Author: Monsieur en rouge

  • Sull’egemonia culturale

    Ecco quella che potrebbe essere la domanda di inizio di un saggio, anche interessante, ma che invece voglio destinare ad un’altra funzione: quella del dibattito e della riflessione. Sono sempre più convinto (e sempre più socialista..) che il marxismo sia un’ottimo strumento di analisi sociopolitica e sociologica in genere, ovviamente soprattutto nell’ambito economico, e non tanto per i suoi fini, la cui discutibilità e condivisione sono soggette all’arbitrio dei singoli e il cui valore è dunque soggettivo, quanto per il suo metodo, che è piuttosto oggettivo e sa indagare al cuore dei problemi in questione. La domanda è dunque:

    Cosa rende lo storico scienziato (“cosa rende il marxista” direbbe Gramsci) così persuaso della correttezzza della teoria gramsciana dell’egemonia culturale, così propenso ad accettare l’idea secondo cui il sistema valoriale della classe produttiva non è che un’imposizione camuffata, un’elaborazione pianificata e saggiamente studiata dalla classe dirigente per il mantenimento dello status quo, cioè del proprio potere?

  • Sull’estetica del conflitto [parte 2]

    Manifestazione bracciantile a Mantova, 1957

    Il modello della minaccia, che evidenzia un conflitto reale, è valido solo sotto certe condizioni, che naturalmente non sempre si verificano in ogni sistema sociale, in ogni luogo e in ogni epoca, come naturalmente non mantengono la propria validità in ogni sistema sociale, in ogni luogo e in ogni epoca le leggi socio-economiche che molti ritengono, a torto, avere un carattere assoluto.

    A prescindere dalla moltitudine di fattori che possono avvalorare o, al contrario, compromettere l’applicabilità del modello della minaccia, esiste un presupposto per la sua efficacia, ovvero l’effettività della minaccia stessa: deve prospettare al minacciato la possibilità che realmente egli corra un rischio non trascurabile. Tolto ciò, la minaccia perde il suo valore potenziale ed è assunta piuttosto come semplice reiterazione tradizionale di linguaggi non più credibili non solo nella forma ma anche nella sostanza. Quando gli operai per entrare nella storia minacciavano il blocco della produzione, la classe a cui essi si rivolgevano sentiva e subiva la minaccia perché era cosciente che un’eccessiva negligenza avrebbe realmente rischiato di compromettere l’esistenza del sistema che loro, per sé stessi, avevano costruito, perché sapevano che certamente gli operai, se l’avessero voluto, avrebbero potuto bloccare definitivamente una fabbrica, un paese o una nazione forgiando un sistema alternativo all’esistente modellato su basi già poste da altri, decenni prima, solo sul piano teorico ma con l’intenzione dichiarata di non lasciare che restassero meri scritti utopici e inconcludenti. Questo significava il blocco del sistema produttivo: plasmare la realtà concreta dandole una forma voluta, realizzare il sogno di pensatori e grandi uomini del passato, riscattare la dignità di miriadi di esseri umani che avevano da sempre popolato la storia del mondo.

    Risulterà allora chiaro che il blocco produttivo come strumento ha senso soltanto quando è causa della rovina di chi controlla il sistema produttivo; che esso non può dunque valere come minaccia se non implica la certezza che al blocco produttivo seguirà un insieme di blocchi in grado di rendere inutile la strategia di sopravvivenza dell’altrui sfruttamento, se non implica in ultima anlisi la volontà e la possibilità di proporre un «ordine nuovo».

    Oggi questa condizione fondamentale manca, pertanto è poco efficace, ai fini della lotta, tutto il linguaggio che da tale condizione fondamentale ha tratto in passato le mosse: sarebbe una reiterazione poco credibile non solo nella forma ma anche, particolarmente, nei contenuti.

    Ed è per questo che cambieremo linguaggio e parleremo dell’estetica del conflitto, del modo con cui si trascina dietro il ricordo di vecchie forme di lotta (il ché non è di per sé negativo, anzi più che meritevole) eppure trascura la speculazione teorica (l’elaborazione di nuove idee, o ancora meglio sistemi di idee, teorie, che spieghino a quelle miriadi di esseri umani cosa succede nel mondo reale) e l’invenzione di forme di lotta nuove, che sostituiscano le vecchie e tornino a rappresentare una minaccia vera, viva, valida.

  • Sull’estetica del conflitto [parte 1]

    Fin dai primi anni di elaborazione delle teorie marxiste e della conseguente presa di coscienza del conflitto sociale di classe, la struttura di quest’ultimo ha trovato sostegno pragmatico e giustificazione teorica nella pratica della minaccia.

    I movimenti operai  dei primi del Novecento contavano sulla possibilità reale di provvedere, se le istanze proprie della classe proletaria non fossero state prese in considerazione dalla classe proprietaria, alla costruzione di un modello organizzativo autonomo e autogestito che capovolgesse dialetticamente i rapporti tra capitale e lavoro salariato, così che, per dirla con Marx stesso, o meglio, per ragioni di precisione storico-filologica, con Hegel suo maestro, il servo potesse diventare «padrone del padrone» e viceversa, il padrone potesse diventare «servo del servo».

    Si pensi, per esempio, al cosiddetto biennio rosso (1918-20), periodo di intensi contrasti e fortissimi conflitti, anche parecchio sanguinarî, che sorsero spontaneamente in tutto il continente europeo e per due anni furono sul punto di mettere in ginocchio lo Stato borghese riducendolo progressivamente ad una condizione di timore che si risolse, secondo la situazione specifica di ogni paese, con l’istaurazione di governi reazionari, militaristi o addirittura, come nel caso della Germania e dell’Italia, totalitari o quasi-totalitari: durante il suddetto periodo l’efficacia della protesta dipendeva primariamente dalla capacità che avevano gli organi di resistenza economica e sociale (partiti rivoluzionari e camere del lavoro) di presentare alla classe non produttiva una minaccia, cioè la minaccia di rivoluzionare il sistema produttivo attraverso l’utilizzo di quella stessa disciplina e organizzazione che il vecchio sistema aveva insegnato, qualora gli esponenti del vecchio sistema e i magnati industriali non avessero sua sponte ceduto, infine, di fronte ad una crisi economica evidentemente irrecuperabile nel rispetto dei diritti umani, tra cui il diritto al lavoro, ad una vita vivibile e fuori dalla schiavità e dallo sfruttamento.

    Il fenomeno non è valido solo per il periodo circoscritto di cui sopra, ma è rappresentativo di un’epoca intera, in cui l’aut aut dato da chi protesta suona più o meno così: «visto che a lavorare e rendere operative le vostre decisioni siamo noi, o decidiamo anche noi, oppure lavoriamo da soli e, in assenza di chi lo renda operativo seguendo le vostre disposizioni, non avrà più alcun senso il vostro decidere». I soggetti di questa minaccia sono i consigli di fabbrica e le cooperative agricole, e gli strumenti per esprimerla e renderla manifesta sono gli scioperi, l’occupazione delle fabbriche e, anche sul piano sociale e cognitivo, i centri sociali, da considerarsi come mezzi di affermazione e diffusione dei saperi indipendenti in cui convergono e vengono incanalate le altre forme di lotta e, eventualmente, ne vengono elaborate nuove attraverso lapratica della consivisione e dello scambio democratico e dialogico.

    [continua…]

  • Prefazione al Manifesto del partito comunista

    Il Manifesto riconosce appieno il ruolo rivoluzionario giocato nel passato dal capitalismo. La prima nazione  capitalistica è stata l’Italia. La conclusione del Medioevo feudale e l’inizio della moderna era capitalistica sono segnate da una figura grandiosa : è un italiano, Dante, l’ultimo poeta medievale e insieme il primo poeta della modernità. Come nel 1300, una nuova era è oggi in marcia. Sarà l’Italia a darci un nuovo Dante, che annuncerà la nascita di questa nuova era, l’era proletaria? 

    Londra, 1° febbraio 1893
    Friedrich Engels 

    Povero illuso, Engels… 

  • Pecore rosse

    Pensate a come sarebbero andate le cose se le pecore avessero avuto lana rossa anzichè bianca.
    I Fenici, essendo un popolo di pastori e con molta lana rossa in giro, non avrebbero certo avuto l’esigenza di basare la propria economia sulla porpora, tintura ottenuta dopo una complicata lavorazione di molluschi marini, e non sarebbero dunque diventati così ricchi da avere il monopolio economico di migliaia di chilometri di costa mediterranea; di conseguenza, probabilmente non avrebbero fondato Cartagine, e Roma 6 secoli dopo non avrebbe trovato alcun ostacolo nella sua espansione; probabilmente una Roma senza guerre puniche non avrebbe conosciuto la crisi politica e sociale origintasi come conseguenza del periodo di intense guerre che privarono i piccoli proprietari terrieri della propria attività rendendoli ostili agli aristocratici patrizi. Niente populares e optimates, perciò, e quindi niente Cesare, il conquistatore della Gallia. Forse sarebbe stata conquistata più tardi, o forse affatto. Fatto sta che senza un Cesare che centralizzi il potere e inneschi il periodo delle guerre civili, la potenza repubblicana romana sarebbe esistita più a lungo; escluso anche Augusto, principe e primo imperatore romano, neanche il grande Impero si sarebbe formato. Gli attriti sociali sarebbero scoppiati probabilmente in seguito, qualche secolo dopo.
    In tale situazione, forse il Cristianesimo non avrebbe riscosso così successo, in un momento in cui i valori del mos maiorum non venivano di certo a mancare; tuttavia questo avrebbe contratto consensi, se eventualmente si fosse sviluppato, solo a Oriente e in province romane di recente conquista (come forse la Gallia meridionale).
    Il medioevo, o meglio il periodo seguito alla fine dell’egemonia economica e culturale romana, non sarebbe stato dominato dal  lontano sogno di ricostituire un Impero mai esistito; niente dunque diatribe tra Chiesa e Impero, non essendoci probabilmente neanche una Chiesa così capillarmente istituzionalizzata. Senza Impero caduto infatti la Chiesa non si sarebbe sentita erede di nessuna potenza politica. Eventuali papi medievali non avrebbero indossato abiti rossi, in quanto il rosso sarebbe stato il colore della plebe, dei pastori e dei nullatenenti, ma magari blu, verdi, gialli.
    Le classi sociali sarebbero state più vicine alla tipologia romana, nella suddivisione tra equites, optimates, proletarii, servi.
    Inoltre, niente medioevo vuol dire niente Rinascimento o almeno non come lo studiamo, e niente Rinascimento vuol dire molte altre cose e queste ne implicano altre.

    Insomma, ci rendiamo conto di quanto un semplice scambio di colore possa influire sul corso della storia, così come può farlo e lo fa qualsiasi piccola cosa, benchè minima. Anche se governato da leggi universali, il mondo è affidato al caso, e io sia dannato da Dante Alighieri perchè io sono colui che <<tutto a caso pone>>