Author: Monsieur en rouge

  • Giustizia per Aldro

     

    Appello perche ciò che è accaduto a Federico Aldrovandi non succeda mai più.

    Il 21 giugno 2012 la Cassazione si è espressa in modo definitivo sul caso di Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso durante un controllo di Polizia all’alba del 25 settembre del 2005 a Ferrara. La Corte ha confermato la condanna dei quattro poliziotti per eccesso colposo in omicidio colposo riprendendo così le sentenze di primo e secondo grado.

    Alla luce della sentenza, chiediamo:

    – che i quattro poliziotti, condannati ora in via definitiva, vengano estromessi dalla Polizia di Stato, poiché evidentemente non in possesso dell’equilibrio e della particolare perizia necessari per fare parte di questo corpo;

    – che venga stabilito in maniera inequivocabile che le persone condannate in via definitiva, anche per pene inferiori ai 4 anni, siano allontanate dalle Forze dell’Ordine, modificando ove necessario le leggi e i regolamenti attualmente in vigore;

    – che siano stabilite, per legge, modalità di riconoscimento certe degli appartenenti alle Forze dell’Ordine, con un numero identificativo sulla divisa e sui caschi o con qualsivoglia altra modalità adeguata allo scopo;

    – che venga riconosciuto anche in Italia il reato di tortura – così come definita universalmente e identificata dalle Nazioni Unite in termini di diritto internazionale – applicando la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 contro la tortura e le altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, ratificata dall’Italia nel 1988.

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  • Sono stato grillino anch’io…

    Ultimamente in molti hanno esternato opinioni sul movimento ispirato alla figura di Beppe Grillo. Non mancano analisi da ogni parte, analisi critiche dei possibili significati del voto che alle amministrative ha visto il Movimento Cinque Stelle accrescere i consensi. Alcune analisi c’erano già da prima, alcune opinioni anche. Opinioni e analisi insomma se ne sono viste tante, e penso che chiunque voglia farsi un’idea sull’argomento abbia a disposizione una montagna di informazioni cui attingere, da editoriali sui più svariati giornali ai blog indipendenti, famosi e meno famosi, passando per i commenti su Facebook.

    Non è mia intenzione quindi articolare dettagliatamente la mia opinione sul fenomeno, sia perché qualcosina l’avevo già buttata giù qualche tempo fa, all’inizio di quest’anno, sia perché, diciamocelo chiaro, i pochi lettori di questo blog probabilmente mi conoscono abbastanza bene da conoscere già la mia posizione in merito. Eppure un paio di considerazioni le aggiungerei, dette così, brevemente, per non far perdere tempo neanche a loro.

    Quando parli con un grillino (se qualcuno conosce un altro modo di chiamare un aderente al Movimento Cinque Stelle me lo faccia sapere. Nota bene: non vale la parola «cittadino» propostami da molti) inevitabilmente giungi ad affrontare il problema della questione morale. Giustamente, ci mancherebbe! Cosa ha sempre proposto Grillo, anche quando era solo un comico, prima del movimento e dei meetup? Qual è la soluzione allo scempio della corruzione? Il “Non Statuto” recita che requisito per la candidatura nella lista del movimento è che i candidati «siano incensurati e non abbiano in corso alcun procedimento penale a proprio carico, qualunque sia la natura del reato ad essi contestato». Lo stesso si trova sul programma, nel punto che parla di «non eleggibilità a cariche pubbliche per i cittadini condannati». Qualsiasi reato. Ma allora se un operaio è stato condannato per un blocco stradale di protesta non può candidarsi? Se un valsusino è stato arrestato per aver tagliato le reti del cantiere del Tav non può candidarsi? Se uno ha partecipato alle giornate di Genova ed è stato picchiato a sangue dai poliziotti macellai della Diaz o di piazza Alimonda, arrestato e infine condannato per devasto e saccheggio, non può candidarsi? Se uno ha semplicemente fatto un incidente ad un incrocio ed è stato condannato, non può candidarsi? Siamo sicuri che stiamo parlando di corruzione o ci stiamo spingendo un po’ oltre?

    La maggior parte delle volte, queste domande trovano un interlocutore accigliato che ribatte: «ma è ovvio che si tratta di reati contro la pubblica amministrazione! Se uno è stato condannato per un incidente cosa centrano le sue capacità politiche e i suoi principi?». Certo, sarà ovvio, ma spiegatemi: dove diavolo sta scritto? Visto che questo è uno dei loro cavalli di battaglia, non dovrebbero prendere una posizione chiara, per evitare di scoprire troppo tardi che per alcuni era ovvia una cosa e per altri un’altra?

    La stessa cosa vale per l’antifascismo. Non sta scritto da nessuna parte che il movimento è antifascista, ma quando lo fai notare la risposta più comune è: «ma è ovvio che lo è». Quando il Financial Times paragona Grillo a un ducetto, lui risponde: «siamo il secondo partito d’Italia e voi ci chiamate fascisti!» con una logica decisamente impeccabile, secondo cui anche a Berlusconi si dovrebbero risparmiare accuse di autoritarismo e fascismo solo perché tra i partiti era il primo. Ma, continuate, se uno è fascista in base a che cosa lo escludete dal movimento? Riporto testualmente le parole di un grillino: «La supervisione di Grillo serve a questo: a certificare che i candidati non lo siano», e questa risposta mette in luce tutto il grande problema di democrazia interna del Movimento Cinque Stelle: uno vale uno ma è Grillo a decidere chi va bene e chi no. Perché, ci vuole un diploma in ragioneria (è il titolo di Grillo) per capire se uno è fascista? E se Grillo diventa fascista che fa, si autocertifica da solo e si autoespelle?

    Ma non è solo questo. Non puoi tenerti nel movimento gente così solo perché la difesa dei diritti omosessuali non è contemplata tra i principi del tuo programma, per poi dissociartene quando torna comodo di fronte alle domande incalzanti e inquisitorie dei giornalisti. Certo, il comunicato di dissociazione spiega chiaramente che l’omofobo sedicente esponente grillino era stato allontanato da tempo dalle attività del movimento, ma il problema è che è plausibile che un grillino la pensi e parli così, visto che né lo statuto né il programma prendono posizione in merito, non ponendo nessun vincolo all’ingresso nel movimento di persone dichiaratamente omofobe. Che poi nei fatti questi individui siano allontanati, per una questione di calcolo politico o per sincero rifiuto, poco importa: dove sta scritto che il Movimento Cinque Stelle non è compatibile con l’omofobia?

    E così arriviamo al dunque: il motivo di queste mancate prese di posizione riguardo questioni che personalmente reputo centrali per la costruzione di un soggetto politico credibile, e che il movimento puntualmente ignora, forse perché si tratta di “roba vecchia”, è che ricerca esplicitamente il consenso dei “cittadini”. Ma chi sono questi cittadini? Che significa questa espressione? Azzardo una risposta: nulla. Anche gli omofobi, i fascisti, i berlusconiani sono cittadini.

    Ecco perché non si ottiene mai una risposta univoca sui grandi temi dei diritti e del lavoro: sarebbe come chiedere che ne pensano gli italiani. Alcuni in un modo, altri in un altro modo. Ma questo non è un progetto politico: cosa faranno, qualora dovesse capitare, quando toccherà decidere che posizione prendere in Parlamento in merito a questioni come matrimoni tra omosessuali o provvedimenti contro l’omofobia? Scopriranno di non essere d’accordo e si scanneranno tra di loro, esattamente come già fa il PD? E sulla cittadinanza a figli di stranieri nati in Italia? Si scanneranno come il PD? No, grazie. Preferisco qualcuno con le idee più chiare, specialmente su certe questioni fondamentali.

    E pensare che a un primo impatto faceva piacere anche a me sapere che in tutta Italia dei comitati composti da “cittadini” si rimboccassero le maniche per cambiare le cose. Ma bisogna sapere anche come cambiarle e in cosa trasformarle. Sono stato un grillino anch’io, sapete. Ma se ne può uscire.

    Notizia di pochi minuti fa: sul Blog di Beppe Grillo è apparso un avviso che pubblicizza Forza Nuova.

  • Eurotower

    Cenere, cenere e polvere e sete troverete. E una torre che tutto scruta.

  • Sarà che sono un pippaiolo

    post correlati: Il popolino del web 3

    Scrive Eveblissett (sul suo blog) che «di solito in circostanze drammatiche il non sapere che dire è una reazione quasi normale, umana. Nella socialvetrina, invece, il non sapere che dire è vietato, diventa un fallimento, una sconfitta per l’ego. E quindi, si dice e l’importante è che qualcosa si dica, anche se è una stronzata».

    Tutto questo mi ricorda qualcosa. Premesso che io non sono un frequentatore di Twitter di lunga durata, perché è da appena un anno che ho aperto un profilo presso il più diffuso servizio di microblogging, e dunque non ho avuto l’occasione di conoscerlo quando era ancora un ambiente virtuale “di nicchia” con certe prerogative che lo rendevano appetibile come strumento di comunicazione e di informazione da parte dei movimenti, riconosco che qualcosa nell’ultimo anno è cambiato: già poco tempo dopo la mia iscrizione si erano verificati degli eventi che, a chi li sapesse leggere opportunamente, lasciavano presagire cambiamenti significativi.

    Il primo evento precisamente collocabile (nonostante alcuni indizi fossero rilevabili anche da prima) risale al 14 novembre 2011: a partire da quella data, Fiorello dagli schermi televisivi lancia davanti a milioni di telespettatori (uno share bulgaro, intorno al 40%) la sua trasmissione dal titolo proposto sotto forma di hashtag #ilpiùgrandespettacolodopoilweekend. L’effetto immediato è analogo a quello sperimentato negli Stati Uniti in precedenza: molti personaggi famosi aprono un profilo su Twitter, seguiti inevitabilmente ciascuno dai propri fan.

    Le ricerche su Google della parola Twitter hanno un picco in corrispondenza dello show di Fiorello

    Come riporta questa analisi sulla crescita di Twitter nella cybersfera italiana, ciò ha comportato non solo un incremento nel numero utenti, ma anche nel numero di tweet giornalieri (pare che l’Italia sia il paese in cui, in relazione al numero di utenti, ne vengono scambiati di più al secondo), nel tipo di trending topic (che ora riflettono gli interessi di un pubblico più vasto) e, secondo me, anche nel linguaggio e nel’utilizzo del social network. Infatti, un tale aumento numero di tweet non è un semplice incremento di attività, ma un sintomo di cambiamento nell’uso dello strumento: personalmente, ho idea che l’effetto Fiorello abbia condotto molti utenti di Facebook a iscriversi a Twitter mantenendo le abitudini che avevano e continuando a esprimersi come nell’altro social network, ignari del fatto che, per una lunga serie di motivi, le due cose sono concettualmente diverse.

    E così, dopo sole due settimane dalla propagazione virale dell’amore viscerale per Twitter, Wu Ming si ritirava dal campo con le mani ai capelli, non senza prima aver fatto una buona analisi e autocritica sul fenomeno, in seguito a violente reazioni di indignazione da parte di questo nuovo “popolo di Twitter” in risposta al loro rifiuto di partecipare alla Colletta alimentare organizzata da Comunione e Liberazione.

    Poi è stata la volta del movimento NoTav. Il “popolo di Twitter” ha trasformato l’appellativo di «pecorella» rivolto a un carabiniere da parte di un manifestante come pretesto per screditare il movimento e additarlo come violento. Grazie a questo tipo di ragionamenti fatti au trou du cul (per dirlo con un francesismo) il potere abbassa l’asticella che segna il limite di tollerabilità di azioni e pensieri, ed è l’unico a guadagnarci veramente.

    Poi è venuto il 25 aprile, ed è nato l’hashtag #liberocommercio in supporto alla decisione del governo di permettere l’apertura dei negozi anche in occasione del giorno della Liberazione. Ho intrattenuto personalmente uno scambio di battute con alcuni dei sostenitori, chiedendo loro in che modo un lavoratore dipendente da qualche datore che avesse deciso di tenere aperto potesse partecipare alle celebrazioni della giornata senza prendersi delle ferie. Mi è stato risposto che solo i fascisti obbligavano i negozi a restar chiusi e che «il dipendente ha scelto di essere dipendente. Proprio per questo dipende dalle decisioni di qualcun altro. Fine». Ora, mi pare evidente che simili stronzate sono dicibili solo in un ambiente in cui si scrivono luoghi comuni e frasi fatte a palate.

    Il manifstante mentre si rivolge al carabiniere

    Per non parlare di #bloccare2giugno, un hashtag che non ho seguito ma che a quanto pare è stato inquinato abbastanza da suscitare il fastidio e il disgusto di diversi utenti di lunga data, tra cui Scalva, che ha deciso di abbandonare per un po’ di tempo il social network per evitare il ripetersi di spiacevoli fraintendimenti. La sua dipartita è stata salutata da un hashtag di grande successo, #occupyscalva, che è stato in classifica sotto gli occhi increduli di giornalisti e utenti che in gran parte non hanno capito un cazzo di quello che fosse successo.

    Ma insomma, con tutto questo pippone che cosa voglio dire? Che la mia previsione dicembrina si è realizzata pienamente. Tornando a Eveblissett, che lamentava il fatto che « Twitter non è più aggregatore di info ma “scazzatoio”», in riferimento sia alle polemiche sulla parata del 2 giugno sia, immagino, sullo spirito di “classe del liceo” di cui aveva già parlato in precedenza, non posso che riportarla:

    «I giornali potranno fare proclami su qual è l’ultima battuta del popolo di Twitter o su qual è stato il motivo della lite online tra Fiorello e la Guzzanti, chi è più stronzo tra i personaggi dell’ultima serie televisiva secondo il popolo della Rete, quanto il web è incazzato e indignato per la violazione delle decisioni referendarie di giugno, se preferisce Vendola o Di Pietro, se Lady Gaga o Madonna. Tutto grazie alla nuova ondata di utenti freschi che ridarà aria ai polmoni del web italiano, che stava per diventare un frame troppo trito e ritrito per essere credibile, troppo poco di moda per fare notizia. Tutto grazie al popolino del web».

    Mi scuso per i contenuti che forse risulteranno quasi incomprensibili a chi non usa Twitter (sarà che sono un pippaiolo). Ma di questo passo rischia di diventare incomprensibile anche a me che lo uso. O meglio, tristemente comprensibile, proprio come avevo previsto.

  • L’orgasmo della mente

    «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo».
    Mahatma Gandhi

    Non esiste aspetto della nostra vita che non sia in qualche modo influenzato dai rapporti sociali che, come singoli, intratteniamo con i nostri simili. Fin da quando nasciamo, il nostro cervello ancora in sviluppo risente della presenza dell’ambiente culturale, della rete di relazioni interpersonali, della simbologia del linguaggio: da queste cose esso è plasmato, sia metaforicamente che materialmente. Il nostro modo di vivere, di parlare, di pensare, di amare, di relazionarci, dipende in ultima analisi dall’influenza che la società esercita su di noi, attraverso la creazione e trasmissione di valori, l’insegnamento della cultura, i condizionamenti cognitivi del linguaggio, la tendenza all’omologazione, la pressione conformista. Siamo imbrigliati in ogni nostra azione, siamo vincolati da gabbie invisibili che confinano l’Io alle sole regioni permesse dai rapporti sociali.

    Prendere coscienza di questo è il primo passo verso la liberazione individuale, che precede, accompagna e segue la liberazione sociale: senza la prima, la seconda è vuota; senza la seconda, la prima è sterile. Una rivoluzione per potersi definire tale deve comprendere, in senso etimologico, la rottura, la discontinuità, nell’approccio che il singolo ha rispetto alla società e alla natura: deve comportare un ribaltamento nella visione del mondo.

    Potrebbe forse sembrare, da ciò che si è detto, che liberazione individuale e liberazione sociale siano due cose separate, nettamente distinguibili. Non è così. Le due cose possono commistionarsi insieme a dare una liberazione dell’Io in funzione della liberazione sociale, la quale risulta dall’incontro degli Io liberati e dal conseguente potenziale di rottura esplosiva.

    Quando si dice che noi «dobbiamo essere i primi a cambiare» si intende questo: la necessità di stravolgere gli schemi e i canoni imposti. A partire dalla scelta del prodotto da acquistare, per finire con il modo di camminare, definito dalla psicogeografia situazionista, passando per il modo di interpretare le azioni di altre persone e addirittura di noi stessi, per l’atteggiamento che adottiamo quando viviamo un’esperienza nuova, per la scelta di ciò che mangiamo, per il modo di usare uno strumento di comunicazione, per il nostro modo di vivere le relazioni sociali e affettive, i nostri amori, le nostre soddisfazioni, le nostre delusioni. Si può diventare un ingranaggio inceppato. Un ingranaggio inceppato ostacola il funzionamento della macchina. Non serve moltiplicare i propri punti di rottura. A volte ne basta uno per scatenare un’energia con forte carica rivoluzionaria. È un atto politico, di lotta. Un atto che inizia dalla mente, dalla persona.

    La forza politica si produce quando le alternative si traducono in reale, invadono la vita delle persone, la abbracciano, si compenetrano in essa. Quando l’arte, la cultura, il linguaggio, le singole azioni, entrano nella lotta, assumono un significato permeando la nostra vita in ogni suo momento e unificando la vita stessa con la lotta. Allora forse si può vincere.

    [youtube http://www.youtube.com/watch?v=lr7J5Wf28sw]

  • Il manganello tecnico

    post correlati: Il manganello facile

    La tecnica ci dice qual è il modo corretto di fare le cose: se non seguiamo i suoi dettami, stiamo tecnicamente sbagliando. Non c’è alternativa tecnica alle soluzioni tecniche dei problemi, quindi addossare a qualcuno la responsabilità di scelte tecniche finalizzate all’attuazione di soluzioni tecniche è non solo scorretto, ma anche stupido. Dal punto di vista di chi sostiene questo paradigma. Se non c’è altra scelta, che colpa ne ha il tecnico?

    Se il tuo computer non si accende, l’esperto di elettronica fa una diagnosi del problema e dice che purtroppo perderai i tuoi dati perché dovrai formattare il disco rigido, non puoi prendertela con il tecnico per la soluzione proposta, perché è l’unica possibile e dunque non è propriamente una scelta.

    Secondo un fronte comune che abbraccia la maggior parte dei giornali, dei politici e dell’opinione pubblica lo stesso vale per un governo tecnico: un tale governo non compie scelte, ma applica rigidamente i dettami imparziali della scienza economica, da cui derivano soluzioni univoche per risolvere i problemi di natura economica.

    Allora la militarizzazione della Val Susa non è più criticabile, perché è una militarizzazione tecnica. Fino alla caduta del governo Berlusconi, alle prime tensioni con le forze dell’ordine si accusava da più parte e a più riprese il governo di non saper intrattenere rapporti con i cittadini che fossero diversi dai lacrimogeni e dai manganelli. Ora, con il governo tecnico, non si parla più di cittadini: le persone coinvolte nelle tensioni e negli scontri sono sempre declassate a “violenti”, una categoria che si merita le botte, perché è composta da “incivili”. Le cariche della polizia, in quanto tecniche, sono giustificate, perché se il governo tecnico, responsabile, sobrio e austero del professor Monti le ordina, significa che non esiste alcun altro modo possibile di gestire la situazione: le cariche non derivano da scelte politiche, solo da “scelte” inevitabili di natura esclusivamente tecnica.

    Come è una scelta puramente tecnica quella di sbarrare la strada, lo scorso febbraio, a manifestanti pacifici di ritorno da un corteo No Tav, a manifestazione conclusa, con la celere in assetto antisommossa, ed è ancor più squisitamente tecnica la gestione delle operazioni da parte di un certo Spartaco Mortola, ex capo della Digos di Genova ai tempi della macelleria messicana, guardacaso assolto per i fatti di Genova «perché il fatto non sussiste» e guardacaso assolto anche dall’accusa di aver istigato alla falsa testimonianza durante il processo per l’irruzione della polizia nella scuola Diaz al G8 del luglio 2001.

    Ma il culmine dell’imparzialità e della sobrietà è stato toccato ieri, con la nomina di Gianni De Gennaro a sottosegretario di Stato da parte di Monti. Forse Monti, dopo il successo del film Diaz, ha pensato bene di manifestare il suo giudizio positivo, tecnico ovviamente, per l’operato ineccepibile, dal punto di vista tecnico ovviamente, durante il mandato di De Gennaro. Sopra, una foto esclusiva del suo curriculum.

  • I vegetariani e il sesso, i ricchi e il sesso

    Uno dei social network di incontri più frequentato è un sito che si chiama OkCupid.
    Conta diversi milioni di utenti e un’analisi dei loro dati può avere un certo valore statistico: questo è esattamente ciò che recentemente hanno provato a fare i gestori del sito, sottoponendo a decine di migliaia di utenti, di cui conoscevano i dati anagrafici e alcune altre informazione personali, una serie di domande su diversi temi, oltre che su quello strettamente sessuale, e poi incrociando le risposte. Per esempio, agli utenti veniva chiesto se usassero twitter e quanto; veniva anche chiesto se e quanto di frequente fossero soliti masturbarsi; infine si incrociavano le risposte per ottenere che, in questo campione statistico, mediamente chi manda almeno un tweet al giorno si masturba con una frequenza giornaliera significativamente maggiore che un utente qualunque.

    Qualcuno potrebbe dire: ma questo non prova nessun rapporto di causa ed effetto!

    E avrebbe ragione, perché una correlazione fatta senza troppo criterio rischia di non essere affidabile e di portare a conclusioni alquanto bizzare, come dimostra l’esistenza di questo sito, che, come spiega il fondatore Shaun Gallagher, «aiuta a scoprire sorprendenti correlazioni tra cose apparentemente non correlate: rispondendo ogni giorno a una domanda nuova, ci aiuterete a stabilire nuove correlazioni; al termine di ogni giornata i risultati del sondaggio vengono confrontati con quelli delle rilevazioni precedenti e i due legami più forti stabiliscono la correlazione definitiva». Ecco un esempio:

    In generale, il 33 per cento delle persone preferiscono le emoticons con il naso. Ma tra quelli che preferiscono il gelato in cono anziché in coppetta, il 44 per cento preferisce emoticons con il naso

    Però questo non mi intimorisce, perché mi sembra che la statistica fatta dai cervelli di OkCupid, i cui risultati sono stati pubblicati su una pagina del blog intitolata OkTrends, siano più significativi in quanto le domande poste e le correlazioni tra le risposte date non sono totalmente casuali ma sono mirate, ricercano la conferma di un’ipotesi, che a volte emerge e altre volte no. Sebbene alcune conclusioni siano a mio avviso piuttosto forzate, vale la pena spenderci su qualche parola.

    Mi limiterò a commentare il chart #3 e i chart #9 e #10, esponendo le possibili spiegazioni immaginate da me e da un mio carissimo amico. Questo ovviamente non toglie che tra i commenti ciascuno è invitato a fornire una possibile interpretazione!

    Il cartello 3 mette in relazione la scelta del vegetarianesimo con il piacere di dare sesso orale. Dalla statistica emerge che tra i vegetariani la percentuale di persone a cui piace dare sesso orale è sistematicamente più alta, sia tra gli uomini che tra le donne.

    Un’interpretazione che si potrebbe dare di questo risultato è che i vegetariani fanno spesso la propria scelta alimentare in sintonia con una più generica attenzione per il proprio benessere psichico e fisico, che si riflette anche sulle abitudini sessuali: ovviamente gli organi sessuali non sono l’unica zona erogena del corpo umano e il coinvolgimento di altre parti del corpo in pratiche sessuali può essere considerata una maniera per raggiungere il piacere e aumentare tale benessere.

    E se questa analisi non vi convince, potete comunque approfittarne per sbizzarrirvi nella creazione di alternative vegetariane al gergo sessuale usuale: non più “salsiccie” e “hot dog” ma “banane” e “meloni”, come si propone nell’articolo di OkCupid.

    Interessanti i cartelli 9 e 10, che correlano, più verosimilmente del precedente, il 9 la retta universitaria (il campione è studentesco) al numero ideale di rapporti settimanali che si vorrebbe avere, il 10 il PIL pro capite alla percentuale di persone «looking for casual sex», cioè in cerca di rapporti occasionali.

    Sistematicamente, gli studenti delle scuole più costose sono più desiderosi di sesso rispetto a quelli iscritti a scuole meno costose. Analogamente, più elevato è il PIL pro capite di un paese, maggiore è la percentuale di persone in cerca di sesso occasionale: in cima alla lista troviamo Svizzera (17.3%), Italia (16.3%), Giappone (16.3%), Austria (15.6%), mentre in fondo stanno Ghana (3.1%), Vietnam (4.2%), Nigeria (4.1%).

    Riporto qui il commento di un mio amico:

    «Darei la colpa all’intersezione di due fattori:
    1) Le università più costose tendono ad essere le migliori. Qual è la popolazione delle università migliori? Si tratta di studenti -in linea di massima- ricchi e -in linea di massima- ambiziosi, se non addirittura arrivisti. Non i nerds che uno magari si aspetta, ma persone abituate al “successo”.
    La persona arrivista è una persona che è eccitata e compiaciuta dal Traguardo, e il Traguardo è solo un sembiante come un altro del potere. Il sesso può essere un altro. Quindi non è sesso come gioco né come piacere, ma come status symbol e metafora.
    2) Le università più costose sono frequentate dagli studenti più ricchi. Gli studenti ricchi provengono dalle classi sociali più alte; e dunque sono stati educati nel culto del potere, nell’edonismo “perché-io-posso”, nel narcisismo e nell’ossessione dello Status (vedi punto 1)».

  • Convergenze ideologiche: il circolo fallace delle sociobiologie

    Le coincidenze a volte sanno essere sorprendenti. Nelle ultime due settimane ho esposto su questo blog le mie perplessità su chi ha la pretesa di considerare universali, naturali, indiscutibili presunti sistemi sociali o leggi economiche quando piuttosto la loro giustificazione è ideologica.
    Ho cercato di dimostrare, nei dibattiti sviluppatisi in calce agli ultimi due post, che non esiste un’astratta e settecentesca “natura umana”, perché l’uomo vive in ogni epoca e in ogni luogo immerso in un ambiente culturale e imbrigliato in una rete di rapporti sociali.
    E cosa mi capita di andare a seguire? Una conferenza, tenuta da Maria Turchetto, docente di epistemologia delle scienze sociali all’Università di Venezia, peraltro già da me conosciuta come direttrice de L’Ateo, che tratta proprio del tema che mi ha ultimamente affascinato e che continua ad appassionarmi. Ve ne propongo un riassunto, ricostruito dai miei appunti e dalla mia memoria.

    Non molti sanno che nella Bibbia sono contenute due versioni della Genesi: in una Dio crea l’uomo a sua immagine e lo crea maschio e femmina, nell’altra, quella più conosciuta, la donna Eva è creata da una costola di Adamo, successivamente alla creazione di quest’ultimo. Nella prima versione i due generi sono creati uguali, mentre nella seconda esiste una evidente subordinazione della donna all’uomo, sia materiale (deriva da una sua parte) che temporale (è creata dopo).
    Richiamandosi all’esegesi biblica, è proprio questo argomento che, nel 2004, l’allora cardinal Ratzinger usò per giungere a una conclusione sulle differenze di genere che si può riassumere con la seguente: è giusto che la donna si adoperi per la conservazione della famiglia tradizionale. La donna ideale è una brava casalinga.
    Partendo da presupposti differenti, di natura scientifica, negli anni Settanta E. O. Wilson, considerato il fondatore della sociobiologia, giunse alle stesse conclusioni: le donne devono anzi non possono non stare a casa e svolgere un ruolo di cura, perché tale ruolo è determinato geneticamente.
    Potrebbe sembrare strano che basandosi su due pensieri così diversi quali quello scientifico e quello religioso si raggiungano idee tanto simili. Eppure questi due ragionamenti hanno qualcosa in comune: il determinismo. Nel caso dell’argomentazione religiosa del cardinal Ratzinger si tratta di un determinismo metafisico («Dio ha detto così quindi non può che essere così»), nell’altro, di derivazione scientifica, di un determinismo meccanicistico («così è scritto inevitabilmente nei geni»); ma sempre di determinismo si tratta, di affermazione dell’esistenza di leggi naturali a cui è impossibile evitare di sottostare.
    Le argomentazioni di Wilson suscitarono moltissimo interesse ed ebbero successo, soprattutto presso il pubblico allora crescente di lettori di divulgazione scientifica, ma in verità non si trattava di un fenomeno nuovo: era l’ultimo di innumerevoli esempi storici di utilizzo della biologia come strumento di legittimazione delle disuguaglianze sociali.
    Tale utilizzo fu fortemente criticato dal genetista Lewontin, che confutò la teoria sociobiologica fin dalla sua formulazione. In un suo libro, intitolato Biologia come ideologia, egli getta luce sulla fallacia dei presupposti sociobiologici su cui Wilson elaborava le sue teorie: l’errore di Wilson risiede nel considerare un particolare sistema sociale come espressione universale e naturale del genere umano, anziché come costruzione di forze sociali, culturali, politiche.
    In questo, nell’epoca moderna è possibile la sostituzione della religione con la scienza come strumento di giustificazione della realtà sociale esistente, affermando attraverso il determinismo l’impossibilità di alternative.
    Storicamente questo è accaduto in epoca moderna con il darwinismo sociale, il razzismo scientifico, la sociobiologia di Wilson. Lorenzo Calabi (in Darwinismo morale) ha definito «circolo fallace» l’artificio dimostrativo che sarebbe sotteso ai ragionamenti basilari di queste teorie, ovvero:

    Astraggono un comportamento sociale moderno e lo traspongono in una condizione naturale, […] dando ad esso un significato in quella condizione. Astraggono poi il significato e lo ricollocano nella contemporaneità

    concludendo così che quel comportamento è naturale e intrascindibile. Questo salto ontologico non è razionalmente accettabile. Allo stesso modo, qualcuno potrebbe osservare le formiche in fila indiana e notare che somigliano a operai lungo una catena di montaggio; tornato poi in fabbrica, troverebbe gli operai al lavoro e, vedendoli in fila indiana, concluderebbe che, dal momento che anche le formiche adottano un comportamento simile, questo deve essere naturale («Toh, gli operai fanno come le formiche, evidentemente è una legge di natura!»).
    Il darwinismo sociale è stato formulato da Spencer nella seconda metà dell’Ottocento prendendo spunto dalla teoria darwiniana dell’evoluzione attraverso la selezione naturale: secondo Spencer, ciò che accade in natura, ovvero la lotta per la sopravvivenza e la vittoria del più forte, si replica all’interno della società e ciò avviene inevitabilmente in quanto dovuto a leggi insite nella natura animale dell’uomo. Oltre che per la forzatura e l’interpretazione inesatta della propria teoria (che parla di sopravvivenza del «più adatto» e non del «più forte»), Darwin respinse la paternità di tale trasposizione sociale dell’evoluzionismo non appena gli fu rinfacciato di aver giustificato Napoleone e ogni commerciante che raggiri i clienti, in quanto più forti. Anzi, in opere successive esaltò le qualità collaborative e di solidarietà dell’animale uomo.
    Marx, con una strizzata d’occhio al naturalista, riconosceva il circolo fallace nella concorrenza e nell’interpretazione che Spencer ne dava («Nel mercato c’è concorrenza. La competizione è naturale. Dunque il mercato è naturale»).
    In effetti, nel caso del socialdarwinismo, il circolo fallace di cui parla Calabi non si chiude: Darwin aveva esplicitamente preso ispirazione, nella formulazione della sua teoria, dall’economista Malthus; ma Malthus non aveva preso ispirazione dalla natura. Si tratta dunque di un semicerchio, in cui la fallacia non risiede tanto in un salto ontologico bensì nell’invasione, da parte del darwinismo, di un ambito esterno al suo campo di applicabilità.

    La sociobiologia di Wilson attribuisce ai geni la responsabilità per comportamenti sociali, procedendo come segue: descrive caratteri comuni dell’essere umano in ogni luogo e in ogni tempo; afferma che tali caratteri sono universali perché genetici; conclude che, essendo genetici, sono stati determinati dal processo della selezione naturale, che seleziona caratteri vantaggiosi per l’individuo e, per estensione, per la specie. Ovvero: viviamo nel migliore dei mondi possibili.
    I più notevoli tra i caratteri comuni sono, guarda caso: eterosessualità, monogamia, amore per la proprietà privata, predominio del sesso maschile, xenofobia. Si tratta insomma di un pensiero profondamente reazionario espresso in forma scientifica. Oggi un qualunque antropologo può confermare che i caratteri sopracitati non sono effettivamente comuni alle società umane in ogni luogo e in ogni tempo, eppure liquidare la teoria di Wilson come stupida è inutile e potrebbe addirittura rivelarsi dannoso: le masse di “profani”, infatti, notoriamente tendono a optare per la via più lineare, semplice e breve e trascurare questo fenomeno comporta il rischio che si ripetano grandi tragedie come quelle che il secolo XX ha tristemente conosciuto.
    Va quindi confutata razionalmente punto per punto. La confutazione sistematica di questo modus operandi prende in esame i passaggi logici in cui si articola e l’affidabilità sperimentale delle presunte affermazioni scientifiche in esso contenute:
    –la scelta di caratteri comuni non è scientifica, perché non contempla un controllo; inoltre ignora concetti elementari di antropologia
    –affermare che i caratteri comuni sono universali significa confondere la descrizione di un fenomeno con la sua spiegazione
    –affermare che i caratteri comuni sono genetici non ha semplicemente senso: sarebbe come dire che siccome in Finlandia sono quasi tutti luterani allora esiste il gene del luteranesimo.
    –il meccanismo di espressione genica proposto denota una profonda ignoranza dei principi di biologia dello sviluppo (che del resto erano ancora poco chiari negli anni Settanta)
    –ricondurre la presenza di ogni carattere a eventuali vantaggi evolutivi significa seguire erroneamente un ingenuo adattazionismo (mentre non tutto ciò che c’è c’è perché favorito dalla selezione naturale, come spiegato elegantemente qui da Lewontin e Gould). Ragionando così, potremmo dimostrare che le mele cadono verso il basso perché la selezione naturale ha sfavorito quelle che “cadevano verso l’alto”.

    Insomma, i tentativi di legittimazione biologica dei sistemi sociali sono di scarso grado di scientificità. Da sempre le classi dominanti hanno cercato di fare apparire le differenze di classe come differenze antropologiche naturali, ma ciò impone loro di rievocare il mondo naturale, in cui, purtroppo per loro, l’enorme varietà di comportamenti e strategie rende del tutto arbitraria la scelta che operano sugli aspetti della realtà: per esempio, in natura la formica regina è la casalinga perfetta, non esce mai di casa e non fa altro che sfornare figli, e sarebbe un ottimo modello per chi volesse sostenere le disuguaglianze di genere, se non fosse che è incestuosa, dato che solo una copula con i propri figli maschi può farle avere figlie di sesso femminile. Ora, nessuno prenderà la formica regina come esempio per dimostrare la naturalità dell’incesto, invece ciò può accadere per il ruolo di cura del sesso femminile o per la catena di montaggio fordista.

    Confutati i principi della sociobiologia, resta da individuare cosa, se non i geni, determina i comportamenti umani nelle loro relazioni sociali. Nel fare questo, si deve reprimere la tendenza a considerare l’umanità, specificità distintiva del genere umano, in contrapposizione all’animalità.
    In Ontogeny and phylogeny, S. J. Gould insiste sulla continuità tra uomo e altri animali: sul piano genetico, uomo e scimpanzé sono affini per più del 98%. Allora cosa ci contraddistingue sul piano cognitivo? La risposta deriva paradossalmente proprio dall’alto grado di affinità genetica con i primati più vicini all’uomo: strettissima somiglianza genetica ma importanti differenze nei caratteri rivelano che le differenze genetiche interessano geni regolatori, che influiscono sulla costruzione dell’assetto morfologico, sui tempi dello sviluppo, sull’espressione di altri geni. Da qui deriva l’ipotesi, oggi piuttosto accreditata, che l’evoluzione dell’uomo a partire dalle grandi scimmie primitive sia un caso di neotenia, ovvero di ritenzione di caratteri infantili nello stadio di vita adulto: un uomo appena nato somiglia molto più ad un feto tardivo di scimmia che a una scimmia appena nata e un uomo adulto somiglia molto più ad una scimmia appena nata che a una scimmia adulta. L’uomo ha mascelle non prominenti e denti piccoli, ha pochi peli sul corpo, ha una notevole capacità di apprendimento, è capace di digerire il latte anche da adulto, nelle femmine la vulva è in posizione più frontale che negli altri ominidi, e soprattutto la testa nei neonati è grande in proporzione al resto del corpo e contiene un cervello che alla nascita non è ancora completamente sviluppato.
    Da quest’ultima caratteristica dipende il fatto che lo stadio dello sviluppo dell’encefalo che nelle altre scimmie è fetale, nell’uomo avviene in un neonato che è già a contatto con l’ambiente esterno, costituito principalmente dall’esperienza culturale.
    Allora non si può più dire che gli elementi comuni all’uomo in ogni tempo e in ogni luogo, ammesso che ce ne siano, sono di derivazione genetica, perché potrebbero essere dovuti all’influenza culturale! Che, siccome non è eliminabile, non permette di isolare sperimentalmente i fattori esclusivamente genetici: durante lo sviluppo del cervello, la cultura lo plasma, non solo metaforicamente ma anche materialmente, promuovendo la realizzazione di sinapsi tra certe popolazioni di neuroni piuttosto che tra altre, la sintesi di certi neurotrasmettitori piuttosto che di altri.
    Qualcuno a questo punto potrebbe pensare di aver dimostrato che l’uomo è del tutto privo di determinazione comportamentale. Non è esattamente così.
    Innanzitutto restiamo esseri corporei, costruiti secondo informazioni contenute nei geni, e tale vincolo non è da trascurare, almeno in linea teorica. Per quanto concerne il comportamento, comunque, è l’ambiente a farla da padrone (del resto il comportamento è definito come «modo di agire di un individuo nei rapporti con l’ambiente e con le persone con cui è a contatto») e nel caso dell’uomo l’ambiente è approssimativamente assimilabile alla cultura: non c’è nulla di assoluto.

    Detto questo, aggiungo una mia riflessione.
    Siamo dunque determinati nei comportamenti non tanto da fattori genetici quanto da fattori culturali. Ora, se fossimo determinati dai geni dovremmo pensare, come i sostenitori del pensiero unico e dei vari tipi di determinismo biologico, che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che lo stato di cose presente è inevitabile, che non esistono alternative possibili, perché i geni non sono sotto il controllo della nostra volontà.
    Ma siamo determinati dalla cultura, che al contrario dei geni è una nostra costruzione, e che se non ci piace possiamo distruggere, proprio come l’abbiamo costruita, seppur tra mille difficoltà.
    Viva Kant, viva la liberazione sociale.

  • Le ideologie sono sempre degli altri

    (breve manuale di autodifesa nell’era post-ideologica)

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    C’è chi dice che l’uguaglianza sociale tra gli uomini «porterebbe la società ad atrofizzarsi», perché il singolo individuo non troverebbe più ragioni per fare del suo meglio al fine di contribuire allo sviluppo culturale, scientifico, economico della società in cui vive, se non gli fosse garantito un tornaconto strettamente personale.
    A prescindere dall’adesione o meno al concetto espresso in questa frase, intendo mostrare che essa è di natura ideologica, né più né meno della frase «il capitalismo è intrinsecamente ingiusto», che è ovviamente stata tacciata di essere ideologica e non aderente alla realtà.

    Cominciamo con un primo concetto: la parola “ideologia”, nel discorso che segue e ove non diversamente specificato, è usata nella sua accezione comune, quella giornalistica e dei saltimbanchi dei salotti televisivi. Ovvero, è un’interpretazione della realtà che si pone dei punti di riferimento e degli schemi interpretativi e che fa ricadere praticamente ogni fatto sociale, politico, economico, culturale, nella sfera di interpretazione definita da tali schemi. Spesso l’accusa di essere ideologico è usata per screditare l’interlocutore, sottintendendo che l’ideologia è un male da estirpare, per persone dalla mente chiusa, incapaci di accettare qualunque cosa che non si accordi perfettamente con i loro dogmi, i loro miti e le loro idealizzazioni.

    Questa retorica contrappone alle ideologie, vecchie e sconfitte, le idee, nuove e portatrici di pensiero critico; allo stesso tempo afferma la necessità di basarsi sui fatti e di adottare un pensiero post-ideologico per il bene dell’umanità, pensiero che è insegnato nelle scuole e nelle università ed è veicolato dai mezzi di comunicazione di massa, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente. Però qualcosa non torna nella pretesa di essere post-ideologici: se l’ideologia è uno strumento di interpretazione dei fatti, cosa significa superare le ideologie? Se significa rinunciare a schemi organici di interpretazione della realtà, cioè osservare i fatti senza la pretesa di interpretarli, allora tale superamento non ha senso.
    Prima di tutto perché l’oggettività assoluta non esiste: neanche la scienza, che è quanto di più vicino all’oggettività l’uomo abbia mai prodotto, rinuncia all’interpretazione dei fatti, anzi è essa stessa una loro interpretazione. I fatti, qualunque sia la loro natura, devono essere interpretati e l’interpretazione che se ne dà costituisce quella che comunemente è detta ideologia.
    In questo modo cade la distinzione tra idee e ideologie. Cosa sono le idee, astrazioni slegate dalla realtà dei fatti? No: se così fosse, di che utilità potrebbero mai essere? Anche le idee derivano da un’interpretazione, che non è concettualmente diversa da quella che conduce alle cosiddette ideologie.

    Ma se il superamento delle ideologie non è possibile, che cosa nasconde la pretesa di essere post-ideologici?
    Propugnare il superamento delle ideologie significa di fatto sostenere un’ideologia del pensiero unico, in cui si accettano le idee e si respingono le ideologie: generalmente chi fa questo discorso di contrapposizione tra idee e ideologie tende a considerare idee tutto ciò che fa parte dell’ideologia dominante e ideologia tutto ciò che non ne fa parte. La distinzione tra le due cose è dunque fittizia ed arbitraria. Anzi, con una strizzata d’occhio diciamo pure che è ideologica (marxianamente, questa volta!).

    Così, l’affermazione «il capitalismo è intrinsecamente ingiusto», che si basa su un patrimonio filosofico e politico che spazia da Marx a Žižek passando per Marcuse e Debord, è ideologica tanto quanto la convinzione che «l’uguaglianza sociale porterebbe la società ad atrofizzarsi», che descrive ciò che accadrebbe se l’uguaglianza sociale fosse praticata in un sistema capitalistico, che ha le sue leggi economiche difficilmente applicabili ad altri sistemi. Infatti, l’esistenza in passato (ma anche nel presente) di società egualitarie, spesso basate sulla distribuzione equa delle risorse e della produzione, che non sono implose, ma anzi sono prosperate per secoli o millenni, dimostra bene che l’affermazione ha scarsa capacità descrittiva dello stato reale di cose, non appena si esce da un sistema capitalistico.

    Ora, che l’economia borghese pretenda velleitariamente di descrivere leggi universali è già stato detto da qualcuno che ne sapeva sicuramente più di me, ed è stato poi confermato da altri e da altri ancora.
    Il punto è prenderne coscienza, tutti, e non farci ingabbiare dalla logica del pensiero unico.