura una folla di qualche decina di persone che minaccia di chiudere il proprio conto in banca?

    A chi condanna la violenza a priori vorrei ricordare che quando la violenza l’hanno praticata in Tunisia e in Egitto andava a tutti bene, anche ai giornalisti de La Repubblica che una settimana fa invitavano alla delazione di massa di coloro che potevano aver preso parte al respingimento delle cariche della polizia in piazza San Giovanni. Ma certo, in Egitto sono sporchi e con la pelle scura, in più parlano arabo e sono musulmani, quindi la violenza la possono usare perché sono degli animali, perchè sono violenti: questo è il messaggio implicato nella morale di certa informazione perbenista. Tanto che quando, in primavera, la protesta stava migrando dal mondo arabo alla più civile Europa (prima in Croazia poi in Spagna), i giornali occidentali inizialmente hanno pensato bene di non parlarne.

    A chi si illude di cambiare le cose solo accampandosi in una piazza a oltranza, come al Cairo, ricordo che l’occupazione di piazza Tahrir è stato un evento riuscito e di grande successo, efficace e non solo simbolico, grazie a successive ondate di scioperi che hanno paralizzato l’Egitto per settimane prima e durante la lotta di piazza.

    A chi ripete meccanicamente, come un bambolotto parlante, lo slogan «no alla violenza», vorrei ricordare cos’è la nonviolenza: una pratica attiva di resistenza a leggi o decisioni che si ritengono ingiuste. In altre parole: disobbedienza civile. E vorrei ricordare sempre a costoro che Gandhi, con le cui parole si riempiono la bocca e adornano gli striscioni, in India non ha vinto standosene seduto davanti alle forze di occupazione inglese o prendendo manganellate insieme a migliaia di persone, ma boicottando il sale inglese e permettendo agli autoctoni di riappropriarsi di un bene comune da sottrarre alle grinfie dell’Impero.

    Questo quindi si deve fare: ripartire dai beni comuni, dalla loro socializzazione, dal consumo critico. Ciascuno è importante. Inutile protestare contro la finanza con indosso un paio di scarpe fabbricate da bambini bengalesi, dei jeans scoloriti a costo di compromettere la salute degli operai che li hanno raschiati, una maglietta prodotta da lavoratori cinesi sottopagati, il tutto pubblicizzato attraverso i più infimi sistemi di controllo mentale magari da aziende quotate in borsa, la borsa che tanto si critica. Vano sputare nel piatto da cui si mangia: bisogna imparare a mangiare da un altro piatto. E dopodiché, invitare altri a mangiare dal nostro.

    Sia chiaro che non sto proponendo la ricetta che ci libererà dal male, ma semplicemente un poco di coerenza e un poco di riflessione sul significato della nostra azione politica: il consumo critico è solo un modo per tirarsi fuori dal problema, ma non ancora di far parte della soluzione. Il consumo critico da solo non basta. Neanche gli scioperi da soli bastano. Le acampadas da sole non bastano. Tutti questi eventi devono essere espressione di un’unica Lotta, con la maiuscola, che le unifica tutte (io direi che è quella contro l’Ancien Régime). Senza la coscienza della necessità di tale unificazione, ogni singolo tassello sarà troppo piccolo per formare un’immagine sensata.

    Avete tutti una scelta, a questo punto: o, in virtù del vostro “pacifismo nonviolento” continuate ad aderire ad appelli online, raccolte di firme e petizioni, mandate i vostri post-it a La Repubblica e affiggete i vostri striscioni e le vostre lenzuola per far contenta L’Unità (che poi in fondo, cosa cazzo sperano di ottenere?) oppure vi inventate un altro modo di praticare la nonviolenza. Anzi: la praticate e basta, niente feticismo dei post-it.

  • La violenza degli argini

    Volevo raccontare il 15 ottobre che ho vissuto senza parlare degli scontri, senza condividere o condannare la violenza, senza appoggiare o rifiutare teorie su infiltrati e sui cosiddetti black bloc, senza dover difendere o stigmatizzare il comportamento della polizia italiana o dei manifestanti, senza tirare nessuno per la giacchetta.

    Non so se infine sono riuscito nel mio intento di descrivere con oggettività la giornata (scopo che sempre mi riservo, in tutte le situazioni e nella maggior misura in cui è possibile farlo), ma di certo non sono riuscito mio malgrado ad evitare di parlare di tutte le questioni accennate sopra: avrei preferito non farlo, perché parlare della giornata di ieri come una giornata di violenza o di non violenza significa fare il gioco dei potenti e adottare il linguaggio e la retorica dei loro organi di informazione. Ma leggendo tanti commenti sulla rete e diversi articoli di giornali di aree diverse mi sono reso conto che è necessario mettere in chiaro qualche punto: ecco quindi cosa ho scritto. Sono pensieri sparsi.

    Questione violenza-nonviolenza. Il voler a tutti i costi dividere nettamente il corteo di ieri in due cortei, uno violento e uno pacifico, non solo non aiuta a capire le dinamiche di ieri ma rispecchia poco la realtà dei fatti, come qualsiasi altro tentativo di categorizzare le anime molteplici di un movimento, attribuendo loro nomi e nomignoli stupidi e contrapponendoli (es. indignados, black bloc > indignados VS black bloc). È troppo semplicistico ragionare in codice binario, funziona solo per il benpensante che guarda passivo le immagini dello schermo televisivo passargli sotto gli occhi.

    Che è necessario abbandonare questo frame è stato già detto mille volte ma non fa male ripeterlo. Bisogna prendere atto che in piazza San Giovanni c’erano tante persone diverse, non tutte col casco e armate di spranghe, mazze e molotov, che comunque erano disposte allo scontro: uno scontro non per forza premeditato, uno scontro che può essere stato causato dagli idranti sugli stand che attendevano l’arrivo del grosso del corteo o dai lacrimogeni lanciati in mezzo alla folla su un corteo autorizzato. Non sto parlando degli incappucciati, sto parlando dei tanti altri che sono rimasti coinvolti negli scontri: tra loro immagino ci siano tanti che sono equilibrati in situazioni normali ma che possono, come tutti, perdere il controllo in condizioni anormali e nel mezzo della folla.

    Personalmente trovo strumentali e del tutto fuorvianti i richiami alla Genova del 2001 in riferimento alla presenza di possibili infiltrati, perchè gli infiltrati ci sono in tutte le manifestazioni, anche le più pacifiche, e poi allora si trattava di un movimento e di circostanze completamente diverse: chi, come La Repubblica, scrive «violenze come a Genova» ha dimenticato quanto diverse fossero allora le strategie messe in campo dal black bloc (sì, al singolare) rispetto allo scontro fisico che c’è stato ieri e devia l’attenzione, attraverso analogie e  meccanismi di associazione tra concetti, dal fatto (scontri) alla sua interpretazione (black bloc).

    Il discorso sui possibili infiltrati lo lascio ai complottisti e ai politicanti, perché neanche questo aiuta a comprendere l’accaduto: quelle persone in piazza San Giovanni si sono difese dai lacrimogeni e dai manganelli, e lo avrebbero fatto comunque, con o senza infiltrati. Perciò secondo me la verifica di eventuali infiltrazioni è solo una questione “giuridica”, ma dal punto di vista dell’analisi politica dell’accaduto è irrilevante.

    Mancanza di sintesi. Come scriveva qualcuno, il germe della violenza è insito nella natura stessa di protesta e se a volte rimane potenziale ed altre si fa atto ciò è dovuto alle circostanze; questa volta, per settimane o mesi, fin dall’inizio si è affermata l’intenzione di andare oltre il corteo rituale e la sfilata per il centro di Roma. Su questo si era tutti d’accordo. Però, come conseguenza del campanilismo dei movimenti italiani (che, da quello che mi pare di capire, si è puntualmente manifestato nelle varie assemblee di organizzazione della mobilitazione del 15 ottobre), non ci si era accordati sulle strategie da adottare per superare la tradizionale estetica del conflitto: chi voleva assediare i palazzi governativi, chi occupare il Colosseo e altri monumenti, chi restare nelle strade e nelle piazze a oltranza e, sì, anche chi auspicava una insurrezione popolare. C’è stata una così profonda mancanza di sintesi che, per le differenti strategie, non si è stati capaci neanche di accordarsi sul percorso del corteo, per dirne una, o di organizzare un servizio d’ordine unitario, per dirne un’altra. In particolare, ritengo che quest’ultimo fatto sia stata una delle cause principali dei problemi che la massa ha dovuto fronteggiare. Questa frammentazione era percepibile, bastava farsi un giretto tra i diversi spezzoni del corteo.

    Comportamento della polizia. Tutti, come sempre, hanno fatto a gara a condannare per primi la violenza. Io non esiterei a condannare l’ipocrisia di chi condanna unilateralmente la violenza degli incappucciati o dei manifestanti e allo stesso tempo si dice soddisfatto dell’operato della polizia, che di violenza ne ha usata. Perché la violenza della polizia deve essere giustificata? Qualcuno risponderà che lo scopo della polizia era evitare i disordini. Ma allora il fine giustifica i mezzi? Se è così, la violenza dei manifestanti era altrettanto legittima. Anche perché, quando vedo scene come questa, posso non condividere ma di certo capisco la reazione della piazza.

    Aggiungo un fatto curioso (ma non troppo) sul comportamento delle forze dell’ordine. Il percorso concordato partiva da piazza Repubblica, con destinazione piazza San Giovanni: quest’ultima era la piazza in cui si sarebbero dovute svolgere assemblee parallele e l’eventuale acampada con l’organizzazione di vari stand (poi buttati giù dagli idranti della polizia), che si trovavano là già prima che arrivasse la testa del corteo. Piazza San Giovanni era quindi legalmente riservata ai manifestanti che, secondo me, avrebbero dovuto mantenere il pieno diritto legale di entrarci; dopo l’inizio degli scontri, la polizia ha privato i manifestanti di questo diritto da essa stessa concesso, anzi ha trattato da criminali tutti coloro volessero accedere alla piazza da via Merulana, e giù lacrimogeni e manganelli, quando l’unica colpa che avevano era di seguire il percorso concordato di un corteo autorizzato dalla questura di Roma. Quindi contraddittoria non solo nella sostanza, ma anche nella forma.

    Opinione personale. Personalmente la violenza degli incappucciati non la condivido, ma non condanno la violenza dei manifestanti che si sono difesi da cariche e da lacrimogeni che li cacciavano da una piazza che doveva essere loro.

    La violenza degli incappucciati, io non la condivido non per motivi etici, ma per una questione politica e strategica: semplicemente hanno fatto male al movimento. Poteva essere un’esperienza politica lunga mesi, con piazze occupate e tutto quello che ciò comporta e che in Spagna sono stati capaci di mettere in pratica, invece si è risolto tutto in poche ore fumo nero. Tutti i possibili contenuti del movimento saranno oscurati dalla condanna delle frange estremiste, dalle accuse di infiltrazioni, dalla necessità di dissociarsi dall’uso della violenza e di dimostrare che i “veri indignati” sono quelli pacifici, dalla denuncia di incapacità di gestione dell’ordine pubblico e da tutti quei discorsi che implicano l’accettazione del frame violenza-nonviolenza e, ove possibile, del frame casta-anticasta che tanto piace a La Repubblica. Nessuno parlerà di speculazione finanziaria, di predominio della finanza sulla politica, di banche armate, di sovranità monetaria, di privatizzazioni, di annullamento del debito pubblico, di tagli alla formazione e alla sanità, di beni comuni e di lavoro.

    In pratica, ora che si è manifestata la violenza del fiume in piena nessuno noterà quella degli argini che lo costringono.

  • Aiutiamo il vicino

    Se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo.

    Zygmunt Bauman in un’intervista del 07/08/2011

    Questo è l’esempio che ho citato in assemblea di facoltà ieri mattina per spiegare come sia illusoria la corrispondenza tra crescita economica e benessere e rispondere a chi sosteneva la necessità di stare con i piedi per terra ed evitare di rivendicare un aumento del benessere piuttosto che la ripresa economica.

    Innanzitutto vorrei farvi notare che questa pretesa di mantenere i piedi per terra è del tutto ideologica, perchè sperare che il mondo possa cambiare non è meno utopico che credere che le risorse di un mondo finito possano durare per sempre a ritmi di crescita positivi.

    Sembrava, dalle parole di alcuni, che gli obiettivi del movimento debbano essere la crescita economica e l’aumento del PIL.

    All’esempio di Bauman da me citato è stato ribattuto, a prima vista ragionevolmente, con l’osservazione che, se invece di aiutare il mio vicino a tagliare la siepe, gli regalo dei soldi perchè possa pagare un giardiniere professionista, il risultato non cambierebbe: l’aumento di benessere finale, non monetizzabile, sarebbe lo stesso, eppure l’economia crescerebbe in virtù della circolazione del denaro da me regalato al vicino e utilizzato da quest’ultimo per pagare un servizio.

    Ripensandoci, però, direi che non è esattamente così: aiutando direttamente il vicino con le proprie mani o regalandogli una certa somma di denaro si può naturalmente raggiungere lo stesso risultato materiale (la potatura della sua siepe) ma questo modo di ragionare non tiene conto del processo utilizzato per raggiungere suddetto risultato; e spesso è il processo ad essere determinante per il risultato meno palesemente materiale (il benessere).

    Tra i due modi di raggiungere lo stesso risultato c’è una differenza sostanziale a livello di relazioni: l’aiuto diretto attraverso le mie mani, il mio sudore, la mia capacità produce una relazione sociale che un aiuto indiretto che passa per l’intermediario monetario non produce.

    Comprendo che questo pensiero possa apparire come una ingenua e sterile demonizzazione del denaro (come anche mi è stato rinfacciato, sempre all’assemblea); in realtà il problema non sono neanche i soldi in sé. La questione è che il denaro il denaro rischia spesso di diventare, o diventa, strumento di sfruttamento e di disumanizzazione delle relazioni e causa di alienazione dalla rete di relazioni che dovrebbe essere la vita. È questo che va contrastato.

  • L’illusione del binomio liberismo-benessere

    Uno degli argomenti utilizzati più di frequente in difesa del sistema neoliberista è che garantisce il massimo benessere alla maggioranza della popolazione, infatti la nostra cultura e il nostro modello economico ci fanno star bene, qui nonostante tutto quasi tutti hanno l’indispensabile per vivere e abbiamo garantiti diritti civili il cui rispetto è impensabile in altre parti del mondo, dove pullulano teocrazie e governi formati da gerarchi e dittatori senza scrupoli.

    Quante volte si sente dire «non si sputa nel piatto da cui si mangia! Il sistema che tu critichi, intanto, ti garantisce la libertà di espressione, una certa sicurezza e una serie di diritti e comodità che nella solo  esso è in grado di dare»?

    In realtà, dall’adozione di un modello neoliberista non segue esattamente l’istaurazione e la maturazione degli Stati di diritto, quelli in cui tutti i cittadini, dal primo all’ultimo, sono uguali davanti alla legge, la libertà individuale è tutelata e l’agire dello Stato è vincolato dalle sue stesse leggi. Mettendo per un attimo da parte la constatazione che ciò, anche nei cosiddetti Stati di diritto, non sempre avviene, e che anzi in alcuni paesi (come l’Italia) la violazione di tale principio è sistematica, cerchiamo di capire che, dopo tutto, noi occidentali ce la passiamo piuttosto bene (o almeno così è stato finora) rispetto a un contadino nigeriano, brasiliano o bengalese che ogni anno deve far fronte alla siccità, alla desertificazione, al disboscamento o all’inquinamento rischiando di non avere niente da mangiare e morire di fame.

    Smontare la convinzione che il liberismo implichi benessere è facile: infatti tale implicazione nasconde un inganno, che dipende dall’illusione che il mondo finisca ai confini con l’Asia e l’Africa. Mi spiego meglio usando una semplice considerazione di natura termodinamica.

    (Potreste aspettarvi un’applicazione del secondo principio della termodinamica, considerando che la Terra è limitata ma il sistema economico teorizza la crescita; ma la mia osservazione sarà molto più banale.)

    Il binomio liberismo-benessere si potrebbe accettare se il mondo si esaurisse al confine italiano o ai confini dell’Europa: in tale ipotesi, potremmo guardarci intorno e osservare che la maggioranza delle persone ha tutto ciò che gli serve, cibo, vestiti, casa, addirittura un mezzo di trasporto, e potremmo concludere che l’attuale stato di cose è preferibile a qualunque altro, che tende all’utopia dell’uguaglianza e del benessere totale, che è vero che il nostro sistema economico fa star bene tutti. Ma non siamo soli, né possiamo dividere il mondo in due mondi, uno formato da Stati di diritto che adottano il libero mercato, l’altro da Stati dittatoriali che non lo adottano.

    Nella scienza, che parte sempre dall’osservazione, si divide l’universo in sistema e ambiente, il primo è oggetto dell’osservazione e dello studio, il secondo è tutta la parte di universo che non è sistema. L’inganno che porta alla corrispondenza tra liberismo e benessere per tutti deriva da una scelta parziale del sistema di osservazione. Infatti, piuttosto banalmente, scegliendo come sistema l’occidente (quello noto con l’odiosa espressione Primo mondo) la corrispondenza è vera: il liberismo ha portato benessere alla maggior parte delle persone. Ma, come già detto, non siamo soli e non esiste nessun primo, secondo, terzo o quarto mondo: esiste un mondo solo e dentro ci siamo tutti. Prendendo come sistema di osservazione il mondo intero, si scopre ancora più banalmente che il liberismo non porta al benessere della maggioranza, ma al benessere di una minoranza sulle spalle di una maggioranza povera e sfruttata.

    Lo stesso vale per il rispetto dei diritti umani e per la garanzia della libertà individuale: sebbene siano variabili omogenee all’interno del sistema occidente, non lo sono affatto nel sistema mondo.

    Allora ciò che deve essere chiaro è questo: che il libero mercato non crea Stati di diritto, crea Stati di diritto e Stati dittatoriali fantocci degli Stati di diritto, e a lungo andare assoggetta tutti gli Stati, di diritto e non, al mercato e al potere del capitale.

    Un esempio che valga per tutti è il caso della Nigeria, in cui da decenni multinazionali come la Shell e l’Agip sfruttano le risorse petrolifere del paese senza che i popoli locali ne traggano alcun beneficio, derubandoli della ricchezza nazionale e danneggiando i loro territori, spesso non più adatti alla coltivazione a causa dell’inquinamento legato alle raffinerie e ai pozzi. Contro un’ingiustizia e un furto di ricchezza di tale entità, oltre che per bisogni materiali di sussistenza, sono nate diverse organizzazioni (quali NDPVF, MEND, MOSOP) che intendono colpire il profitto e porre fine allo sfruttamento da parte delle multinazionali.

    Tale movimento culminò in Nigeria nel 1993, con una manifestazione di centinaia di migliaia di persone e la guida dell’attivista Ken Saro-Wiwa. Il movimento era diretto anche contro il governo militare, responsabile di scelte in materia economica che favorivano le multinazionali.

    Dietro pressioni della Shell, ormai accertate, Ken Saro-Wiwa e altri attivisti furono incastrati con un’accusa di omicidio basata su false testimonianze, incriminati e impiccati il 10 novembre 1995, dopo un processo di dubbia regolarità che attrasse l’attenzione di molti movimenti per i diritti umani.

    Ditemi voi se questo è il rispetto dei diritti e delle libertà individuali che il liberismo dovrebbe garantire, se il liberismo ha portato benessere alla maggior parte del popolo Ogoni in Nigeria: i poveri e gli sfruttati nel mondo sono la maggioranza.

    Se posso comodamente uscire e comprare al supermercato ciò che mi serve invece di produrlo (e il processo di produzione è nascosto il più possibile e rimosso dalla coscienza collettiva dei consumatori occidentali, con il preciso obiettivo che non si facciano nessuno scrupolo a comprare; a proposito, all’inizio degli anni novanta, da un’indagine svolta a New York, risultò che la metà dei bambini era convinta che il latte fosse un prodotto industriale completamente artificiale, alla stregua della Coca-Cola o del chinotto. Lascio a voi le considerazioni.) non è perché con il liberismo tutto è più comodo per tutti, ma è solo perché qualcun altro, lontanto geograficamente da me ma unito a me dagli stessi rapporti di produzione, lavora per me come uno schiavo e fatica al posto mio.

    Se non soffro la fame non è perché il liberismo dà cibo a tutti, ma perché lo toglie ad alcuni per darlo ad altri, quando invece basterebbe per tutti.

    È per questo che, anche se non lo sai, voti ogni volta che compri. Nella società di massa del consumismo l’atto dell’acquisto è un atto importante più del voto, e se non si vuol essere complici di violazioni dei diritti umani, di guerre e omicidi, di sfruttamento, di furti e devastazione delle risorse, non restano che due possibilità, proprio come nel voto: o l’astensione, che si traduce nell’autoproduzione, o il consumo critico e consapevole, che si traduce nella riduzione dei consumi e nel boicottaggio.

    Ovviamente cercare di trarsi fuori dal problema con queste strategie non basta: non far più parte del problema non significa già far parte della soluzione, ma è un presupposto secondo me necessario.

    Probabilmente ho scritto una banalità dopo l’altra e niente che non si sapesse già, ma ho sentito l’esigenza di scriverle per ribattere a chi difende il libero mercato adducendo come giustificazione il benessere che a questo sarebbe connaturato.

    Viva la decrescita! (anche se quello della decrescita è un argomento controverso che mi lascia perplesso su alcuni punti e su cui presto scriverò qualche considerazione)

  • Walden

    Come promesso nell’articolo precedente, ho letto un altro libro di Thoreau. In verità confesso di aver saltato alcune parti a causa dello stile a tratti ripetitivo e poco conforme alla condizione in cui mi piace leggere, ma è probabile che questa mia sensazione sia stata, più che noia, un senso di pienezza di contenuti: come se, a un certo punto, fossi saturo del libro, perchè il suo messaggio fondamentale è talmente pregnante che mi sono imbevuto del suo significato, come una spugna, da poter difficilmente ottenere di più dalla sua lettura. Il pensiero di Thoreau mi ha permeato tanto che da un certo momento in poi è stata come superflua ogni ulteriore lettura.

    Nel corso della lettura, condotta con una matita e un foglio bianco a portata di mano, ho trascritto alcune frasi che mi piacerebbe condividere e che mi auguro facciano riflettere e discutere i lettori di questo blog. Infatti, nonostante il misticismo religioso e i chiari riferimenti ad una cultura protestante bigotta come quella della famiglia da cui proveniva l’autore, è bene tenere presente che è stato uno dei primi pensatori moderni a mettere in discussione la legittimità dello stato e della società stessa, teorizzando la totale libertà individuale (non senza problemi di natura giuridica né senza intoppi in materia di filosofia politica).

    «Si dice che Mirabeau si desse alla rapina sulle strade maestre “per vedere che grado di coraggio sia necessario onde porsi in chiara opposizione alle leggi più sacre della società”. […] “Un soldato, che combatta nei ranghi, non ha bisogno di tanto coraggio quanto un brigante” »

    Il suo interesse per le dottrine orientali, in particolare indiane, lo si evince a più riprese sia da riferimenti espliciti a personaggi ed eventi, sia dalla tensione verso la spiritualità e la ricerca interiore, rafforzata dal suo trascendentalismo filosofico-religioso. Questo atteggiamento io l’ho intravisto nella seguente frase:

    «Ogni uomo è il signore d’un regno accanto al quale l’impero terreno dello Czar non è che un insignificante staterello»

    e in queste altre:

    «Qualsiasi verità è meglio dell’inganno. Tom Tyde, il calderaio, mentre stava sul patibolo, a quelli che gli chiedevano se non avesse nulla da dire, rispose: “Dite ai sarti di fare il nodo in fondo al filo, prima di dare il primo punto”. La preghiera del suo compagno è stata dimenticata»

    «La superficie della terra è morbida, atta a ricevere l’impronta dei piedi umani, così sono i sentieri che la mente percorre»

    «L’anima, dalle condizioni in cui è posta, sbaglia a riconoscere il proprio carattere finché la verità non le è rivelata da qualche santo maestro, e allora essa scopre da sé di essere Brahma»

    Per finire, qualche spunto decrescitista, che dedico con tutto il cuore al movimento NoTav:

    «Chissà, se gli uomini si costruissero la loro casa con le loro mani e provvederanno il cibo per sé e per le loro famiglie con sufficiente onestà e semplicità, se le loro tendenze poetiche non sarebbero universalmente sviluppate come negli uccelli, che cantano anche quando si stanno costruendo il nido?»

    «Se necessario, si trascuri di costruire un ponte sul fiume, e magari, così, in quel tratto si allungherà un po’ la strada; ma si getti almeno un’arcata sul più oscuro golfo dell’ignoranza che ci circonda»

    Vi lascio con la traduzione dal latino di Alexander Pope:

    “Nor wars did men molest

    When only beechen bowls were in request”

  • La disobbedienza civile

    H. D. Thoreau nel 1854

    Se nelle ultime due settimane non ho scritto nulla è stato per motivi di studio e non per mancanza di argomenti da trattare, che anzi mi affioravano alla mente con insistenza (decrescita, globalizzazione, movimenti). Ma fra un blocco di appunti e un libro di citologia ho trovato comunque come ritagliarmi il tempo per qualche sana lettura estiva, come potreste aver notato dall’elenco qui a lato, e così ho letto due libelli di Henry David Thoreau che hanno segnato la filosofia anarchica ottocentesca: La disobbedienza civile (1849) e La vita senza princìpi (1863).

    Non volendo tediarvi troppo con la sua biografia, che chi vorrà potrà leggere altrove, mi limito a ricordare che, tanto per la personalità quanto per le scelte di vita, Thoreau fu sempre un bel tipetto: si rifiutò di pagare le tasse in segno di protesta contro le scelte guerrafondaie degli Stati Uniti, allora in guerra con il Messico, e per questo fu arrestato; da allora perse completamente la fiducia nell’istituzione statale («compresi che lo Stato era stupido, […] che non sapeva distinguere gli amici dai nemici, e persi completamente il rispetto nei suoi confronti che mi era rimasto, compatendolo») e decise di distaccarsi non solo da essa, ma anche dall’idea stessa di società, ritirandosi ad una vita appartata anche fisicamente, una scelta questa che lo spinse ad abbandonare la città e a costruirsi una capanna, in riva ad un lago isolato, in cui visse (e scrisse) per due lunghi anni.

    Il linguaggio è chiaro ed i contenuti, nonostante i continui riferimenti biblici e religiosi, nonostante l’ingenuità di alcune sue considerazioni economiche (ma capiamolo, è un pensatore pre-marxista), hanno l’arditezza di andare contro una tradizione filosofica e politica che nello Stato borghese ottocentesco era difficile scalzare: quella di giustificazione dello Stato borghese stesso. Egli lo nega, ne rifiuta la legittimità, fa lo stesso con la democrazia, considerata innaturale (perchè infatti una maggioranza dovrebbe avere il diritto di governare? «La ragione pratica per la quale […] si permette ad una maggioranza di governare, non risiede nel fatto che è più probabile che essa sia nel giusto, […] ma è solo perchè la maggioranza è fisicamente più forte»). Egli propone un’anarchismo individualista, anticipando lo Stirner tardo ottocentesco, e suggerendo validi motivi e validi metodi per abbattere la tirannia democratica, dittatura e imposizione dei più sui pochi.

    Penso tuttavia che Thoreau si scontri con la realtà quando auspica una rinascita individuale e spirituale (ecco l’impeto religioso…) senza programmare un sistema di convivenza che possa prendere il posto dell’esistente (ma anche qui, gli manca l’undicesima tesi su Feuerbach). Si potrebbe liquidare la mia critica facendo notare che a Thoreau non interessano minimamente i massimi sistemi o la costruzione di modelli sociali successivi all’abbattimento della tirannia, semplicemente perchè una volta che l’individuo, da solo, arriva a rifiutare la forma statale, la tirannia è virtualmente abbattuta e la storia si è finita lì. Ma Thoreau commette lo stesso errore-orrore liberista nel considerare l’individuo come entità isolata, in grado di scegliere autonomamente e razionalmente ciò che gli conviene e di scartare e rifiutare ciò che non gli conviene: l’individuo, non c’è bisogno di dimostrarlo in alcun modo, vive tra gli altri e fa parte di una collettività; le sue scelte sono condizionate da regole, tabù, idee e idiosincrasie che non vengono da lui, né dal cielo, né da sole, ma dal rapporto che egli instaura con altri individui. Io posso rifiutarmi di pagare le tasse, di prestare il servizio militare, di votare alle elezioni, di rispettare una legge, ma il solo rifiuto individuale non basta a liberarmi.

    In compenso tanti sono gli spunti interessanti, primo fra tutti il pezzo in cui critica quelle che Benasayag poi chiamò «anime belle»: «Ci sono migliaia di persone che in teoria sono contrarie alla guerra e alla schiavitù, ma che in effetti non fanno niente per porvi fine, […] se ne stanno sedute con le mani in tasca e dicono di non sapere che cosa fare e non fanno nulla». Oppure: «Quando la maggioranza alla fine voterà per l’abolizione della schiavitù sarà perchè la schiavitù le è indifferente e perchè le sarà rimasta ben poca schiavitù da abolire con il voto».

    Infine, leggendolo in questo periodo di tempesta finanziaria e sociale, non posso che trovare considerazioni perfette per il momento, che lui faceva sulla guerra messicana ma che potrebbe trasporsi sostituendo il soggetto con la manovra del governo Berlusconi e con il peso schiacciante del capitale finanziario nel mondo globalizzato: «è opera di un numero relativamente ristretto di persone che si servono del governo stabilito come proprio esclusivo strumento, poiché il popolo non avrebbe consentito all’impresa». Mi sembra evidente che oggi, molto più che nell’ottocento, è ancora difficile scalzare l’ideologia di cui sopra.

    E ora il prossimo libro da leggere è Walden!

  • La manovra di Ferragosto e la shock economy

    Da più parti e alle persone più inaspettate sento pronunciare commenti e apprezzamenti del tipo «per una volta mi trovo a dire che il Governo mi è piaciuto!» che dimostrano definitivamente quale sia la percezione della crisi nell’immaginario collettivo costruito sapientemente dietro controllo mediatico: la crisi viene percepita come se fosse un fenomeno naturale e una calamità inevitabile. Se un terremoto colpisce il territorio abruzzese o una tromba d’aria devasta la costa ionica del catanese, che colpa può averne il governo, la burocrazia o chiunque altro? Lo stesso ragionamento, grazie ai martellamenti continui del pensiero unico attraverso ogni canale di informazione, si impossessa automaticamente della mente di tanti, che di fronte a una crisi finanziaria si convincono di avere a che fare con una crisi sismica. Ma come potrebbe questo non accadere dal momento che è proprio l’inevitabilità il carattere di una crisi che tutti ci dicono piovere dall’alto?

    Bene, voglio svelarvi un segreto: la crisi non è inevitabile né imprevedibile, è connaturata al sistema economico liberista e dunque è inevitabile solo finché non si mette in discussione il sistema stesso e si parla del liberismo come se fosse lo stato di natura (eppoi certo che la crisi sembra un fenomeno naturale!). Mi sembra invece che la manovra di Ferragosto decretata dal governo non faccia altro che ribadire la sua supremazia, o meglio la sua unicità nel panorama politico, visto che l’opposizione (tre volte virgolettata) ormai non fa più neanche ridere (Bersani: «è ora che la crisi la paghi chi non l’ha mai pagata!» ma senza dire chi, perchè il Pd ha paura).

    Beatificazione del contratto di Mirafiori, liberalizzazioni (finirà come l’Argentina?) in barba allo spirito referendario (ma tanto lo sapevamo che sarebbe finita così!), festività accorpate o addossate alle domeniche per guadagnare qualche giorno di produttività nei prossimi anni (ma il turismo in Italia vive dei ponti), dal prossimo anno si lavorerà il 25 aprile e il primo maggio (ma proprio quest’ultima cosa, siamo sicuri che l’abbiano chiesta l’UE e la BCE?)

    Non voglio entrare nei dettagli, perchè so di non averne le competenze necessarie, mi piuttosto dico: tutti contenti della manovra, ma nessuno pensa alla shock economy? In tanti sono disperati ma rassegnati, perchè «tutti dovremo fare qualche sacrificio». Ma se una banca fallisce, perchè il sacrificio lo devo fare io e non chi l’ha fatta fallire? E comunque, mai sentito parlare di shock economy? Si approfitta di un disastro (le cui cause peraltro in questo caso hanno un nome e un cognome) per far passare leggi e norme che non avrebbero mai il consenso popolare; dopodiché quelle norme rimarranno in vigore, per quanto possano sostenere i difensori dell’austerity, in buona o cattiva fede. O vi risulta che le leggi antiterrorismo degli anni di piombo siano state ritirate? E le straordinarie misure di sicurezza repressive della war on terrorism? Sono ancora là. E i cittadini del New Orleans che dopo l’uragano Katrina scoprono che non avranno mai più scuole e ospedali pubblici? Si può continuare a lungo l’elenco di episodi in cui il potere ha approfittato di situazioni di crisi per approvare delle scelte che mai la popolazione accetterebbe.

    Allo stesso tempo mi chiedo se non sarebbe più socialmente giusto e più sensato ed efficace far pagare l’ICI alla Chiesa Cattolica; tassare i patrimoni sopra il milione di euro; combattere l’evasione fiscale; tagliare drasticamente le spese militari; ritirare i soldati italiani dall’Afghanistan e dalla Libia; abolire tutte le province.

    Ma questo la «losca confraternita dei borghesi produttori di profitto» (sic!) non lo farà mai.

  • Le vacanze

    Avevo in mente di scrivere su due argomenti, uno sulla scia dell’analisi di Marcuse sullo spostamento della produzione verso il Sud del mondo, l’altro sulle differenze tra Facebook e Twitter e le conseguenze che esse comportano. Tuttavia, capirete che l’impellenza del momento non mi permette di sorvolare un terzo argomento, che nell’immediato è di gran lunga più notevole, ovvero: i parlamenti quest’anno non vanno in vacanza.

    Il tre agosto Berlusconi è stato chiamato in aula (non quella, quell’altra «sorda e grigia») per rispondere di ciò che sta facendo il Governo per evitare il tracollo di Piazza Affari, che potrebbe avvenire da un momento all’altro. Ovviamente, parlando dall’alto delle sue funzioni di presidente del consiglio italiano, ha invitato tutti ad acquistare le azioni delle sue aziende. Da non credere. Poi il parlamento ha deciso di sospendere le vacanze che erano previste per tutto il mese di agosto, così da poter trovare in fretta e furia una soluzione alla caduta libera della borsa.

    A Tottenham, un quartiere di Londra, il 4 agosto Mark Duggan, pregiudicato, è inseguito dalla polizia e durante l’inseguimento viene colpito alla testa da un proiettile sparato dalle forze dell’ordine. Il giorno sucessivo, un presidio pacifico organizzato dai familiari della vittima degenera in violenza come da decenni non se ne vedevano in Regno Unito. Dopodiché è tutto un susseguirsi di eventi intrecciati e autocatalitici, e l’Inghilterra è in fiamme. David Cameron ha richiamato il parlamento dalle vacanze per risolvere la crisi dell’ordine pubblico, dopo aver tagliato soldi alla polizia e allo stato sociale, dicendo: «nella nostra società c’è qualcosa che non va». Ma va, come ha fatto ad accorgersene? Be’, direte voi, almeno, al contrario di quella puttana della Thatcher, ha ammesso che la società esiste.

    Ieri, Francoforte era a -7 punti percentuali; un dato mostruoso, considerando che tutti vedono nella Germania la salvezza dell’Europa e della moneta unica.

    Niente vacanze quest’anno, per le sanguisughe, no holidays thisnyear for leeches! Ma forse è questo il futuro che ci aspetta: le città in fiamme e le borse a farsi fottere.

    Viva la decrescita!