Che io sappia, nessun quotidiano italiano sta riportando la lettera di Deniz Pinaroglu, giornalista turco arrestato a Piacenza e rinchiuso nel CPR di Torino perché senza documenti, dopo aver fatto richiesta di asilo politico, e attualmente in sciopero della fame per denunciare le condizioni di una detenzione ingiusta.
Molti giornali, specie nell’area liberale e progressista, stanno riportando la notizia con indignazione per il fatto che, come spiegato dal suo legale Federico Milano e riportato in una comunicazione della responsabile del comune di Torino Monica Gallo, garante dei diritti delle persone recluse, Deniz è un rifugiato politico (in Turchia, essendo attivista di sinistra, rischia di essere arrestato per motivi politici) e «non ha fatto niente». Dopo aver sottolineato nei titoli a caratteri cubitali che il giornalista non ha fatto niente facendo passare l’idea che la detenzione in un CPR sia solitamente riservata a persone che invece hanno fatto qualcosa in particolare, negli articoli in questione il passato e il presente di Deniz vengono raccontati brevemente, tralasciandone l’importante attività di documentazione che ha svolto negli ultimi anni alle frontiere europee e soprattutto nel presente, in questi giorni di detenzione a Torino, proprio a proposito delle condizioni inaccettabili all’interno del CPR e del meccanismo giuridico-amministrativo infernale del sistema della cosiddetta accoglienza. La Repubblica riporta a fine articolo le parole di Alda Re, dell’associazione Lasciateci entrare: «vuole essere trattato come rifugiato politico. Invece si ritrova in un inferno in terra». Non si aggiunge niente, nessun elemento che potrebbe stimolare la riflessione sul contesto degli eventi narrati. Forse che tutte le altre persone rinchiuse ingiustamente nel centro per l’unico motivo di non avere documenti in regola non vivono lo stesso inferno in terra? Forse che tutti gli altri e le altre non sono come Deniz rinchiuse “senza aver fatto niente”? Forse che l’«ingarbuglio giuridico» di cui parla La Stampa, in cui sarebbe intrappolato Deniz, è diverso dalla corsa a ostacoli dell’odissea amministrativa vissuta dagli stranieri indesiderati dalle politiche europee?
Se i giornalisti che scrivono questi articoli avessero un minimo di etica professionale e di reale spessore morale, se provassero un qualche moto di solidarietà per un collega ingiustamente imprigionato insieme a decine di migliaia di altre persone che non hanno fatto nulla, se fossero veramente scandalizzati per le sue condizioni, se avessero davvero a cuore la sua causa e l’importanza del suo lavoro, pubblicherebbero la sua lettera e la diffonderebbero per aiutarlo a documentare questa situazione di cui le istituzioni sono responsabili, nel silenzio della stampa di sistema. Invece no: la lettera è del tutto ignorata, al giornalista imprigionato non viene data alcuna voce, e diventa soltanto il simbolo di quanto sia cattivo il regime di Erdogan.
La lettera invece descrive piuttosto chiaramente la vita quotidiana all’interno di un CPR: parla di pressioni psicologiche, di ricatti, di ingiustizie e condizioni terribili e disumane, di atti di violenza e intimidazione, maltrattamenti sistematici, problemi di salute, attacchi di panico. Forse se questa lettera non è stata pubblicata è perché mette chiaramente in luce che la situazione assurda in cui si trova Deniz e le condizioni inaccettabili in cui sta vivendo non sono un caso isolato, ma la normalità del sistema di accoglienza e di detenzione europeo, che non ha colore politico distinguibile all’interno dello spettro delle posizioni attualmente rappresentate istituzionalmente, in una società sempre più xenofoba che accetta con sempre meno problemi una qualsiasi violazione dei diritti fondamentali. L’esilio di Deniz diventa sui giornali italiani simbolo di quanto sia cattivo il regime di Erdogan; su quanto sia cattivo anche il regime dell’altro lato del Bosforo e dei Dardanelli, sui giornali italiani non è ovviamente fatto cenno, ma di questo diventa simbolo il disinteresse l’indifferenza per le parole di Deniz mostrati da tali atteggiamenti.
La lettera di Deniz Resit Pinaroglu (grazie a Blackpost per la traduzione in italiano)
Alla stampa e alla pubblica opinione,
Sono Deniz Resit Pinaroglu, un richiedente asilo dalla Turchia. Sono detenuto da un mese in un campo chiamato CPR a Torino. Sono stato soggetto di una serie di abusi e di pratiche contro la legge. Un poliziotto di Piacenza mi ha fermato e portato qui, in questo campo, ormai due mesi fa. Mi disse che sarei dovuto stare qui solo per 2 giorni. Senza fornirmi un avvocato ed avermi messo a disposizione un traduttore, mi hanno fatto firmare dei documenti in italiano, e mi hanno portato al CPR.
Nella mia prima apparizione davanti a un giudice, è stata decisa la mia permanenza nel campo, senza neanche dare un’occhiata al mio caso.
Ero in cerca di asilo, ma non in Italia. Una volta fermato mi dissero che nel caso in cui non avessi fatto la richiesta di asilo, sarei stato rimpatriato in Turchia, dove sono stato accusato di alcuni crimini, che qui non sono considerati tali. Mi hanno costretto dunque a firmare una richiesta di asilo. Sebbene io abbia comunicato anche il mio indirizzo di residenza, in seguito alla richiesta di asilo, il giudice ha deciso di continuare a tenermi recluso nel campo. I poliziotti e gli altri rifugiati, che sono attualmente prigionieri, mi dicono che il mio periodo di detenzione potrebbe andare da i 6 ai 12 mesi, e nessuno mi ha ancora comunicato quando potrò lasciare il campo. Ho dovuto lasciare il mio paese date le ingiustizie compiute dal mio governo, e per le assurde accuse mosse contro di me. Ora sono detenuto senza alcun titolo dalle autorità italiane. Per protestare contro questa situazione illegale, ho iniziato uno sciopero della fame dal 1 settembre alle ore 21:00. Le condizioni e il cibo qui sono terribili: il bagno, il luogo dove mangiamo e dormiamo, sono un unico ambiente non distinto. Per impedirci di documentare queste condizioni disumane, hanno rotto le fotocamere esterne dei nostri telefoni non appena siamo arrivati. Per un mese ci hanno fatto mangiare pollo secco e pasta fredda. Molte persone soffrono di attacchi di panico e si fanno male tra di loro, o a loro stessi. Le persone sono sottoposte sistematicamente a pressioni psicologiche. Coloro che arrivano sani, lasciano il campo con problemi di salute e mentali.
La richiesta da parte mia, e dalle persone qui, è che chiunque sia in contatto con le istituzioni o con organizzazioni, e si trovi di fronte a questo testo, possa informarle al più presto, invece di rimanere in silenzio ed essere complice in questo crimine contro l’umanità, aiutateci.
Dichiaro di essere in sciopero della fame, fino a quando qualcuno sentirà la mia voce, e sarò libero.
Coloro che hanno deciso di detenermi qui sono responsabili di tutti i problemi di salute che avrò in seguito allo sciopero.
Qui qualche informazione in più sulla storia di Deniz, per chi vuole farsi un’idea del contesto della sua attività di giornalista e attivista.
Condivido questa notizia perché mi sembra sintomatica di tendenze continentali.
Nel paesino di non più di tremila anime di Saint Jean du Gard, nel sud della Francia, sta succedendo qualcosa di rivelatore. Saint Jean du Gard è una piccola cittadina calma, mai stata interessata da particolare fermento politico; tuttavia, quest’anno un comitato di cittadini si è organizzato contro l’installazione dei contatori elettrici automatici Linky, sollevando allo stesso tempo critiche sull’operato del sindaco Michel Ruas. Tutto ciò che si sono limitati a fare è stato distribuire dei volantini al mercato settimanale (ripeto: è veramente tutto ciò che si sono limitati a fare, non è accaduto nulla che possa legittimare il seguito di questa storia). In tutta risposta, il sindaco ha reagito vietando qualsiasi volantinaggio per la durata di un anno e, cosa ancora più incredibile, le autorità locali della provincia in cui si trova il comune di Saint Jean du Gard, hanno preso provvedimenti per l’attuazione dell’ordinanza municipale, dispiegando squadre di forze dell’ordine intorno al mercato settimanale.
La mattina del 20 agosto, al mercato c’era un banchetto del comitato cittadino, com c’era stato ogni settimana nei messi precedenti, e per tutta la settimana erano circolati appelli per mobilitarsi contro l’ordinanza liberticida del sindaco Ruas. Una donna del comitato non ha fatto neanche in tempo a distribuire una fotocopia dell’ordinanza firmata da sindaco, che i gendarmi sono intervenuti per multarla. Sgomente, molte persone presenti hanno chiesto che finisse questa pagliacciata non troppo divertente, o semplicemente chiesto spiegazioni. La risposta è stata un’aggressione violenta: i gendarmi hanno sbattuto tutti contro il muro accusando perfino una persona disabile, che per camminare usava le stampelle, di brandire un’arma impropria, in modo da giustificare i propri comportamenti violenti “in nome della sicurezza”.
Ora, è chiaro da mesi a chiunque abbia seguito il movimento dei gilet gialli che la Francia stia scivolando precipitosamente in un fascismo in salsa neoliberale, con i suoi arresti preventivi, i divieti di manifestazione, le norme deliranti approvate in nome della lotta al terrorismo che colpiscono inesorabilmente il dissenso sociale, la repressione giudiziaria inaudita da un secolo a questa parte, i contestatori mutilati o uccisi dalla polizia, gli attacchi violenti e gratuiti da parte delle forze dell’ordine ormai in un delirio di onnipotenza rafforzato dall’impunità, e l’approvazione, la complicità o le spallucce degli esponenti del mondo politico.
Qui siamo a un livello molto più sottile: quando dico che quanto accade a Saint Jean du Gard è rivelatore intendo dire che è l’esemplificazione perfetta del modello di gestione del territorio adottato dalle istituzioni locali “bipartisan” in molti paesi europei. In tutto il continente fioccano ordinanze o provvedimenti locali che impongono ai cittadini come devono sedersi, come devono stendere i panni, come devono vestirsi, come devono farsi il bagno al mare, come devono scrivere un commento sui social, come devono mangiare, come devono essere senza fissa dimora, come devono comportarsi con gli stranieri, che orientamento ideologico devono avere (sì, ciascun elemento di questa lista corrisponde a una o più fatti realmente accaduti) insomma come devono vivere, e la lista può continuare a lungo.
Tutto questo conduce, e non può che condurre, alla morte della democrazia, intesa come rispetto della pluralità delle forme di vita: il piano non è più strettamente politico (e preciso “strettamente” perché in fondo tutto è politica), riguarda appunto semplicemente le forme di vita, la diversità sociale, biologica, etnica, politica, culturale, personale, diversità schiacciata da un’ideologia della normazione che si fa sempre più oppressiva, asfissiante e violenta.
A chi minimizza notando che si tratta di singoli piccoli provvedimenti isolati va ricordato che è esattamente così che si impongono le ideologie e le culture dominanti: attraverso singoli piccoli provvedimenti apparentemente isolati. E quando sarà chiaro e lampante a chiunque il significato non trascurabile di quell’apparentemente, sarà troppo tardi, perché l’ideologia sarà già definitivamente senso comune.
Intanto, per chi potesse, l’appuntamento è il 27 agosto al mercato di Saint Jean du Gard, contro la barbarie.
Torino, oggi pomeriggio. Un uomo senza fissa dimora allestisce un giaciglio di fortuna in via Cuneo, in uno spazio che il supermercato utilizza come deposito. I residenti, di fronte a una persona in evidente difficoltà, invece di cercare di capire come aiutare, segnalano alla polizia la presenza di un membro di quella categoria di persone che Salvini qualifica come “balordi” e “violenti”, che presto potranno essere allontanati da tutti i centri cittadini in virtù di poteri eccezionali conferiti ai prefetti.
Quando i poliziotti si recano sul posto e raggiungono l’uomo, all’ingiunzione di spostarsi questi oppone resistenza al controllo delle volanti e aggredisce i poliziotti con il primo oggetto che trova per terra, brandisce una sbarra di ferro per difendere il poco che ha, tipo il diritto ad esistere e ad occupare uno spazio visto che non può certo scomparire per far piacere ai residenti. In questa scomposta difesa, in cui tra le altre cose invoca il proprio Dio, ferisce in maniera non preoccupante i due agenti.
Notiamo qualche dettaglio su come La Repubblica riporta l’accaduto.
Innanzitutto, è indicativa già solo la scelta di considerare questi fatti una notizia da riportare su un giornale di copertura nazionale: “violenze” e “aggressioni” di questo tipo si verificano piuttosto spesso, probabilmente ogni giorno, tuttavia non finiscono sulla home dei giornali a carattere nazionale. Il motivo per cui questo caso ci finisce è abbastanza chiaro e ha a che vedere col carattere nazionale di questo giornale, non nel senso geografico ma in quello politico: l’uomo senza fissa dimora è infatti senegalese.
Ecco dunque il titolo della notizia sulla home del sito di Repubblica: “Torino: due agenti aggrediti con una sbarra da un uomo che gridava Allah akbar”.
L’occhiello: “A svelarlo il ministro degli Interni: “In questura ha insultato Mattarella e il sottoscritto”. I poliziotti non sono gravi. L’uomo, fermato per tentato omicidio, è stato identificato in un senegalese di 26 anni, già raggiunto da due provvedimenti di espulsione”.
Un ottimo esempio di cosa il giornalismo non dovrebbe essere sono un titolo e un occhiello costruiti con un copia-incolla dalla dichiarazione di un Ministro, praticamente dettati da un esponente del potere a cui si lascia il privilegio indiscusso di impostare i termini del discorso, inquadrare i fatti nella sua prospettiva e ai suoi fini, adottare il suo linguaggio e veicolare il suo messaggio, legittimandolo pienamente e descrivendo l’accaduto dal punto di vista del potere (si precisa, per esempio, che l’uomo aveva già due provvedimenti di espulsione, nonostante questo non c’entri assolutamente nulla con la notizia… a meno che non si sia razzisti e si pensi che l’uomo in questione abbia agito in tal modo perché straniero e a meno che non si sottintenda una pericolosità sociale intrinseca degli immigrati senza documenti).
Nel corpo dell’articolo, ci si riferisce all’uomo senza fissa dimora con le espressioni “senegalese”, “straniero”, “immigrato”, quindi ancora una volta nonostante nessuna di tali informazioni sia pertinente alla comprensione della notizia o allo svolgimento dei fatti. Addirittura viene precisato che “nonostante lo straniero abbia fatto riferimento ad Allah è molto improbabile che l’aggressione avesse un movente terroristico”. In questa frase c’è tutto: l’essenzializzazione e la costruzione della figura negativa dello “straniero”, l’automatismo della sua associazione con il terrorismo, l’informazione riportata ancora una volta dal punto di vista del potere parlando di “aggressione” (e quella dei residenti che chiamano la polizia non è “aggressione”?), il riferimento ad Allah (che altri non è, udite udite, che “Dio” in arabo) come indizio per una eventuale pista terroristica evidentemente fuori da ogni logica (perché nell’articolo non si precisa che “lo straniero” non avesse legami con la mafia russa o con il nazionalismo tibetano? Il legame è lo stesso: chiaramente nessuno).
Come si fa a pensare anche lontanamente che un uomo senza fissa dimora che difende il proprio giaciglio di fortuna brandendo una sbarra di ferro trovata per terra possa essere considerato terrorismo? Il solo precisarlo perché l’uomo ha detto che Dio è grande è follia: se una persona senza fissa dimora esplodesse di rabbia e dicesse “ossignùr” agli agenti che venissero a sgomberarla perché denunciata dai residenti solo perché senza posto dove dormire, La Repubblica scriverebbe nel titolo che questa persona ha detto “ossignùr”?
Per concludere, l’articolo coglie l’occasione per sostenere tramite le parole di un esponente di un sindacato di polizia la necessità dell’uso del taser, per evitare che gli agenti si facciano male, perché “fatti come questo sono gravissimi”.
Risparmiamoci le reazioni e i toni del Ministro degli Interni, dei sindacati di polizia e della sindaca di Torino: tutti esprimono vicinanza agli agenti feriti e fiducia nell’operato delle forze dell’ordine, nessuno che esprima solidarietà a un poveraccio che non ha un cazzo di posto dove dormire.
EDIT: Aggiornamento del 22 aprile: Carlotta Rocci, l’autrice dell’articolo in questione, contattata non si è degnata di rispondere ma ha corretto il tiro eliminando i riferimenti filoleghisti ai provvedimenti di espulsione e quelli surrealisti al terrorismo. Cambiato pure l’occhiello, non è più una citazione letterale di Salvini. Restano ancora l’immotivata precisazione sul grido “Dio è grande” proferito dall’uomo senza fissa dimora nonché gli appellativi “il senegalese” (anche nella nuova versione del titolo, “Torino: aveva già aggredito altri due agenti il senegalese che ha ferito al grido di “Allah è grande”) e “lo straniero” usati per riferirsi all’uomo in questione. Ancora un piccolo sforzo, La Repubblica, e forse riuscite a fare del giornalismo non filoleghista.
EDIT 2: Errata corrige: Carlotta Rocci non ha affatto aggiornato l’articolo, ne ha semplicemente scritto uno nuovo in cui l’uomo è chiamato “senegalese” e tale parola contiene un link che punta all’articolo precedente, rimasto inalteratamente filoleghista e adulatore del potere. Nel nuovo articolo si delineano meglio alcuni dettagli sulla dinamica dei fatti: si mostra il riparo di fortuna in cui si rifugiava l’uomo arrestato (non ha affatto l’aria di essere uno spazio destinato alla funzione di deposito di un supermercato: è uno spiazzo abbandonato, come confermato da chi conosce il luogo e dalle foto inviate da chi è sul posto) e non sarebbero stati i residenti a chiamare la polizia, bensì i vigilantes dell’Esselunga. Per quale motivo, trattandosi di un’area evidentemente dismessa, non è dato sapere. Se non quello di onorare il sacro inviolabile principio della proprietà privata inutilizzata o quello del decoro urbano come se le persone fossero oggetti.
Partiamo da un fatto: si assiste in misura crescente ad un’involuzione del discorso pubblico verso posizioni sempre più esplicitamente razziste, in cui la violenza non va più nemmeno letta tra le righe. E, se non va letta fra le righe, diventa esplicita anche la sua espressione pratica, perché «la distanza di sicurezza tra pensiero repressivo e azione repressiva si è pericolosamente accorciata» (Herbert Marcuse, Critica della tolleranza).
Così, nel giro di pochi mesi, sotto l’incalzare della campagna elettorale per le elezioni politiche del 4 marzo e poi con la successiva stabilizzazione e normalizzazione formale della xenofobia, si sono susseguiti la tentata strage di Macerata (3 febbraio), le aggressioni ai migranti da parte di gruppi fascisti a Pavia (5 febbraio), l’assassinio di Idy Diene a Firenze (5 marzo), l’attentato incendiario alla moschea di Padova (5 marzo), la caccia al migrante a Rosarno (resa nota il 17 marzo), l’omicidio di Sacko Soumayla a San Calogero e il ferimento di altre due persone a colpi di fucile (2 giugno), gli spari contro due ragazzi maliani a Caserta (10 giugno), l’attacco armato da parte di due italiani in un centro per migranti a Sulmona (13 giugno), il pestaggio di gruppo di un ragazzo ivoriano di 17 anni a Ballarò (15 giugno), l’uccisione di un senegalese dopo insulti razzisti a Corsico (17 giugno), il ferimento con arma da fuoco di Konate Bouyagui da un’auto in corsa a Napoli (22 giugno) e chissà quanti altri innumerevoli eventi quotidiani che sfuggono alla stampa perché non fanno più scalpore: aggressioni, intimidazioni, pestaggi, insulti razzisti, esclusione, o ancora la normalizzazione delle affermazioni razziste, la loro sempre più diffusa accettazione ovunque in fila al supermercato o al bar, con la formazione di occasionali gruppi di affinità in cui ci si sente portati, perché ormai pienamente legittimati, a rispondere a commenti razzisti con osservazioni “di circostanza” altrettanto razziste, in un circolo che si autoalimenta (sulla costruzione delle verità sociali razziste, cfr. Alessandro Dal Lago, Non-persone).
Sono in molti a dichiararsi preoccupati dal clima di tensione montante e a cercare di contrapporre i valori democratici alla retorica razzista imperante. Peccato che il linguaggio e la cultura siano ormai talmente impregnati del discorso xenofobo e strutturalmente razzisti che anche le opinioni espresse per la difesa formale dei diritti umani, per l’uguaglianza dei popoli, per i valori dell’antirazzismo, sono fin troppe volte esse stesse depositarie di un sapere razzista.
Esiste uno spettro di opinioni che va dalla proposta (messa in pratica) di «sparare sui negri» come Luca Traini e Gianluca Casseri o quella di «affondare i barconi» come Matteo Salvini e Elio Lannutti fino a quelle più umane, per esempio, di accertarsi che nei campi di detenzione libici sia assicurato il rispetto dei diritti umani, senza mettere in discussione la necessità dei campi, considerati inevitabili, né chiedersi perché mai dovremmo rinchiudere delle persone soltanto perché non si trovano nel proprio paese d’origine. Come questa, esistono decine e decine di convinzioni entrate nel senso comune e non più messe in questione, accettate socialmente come verità evidenti. Questo sciame di posizioni apparentemente antirazziste non sono altro che l’espressione di una opposizione interna al campo delle posizioni razziste, perché si muovono dentro la cornice di senso disegnata dal sistema di pensiero razzista.
Non si tratta soltanto di chi non mette in discussione il sistema di repressione e deportazione, ma anche di molte posizioni che accettano e promuovono il sistema di accoglienza, concependolo come uno strumento di controllo e di gestione. Sono le posizioni, per esempio, di chi sostiene che i migranti vadano accolti “perché conviene all’economia” o “perché molti sono laureati”, illustrando le proprie argomentazioni con tanto di grafici e statistiche e ricerche di settore, rivelandosi così non solo profondamente classisti, giacché non serve una laurea per “meritarsi” diritti umani, ma anche razzisti in quanto partono strutturalmente dal principio che è l’eventuale laurea, non l’essere umano, a riscattare l’umano stesso da una altrimenti condizione di inferiorità. Analogamente, ci sono le posizioni di chi insiste su casi di cronaca in cui un qualche migrante ha dato prova di coraggio, come è stato per l’immigrato irregolare cui Macron ha regalato i documenti e la cittadinanza come premio per aver salvato un bambino, e che tira fuori esempi di migranti bravi, generosi, senza problemi con la legge, intraprendenti e integrati, che sanno perfettamente l’italiano e addirittura a volte il dialetto, e tutto questo senza rendersi conto di quanto sia controproducente per tutte quelle persone che in quanto persone dovrebbero avere gli stessi diritti, pure senza essere bravi, intelligenti, integrati, bilingue o il padre di Steve Jobs.
Uno dei contenuti che circolano sui social network in risposta alle politiche contro i migranti.
Quando nell’aprile 2015 l’ONU ventilò la possibilità di fermare i trafficanti impedendo le partenze con l’affondamento delle imbarcazioni (a proposito, Silvio Berlusconi aveva già da anni dichiarato che bastava «togliere i motori alle barche»), Matteo Salvini reagì dai microfoni di Radio Padania dicendo «Ci hanno criticato e insultato dandoci dei razzisti e oggi che fanno? Dicono di voler affondare i barconi e fare i blocchi, cose che noi diciamo da tempo!» e aveva ragione, non nel senso che lui non era razzista, ma nel senso che lo erano anche gli altri. Perché, appunto, si muovono nello stesso campo, entro lo stesso orizzonte di pensiero. All’epoca, il ministro degli Interni era Angelino Alfano. Le reazioni dell’opposizione politica e presunta opposizione culturale furono, per fare alcuni esempi significativi, del tenore di un Gianluca Di Feo che sull’Espresso spiegava che «difficilmente la distruzione di una o più flottiglie di barconi cambierà la situazione», passando in rassegna i precedenti storici delle politiche di contrasto al traffico di esseri umani, che non avevano funzionato come deterrente ma anzi incentivato e ingigantito gli interessi economici dei trafficanti; di una Laura Boldrini che faceva notare con indignazione che per affondare i barconi degli scafisti «bisogna avere l’autorizzazione del Paese in cui sono presenti e a chi si chiede in Libia questa autorizzazione?»; fino ad arrivare alle dichiarazioni di cardinale Antonio Maria Viganò secondo cui distruggere i barconi non fosse una soluzione, perché «gli immigrati scapperebbero comunque da persecuzioni e violenze». Tutte queste risposte parlano di una soluzione tecnicamente inefficace al problema: se affondare i barconi fosse una soluzione tecnicamente efficace, essi la abbraccerebbero in pieno. Le argomentazioni sono tecniche, non politiche. E, come rivelato dalle parole del cardinale, per queste posizioni il problema da risolvere non è il traffico di esseri umani in se, ma l’arrivo dei migranti: sono contrari al traffico di esseri umani solo perché contribuisce ai flussi migratori e sono contrari all’affondamento dei barconi solo perché non li ridurrebbe. Il problema sono dunque i flussi migratori e la soluzione efficace al problema sarebbe quella che impedisce ai migranti di arrivare in Italia, in perfetta sintonia con il pensiero di Salvini.
Saranno assicurati i diritti umani nei campi libici? Mandiamo qualcuno a vedere.
Un altro esempio, più recente: le reazioni sconvolte di fronte al vagheggiamento di un censimento etnico dei Rom da parte del ministero degli Interni di Matteo Salvini. Risponde l’alleato Di Maio, sincero democratico: «Mi fa piacere che Salvini abbia smentito qualsiasi ipotesi di schedatura e censimento degli immigrati [n.d.r.: qui Di Maio identifica malamente Rom e immigrati] perché se una cosa è incostituzionale non si può fare». Così reagisce Franco Mirabelli, senatore del PD: «Il ministro dell’Interno sembra non sapere che in Italia un censimento su base etnica non è consentito dalla legge». E per finire la squisitissima reazione di Nicola Fratoianni di LeU, cioè la cosa più asinistra nell’attuale Parlamento: «Ricordo a Salvini che la maggioranza dei Rom sono cittadini comunitari. Quindi sarebbe come schedare i francesi presenti nel nostro Paese».
Se il censimento etnico non si può fare perché è incostituzionale, e non perché è profondamente sbagliato sul piano morale e politico, allora basterebbe cambiare la Costituzione, unico ostacolo. Se non si può fare perché non è consentito dalla legge, allora se fosse consentito dalla legge, invece, si potrebbe fare, e magari sarebbe tutto normale. Se i Rom non fossero cittadini comunitari, anche in questo caso, sarebbe tutto normale, potremmo dare il via libera al censimento etnico. Anche le dichiarazioni della sinistra di questo Parlamento, se va bene, sono costruite su un sistema di valori sostanzialmente razzista incapace di non fare del razzismo una pura questione formale, come se fosse quello il nocciolo del problema.
Con Salvini si fa troppo spesso lo stesso errore: invece di contestarlo perché è un razzista di merda, si va a citare la clausola della leggiucchia che impedirebbe di discriminare tale gruppo o di bloccare tali porti a tale orario, finendo col legittimare implicitamente il suo discorso, perché non gli si contrappone alcun principio politico, limitandosi a interventi circostanziati e invariabilmente tecnici, mai strutturali. Questo è un errore strategico se i parte da principi antirazzisti e dalla prospettiva di una lotta contro ogni discriminazione; è invece un obbrobrio ideologico in tutti gli altri casi.
Sull’onda di questo errore (che non chiamerò obbrobrio, lasciando il beneficio del dubbio) abbondano le argomentazioni di quelli che accusano Salvini di essere un incapace, come per esempio un Ettore Rosato (PD) che “contro la destra” minaccia: «Li misureremo alla prova dei fatti, per verificare se almeno le promesse le manterranno», senza avere neanche il coraggio di elencare quali promesse elettorali della Lega Nord gradirebbe fossero mantenute (ma l’enigma non è difficile da risolvere, basta guardare più avanti nell’articolo). Ovvero, questo governo non va contestato perché il programma che intende realizzare è intrinsecamente razzista, ma perché non sarà capace di realizzarlo, essendo gestito da incapaci. Se ne deduce che il problema non è il principio ma la sua fattibilità. E anche se fosse? Lo preferirebbero capace? Ecco perché a Salvini si deve rispondere “razzista di merda”, ecco perché qualsiasi altra argomentazione legittima il piano del suo discorso razzista.
Ora, forse per il democratico Ettore Rosato, data l’appartenenza partitica, il beneficio del dubbio non è propriamente lecito concederlo, ma per altri personaggi è possibile che si tratti di un mero corto circuito ideologico che impedisce di vedere le conseguenze politiche delle proprie posizioni, cioè il rafforzamento della posizione opposta (ma sempre interna allo stesso campo). Per esempio, Annalisa Camilli, giornalista che scrive su Internazionale e si occupa di immigrazione, ha pubblicato il 4 giugno un articolo che spiega, come da titolo, “perché il programma di Salvini sull’immigrazione è impraticabile”. I motivi elencati sono molteplici «i rimpatri hanno costi esorbitanti e non ci sono accordi con la maggior parte dei paesi di provenienza dei migranti, i porti non si possono chiudere a meno d’infrangere le norme marittime internazionali, revocare l’accoglienza ai richiedenti asilo significherebbe venir meno a una serie di impegni presi e rinunciare a fondi europei, inoltre farebbe aumentare il numero delle persone che dormono per strada e paradossalmente favorirebbe i centri di accoglienza di emergenza rispetto ai centri gestiti dai comuni nel sistema Sprar. Già nel 2017 regioni e amministrazioni locali avevano impedito al suo predecessore Marco Minniti che fossero aperti più centri permanenti per il rimpatrio (Cpr), vanificando i decreti Minniti-Orlando, che avevano stabilito l’apertura di un Cpr in ogni regione». L’elenco dei motivi per cui il programma di Salvini sull’immigrazione è impraticabile è concluso senza una parola sul razzismo di fondo, sul disprezzo per la vita umana, sulla ferocia subita da chi è respinto e deportato, sulle condizioni disumane di povertà e ricattabilità cui sono costretti i migranti: il programma è definito “impraticabile” sul piano tecnico, senza cenni a quello umano. (Per dovere di cronaca, si sappia tra l’altro che l’autrice dell’articolo, con cui il sottoscritto si sarebbe volentieri confrontato sullo spostamento della sua critica da un piano strutturale ad uno contingente, ha provveduto quasi subito a bloccare su Twitter rifiutando la discussione. Grande esempio di giornalismo di sinistra.)
«Non riuscirà mai a rimpatriare mezzo milione di immigrati, non ci sono i soldi, è tecnicamente impossibile, ci vorrebbe troppo tempo!» lascia troppo rischiosamente aperta la possibilità che si sottintenda che se ci fossero i soldi, il tempo e i mezzi, allora, non ci sarebbe nessun punto politico da attaccare.Sembra assurdo doverlo ripetere, ma per criticare un politico sul piano politico, bisogna valutare se il principio che intende applicare è condivisibile o meno, prima di verificare se è attuabile praticamente: credere di delegittimare le proposte razziste di Salvini attaccandole, per esempio, perché non ci sono i soldi è nocivo oltre che ridicolo.
«Salvini ce l’ha con gli immigrati ma i dati dicono che sono in calo!» anche se fosse vero, tirare fuori dati e statistiche per mostrare che Salvini si sbaglia quando dice che i migranti vanno rimpatriati «perché sono troppi» significa distogliere l’attenzione dal fatto che sbaglia in quanto parla di rimpatri razzisti, di gestione delle vite, di dominio coloniale del bianco occidentale sui corpi neri razzializzati, e i numeri non c’entrano nulla con questo. Inoltre se fosse vero che ci sono sempre più immigrati («troppi»), allora Salvini avrebbe ragione. Come si fa a non capirlo? Perché nessuno di rilievo nell’opinione pubblica risponde semplicemente a Salvini “sei un razzista di merda”?
«Ai tempi di questa virile stretta di mano, Matteo Salvini non era ancora ministro dell’Interno a Roma e Luca Traini non era ancora stragista fascista a Macerata» commenta Alberto Robecchi
Continuando con gli esempi. Il 3 febbraio 2018 il fascista Luca Traini, cui l’attuale ministro degli Interni Matteo Salvini ha stretto la mano appena qualche anno fa, gira per il centro di Macerata sparando ai neri che incontra, ritenendo di vendicare l’omicidio di Pamela Mastropietro in quanto l’imputato è nero. Dopo ore di silenzio scomposto, in cui il PD, allora partito di governo, esita a condannare fermamente l’attentato razzista (chiaramente visibile sin da subito, dati il profilo dell’attentatore e la scelta inequivocabile delle vittime), le dichiarazioni cominciano a fioccare. Tra queste, un Matteo Renzi di spessore afferma che «Quello di Macerata è un atto razzista, ma non sono i pistoleri che possono portare giustizia» e inaugura una serie di dichiarazioni di altri esponenti politici della stessa area che gli fanno eco parlando dell’inopportunità di «farsi giustizia da soli». Ma farsi giustizia da soli sarebbe stato sparare contro il presunto omicida, non sparare contro persone a caso solo perché di pelle nera. (Per dovere di cronaca, va riportato che durante la diretta di SkyNews una giornalista sente necessario dire che, sparando da un’auto in corsa, il terrorista di Macerata «avrebbe potuto colpire chiunque», come se delle persone scelte a caso solo per il colore della pelle non fossero “chiunque” e lasciando trapelare il sospetto che chiunque significhi “un qualunque bianco”. Anche qui, concediamo il beneficio del dubbio.) Chi, sui fatti di Macerata, ha parlato di farsi giustizia da soli, ha detto neanche troppo implicitamente che le persone colpite erano colpevoli di qualcosa. Di cosa non si sa, a parte avere la pelle più scura. Nel frattempo gli stessi pontificavano contro Salvini, così come da tutto l’arco costituzionale, mentre invece avrebbero meritato di essere annoverati tra i mandanti morali di Luca Traini tanto quanto i leghisti e i fascisti. Chiunque metta in relazione l’omicidio di Pamela Mastropietro con i fatti di Macerata come se esistesse legame oggettivo e senza ragionare sulla costruzione sociale di tale legame, fa propria la posizione fascista e razzista di Luca Traini. Qualche giorno dopo, quindi trascorso tutto il tempo necessario per meditare le proprie dichiarazioni, Marco Minniti, allora ministro dell’Interno, conferma l’impressione che il Partito Democratico sposi essenzialmente il ragionamento razzista dell’attentatore dicendo «ho fermato gli sbarchi perché avevo previsto Traini», riconfermando di pensare che le persone vittime della tentata strage di Macerata siano colpevoli di qualcosa. Ancora, di cosa non si sa, a parte avere la pelle più scura. Pe rincarare la dose, Minniti dalle colonne dei maggiori quotidiani accusa Salvini di voler adottare politiche che porteranno a una crescita della presenza migrante in Italia, facendo propria l’idea di Salvini che questo sia un problema. Si sente parlare di “bomba sociale” in riferimento all’immigrazione. È veramente difficile spiegare di quale bomba sociale si parla senza essere razzisti.
Quando il sindacalista maliano Soumaila Sacko è stato ucciso a colpi di fucile in una fabbrica abbandonata a San Calogero mentre cercava materiale per costruire la propria baracca, l’evanescente presidente del Consiglio Conte si premurava di sottolineare con indignazione che era stato ucciso «un migrante regolare», come se uccidere un migrante irregolare potesse essere un delitto meno grave. L’articolo di Repubblica che riportava la notizia scriveva, in riferimento a possibili risposte di protesta da parte degli abitanti della tendopoli di San Ferdinando, in cui vive in condizioni disumane la comunità dei braccianti stranieri sfruttati e maltrattati di cui Sacko faceva parte: «si teme una reazione all’omicidio di Soumaila Sacko». Ovvero, ci sono persone che muoiono uccise a fucilate in quanto povere e straniere e la reazione si teme invece di auspicarla. Anche nell’immaginario “antirazzista”, veicolato abbondantemente dalle maggiori testate giornalistiche italiane, e in modo particolare da La Repubblica, espressione massima della sinistra borghese progressista e illuminata, i migranti sono vittime e sono destinati a rimanere vittime: ogni iniziativa di organizzazione autonoma, di protesta, di riscatto da parte dei migranti si teme, perché comprometterebbe la loro rappresentazione smentendo l’identificazione migrante-vittima diffusissima nell’associazionismo umanitario, dove è strumentale alla coscienza pulita dell’antirazzista bianco. Si tratta dello stesso antirazzista bianco che non si indigna prima che dal report di qualche organizzazione non governativa risultino violazioni di diritti umani in Libia e in Turchia, perché finché le stesse cose sono raccontate dalle persone che le hanno vissute sulla propria pelle alle loro parole non viene dato peso o non vengono neanche ascoltate, forse perché la loro pelle è troppo nera. Non significa forse adottare esattamente lo stesso atteggiamento di Salvini che parla di «retorica in base alla quale in Libia si tortura e non si rispettano i diritti umani» quando per capire se i diritti umani sono rispettati o meno basterebbe chiederlo a un qualunque migrante che sia passato in Libia?
Ci si ricorderà anche che il giorno stesso dell’omicidio di Idy Diene a Firenze, la comunità senegalese pianse con rabbia i propri morti (Idy non era il primo, Samb Modou e Diop Mor erano stati freddati da Gianluca Casseri il 13 dicembre 2011) e improvvisò un corteo di protesta verso il Municipio, dopo un diniego del Sindaco alla loro richiesta di un incontro. Nel corso della manifestazione, due fioriere furono rovesciate. I giornalisti erano tutti intenti a dare voce ai negozianti, che dichiaravano «li ho visti distruggere, abbiamo avuto paura», ma gli stessi giornalisti rimanevano a quanto pare insensibili alla paura di essere uccisi solo perché neri. L’infelice dichiarazione di Dario Nardella, sindaco PD di Firenze, è nota: «L’omicidio di Idy Diene per mano di uno squilibrato, ora agli arresti, ha colpito tutta Firenze. Comprendiamo il dolore della comunità senegalese ma la protesta violenta di questa sera in centro è inaccettabile. I violenti, di qualsiasi provenienza, vanno affidati alla giustizia». Il razzismo di chi mette sullo stesso piano una vita umana e un paio di vasi non deve essere spiegato.
29 giugno 2017, Marco Minniti minaccia di chiudere i porti alle ONG dopo averle demonizzate come “taxi del mare” e aver instaurato un opprimente clima del sospetto.
In generale il PD, con le sue dichiarazioni elettorali è stato l’apripista del nazismo esplicito di questo governo. In campagna elettorale Minniti era applaudito e portato alto a motivo di vanto per l’efficienza con cui era stato ed era responsabile dei rimpatri di migranti. Ancora molto dopo le elezioni, fino ad oggi, nonostante Matteo Orfini abbia ammesso il 24 maggio che «alcune scelte di governo hanno favorito lo sfondamento a destra» e che la «lettura sull’immigrazione data dal nostro governo ha sdoganato lettura di destra del fenomeno», si assiste alla difesa imperterrita di tali scelte: Gentiloni, a solo qualche giorno dall’autocritica di Orfini, si vantava di «aver ridotto dell’80% il traffico degli scafisti: fatti, non propaganda sulla pelle dei migranti». Come se bloccare i migranti lasciandoli torturare in Libia con la complicità del governo italiano e i finanziamenti dell’UE non fosse «sulla pelle dei migranti». Nella stessa dichiarazione, Gentiloni si congratulava con il nuovo presidente del Consiglio spagnolo Sanchez per la solidarietà dimostrata nella vicenda della nave Aquarius, dimenticandosi che appena un anno prima, Minniti, ministro del suo governo, aveva minacciato esattamente di fare ciò che Salvini aveva fatto (vedi immagine a lato). Bisogna sapere che la maggior parte dei migranti dell’Aquarius “accolti” dalla Spagna sono stati rinchiusi in attesa di rimpatrio e che lo stesso giorno in cui il porto di Valencia era reso disponibile per risolvere lo stallo creato dai ministri Salvini e Toninelli, le frontiere a Ceuta, dove ogni anno i migranti muoiono nel tentativo di oltrepassare le enormi barriere, venivano blindate, addirittura anche agli stranieri che ci lavorano per le pulizie.
Ma come sarà successo che il discorso pubblico si è appiattito sulla retorica razzista di Salvini? Ma di chi sarà la responsabilità? Chi ha sdoganato il razzismo istituzionale? Chi ha spianato la strada a governi apertamente razzisti? L’intera cronologia lasciamola da parte, limitiamoci invece ad una sola data: il 19 marzo 1997, quando il governo Prodi inaugura la politica dei respingimenti con il primo blocco navale italiano anti-immigranti, con la collaborazione dell’Albania per il contenimento del traffico clandestino di profughi. Il piano prevedeva un «efficace pattugliamento» delle coste dell’Adriatico e dava alla Marina disposizioni per fare «opera di convincimento» e di dissuasione per mezzo di tecniche di disturbo del traffico navale. Nel giro di pochi giorni questa politica portò ad uno dei più drammatici naufragi avvenuti nel Mediterraneo (81 morti, un numero imprecisato di dispersi, 34 sopravvissuti): il 28 marzo 1997, nel Canale d’Otranto, su ordine del governo la Sibilla, nave della Marina, insegue un barcone con a bordo oltre 120 persone finché lo capovolge e affonda. In pratica, il governo Prodi nel 1997 ha fatto ciò che il ministro Salvini oggi dice di voler fare.
«I salvataggi sono una cosa, ma andare a prenderli in Libia e portarli qui è traghettamento». Chi l’ha detto in campagna elettorale? Non potrebbe essere chiunque?
E allora?
Un ultimo punto su cui vale la pena soffermarsi è l’insistenza nel giustificare disparità di trattamento in funzione della categoria di migrante cui si appartiene. Era il 18 febbraio 2014 quando scrivevo del legalitarismo violento di parti del M5S secondo cui se non sei regolare allora devi essere respinto, espulso, rifiutato, marginalizzato, allontanato e «non si può prescindere da un sistema di trattenimento e accompagnamento forzato alla frontiera di chi va espulso, dunque non si può fare a meno di qualcosa che funzioni come un CIE». Spesso le posizioni del M5S sono cartine tornasole del senso comune, in questo caso un senso comune cominciatosi ad affermare con la Turco-Napolitano (1998) e da allora sempre più rafforzato fino ad essere accettato socialmente.
Questo vale per tutti quelli che si dichiarano, per esempio, a favore dell’accoglienza selettiva «di chi scappa dalle guerre, ma non di clandestini ovvero immigrati economici», oppure «dei rifugiati di guerra, tutti gli altri sono traffico di esseri umani» (sic!). Queste posizioni tracciano linee nette di demarcazione tra categorie di migranti determinandone l’accoglienza o il respingimento, definendo il desiderato e l’indesiderato e sottintendono tra queste categorie una differenza intrinseca e sostanziale che nella complessità del reale, in cui le identità e le definizioni si intersecano e si sovrappongono, semplicemente non esiste. Una persona che scappa da una guerra è anche un migrante economico, un migrante economico può essere regolare, quasi tutti i migranti sono irregolari prima che sia riconosciuto l’asilo politico (praticamente ormai l’unico status per essere in regola), quasi tutti i migranti che arrivano dal mare sono vittime di traffico di esseri umani (grazie alle politiche europee che impediscono di arrivare in altri modi).
Rifugiati vs clandestini, regolari vs irregolari, profughi vs economici. Queste distinzioni servono a semplificare una realtà complessa facendo credere che sia una questione di legge, regole e ragione mentre invece si tratta solo e semplicemente di razzismo dissimulato. Qui, tutte le essenzializzazioni nascondono razzismo: dire «rifugiati sì, delinquenti no», così come «profughi sì, economici no» o «regolari sì, clandestini no» alla fine si rivela sempre un modo indiretto di dire che in realtà di migranti non se ne vorrebbero tout court, perché se si chiedesse a chi parla in questo modo di stabilire le regole, sarebbe lecito nutrire un fondato sospetto che dall’applicazione di queste ultime i migranti risulterebbero in fondo tutti delinquenti, tutti economici, tutti clandestini. Semplicemente, chi parla così, non vuole immigrati, punto e basta. Storicamente è andata esattamente così: oggi il ministro Toninelli assicura che «l’immigrazione verrà gestita nella legalità» senza curarsi del fatto che la legalità non è un valore assoluto ma un prodotto sociale e che le leggi in materia di immigrazione le ha scritte la Lega Nord, facendo in modo che fosse difficilissimo e, per molti, impossibile entrare regolarmente in Italia. Ormai è considerato normale e accettato da tutti come un fatto necessario e inevitabile che a moltissime persone è impedito ogni tipo di accesso legale all’Europa, solo perché ne sono nate fuori. Questo non è assolutamente scontato, ed è stato imposto progressivamente nel discorso pubblico fino ad diventare la norma culturale, a destra come a sinistra, tanto tra i razzisti quanti tra i presunti antirazzisti, senza distinzione. Tanto che il ministro Toninelli, quando rassicura sul rispetto della legalità, lo fa per rispondere ad accuse di razzismo. Tanto che, spesso, la risposta è che «si fa così in tutti i paesi d’Europa, sono tutti razzisti?»
In quanti sanno che si può essere razzisti anche senza dichiararsi tali e, anzi, prendendone formalmente le più sentite distanze salvo poi perpetuare materialmente un sistema di pensiero e di organizzazione sociale fondato su principi razzisti? In quanti sanno che si può essere fascisti anche senza braccia tese, camicie nere, fez e fascio littorio?
Questa è la posizione “antisalviniana” ma tutta interna al campo del razzismo: un razzismo che si dichiara solidale, umanitario, umano, che “accoglie” i migranti dell’Aquarius con una mano e blinda le frontiere di Ceuta con l’altra; un razzismo incapace di vedere che il problema non è Salvini (in perfetta continuità con Minniti) ma la normalità della xenofobia in tutto il mondo neoliberale. Come è stato osservato parlando di regime della bianchezza, «è razzista l’integrazione, sono razzisti i centri d’accoglienza, sono razziste le politiche di protezione, anche quelle che non lo sembrano. È razzista ogni politica che che riduce i migranti a “vittime” passive incapaci di articolare una propria voce. È razzista, molto razzista, Minniti e la sua legge. È razzista il mercato del lavoro che sfrutta i migranti come manodopera a basso costo».
Tutto ciò non è una costruzione teorica, ma una verità storica materiale. La posizione antisalviniana crede che il razzismo sia solo un pretesto propagandistico, un’arma di distrazione di massa per non occuparsi di altro: non vede che il razzismo è fondamento strutturale della storia e della società italiane, prima che un orpello ideologico (come argomentato benissimo qui). Non vede che invece di aprire i porti, “accogliere” rinchiudendo in campi di concentramento, gestire le persone come un problema, assicurarsi che i diritti umani vi siano rispettati, chiedere che i migranti siano smistati con umanità, indignarsi per un’emergenza che non è un’emergenza, emozionarsi per l’integrazione tramite il lavoro gratuito dei migranti per il decoro urbano nei progetti di “accoglienza diffusa”, un solo obiettivo politico è alternativo al campo razzista: l’apertura delle frontiere e i documenti per tutti, perché tutti possano viaggiare e stabilirsi dove meglio credono. L’ingiustizia del privilegio di un europeo che ha la possibilità di andare e venire a proprio piacimento nella maggior parte dei paesi del mondo, rispetto a un africano (non ricco) cui questa possibilità è negata, è ingiustificabile. È impossibile da giustificare con un ragionamento che non sia razzista.
Vale la pena di ripeterlo un’ultima volta: queste posizioni non sono realmente antirazziste, ma più propriamente “antisalviniane” e si articolano, a volte inconsapevolmente, all’interno di una cornice razzista rispetto alla quale non possono neanche pretendere di attestarsi come opposizione: si configurano, nei fatti e nella sintassi del linguaggio politico, come semplici concorrenti. E finché si resta nella stessa cornice di Salvini, vince Salvini. Non esiste oggi, a parte lodevoli minoranze, nessun argine democratico alle derive autoritarie di sapore nostalgicamente nazista.
Che la globalizzazione neoliberista abbia avuto e abbia effetti nefasti sulla vita di miliardi di persone è ormai un fatto acclarato, di un’evidenza tale che neanche le istituzioni che la hanno storicamente sostenuta e alimentata ideologicamente, economicamente e in parte politicamente possono più negarlo: il neoliberismo fa male all’umanità. Ormai è riconosciuto ufficialmente da studi e rapporti promossi e finanziati dagli stessi istituti che negli ultimi quarant’anni non hanno mai smesso di suggerire manovre economiche di scuola neoliberista e di intimare governi e parlamenti di Paesi nominalmente sovrani a varare piani di aggiustamento strutturale ricattandoli tramite il controllo del debito pubblico, anche a prezzo di istaurare dittature illiberali, violente e autoritarie (perché, occorre ricordarlo, l’austerità è incompatibile con la democrazia, non col fascismo).
Ecco alcune delle illuminate affermazioni di Christine Lagarde sulla globalizzazione, di cui FMI, Banca Mondiale e WTO si accorgono solo adesso e che Lagarde pronuncia quasi con stupore, come se avesse visto la mano invisibile di Adam Smith volteggiare sopra la propria testa in un tiepido pomeriggio d’aprile e come se queste preoccupazioni non fossero state espresse nella forma di certezze vissute sulla propria pelle da milioni di persone negli ultimi trent’anni almeno: «Il commercio ha avuto effetti negativi su alcune tipologie di lavoratori e su alcune comunità»; «la globalizzazione ha contribuito a schiacciare i salari»; «la globalizzazione ha avuto qualche effetto negativo sul primo mondo». Risparmiandosi di commentare, il punto che è da notare è il passo indietro rispetto all’atteggiamento ideologico assunto storicamente che vedeva nella ricetta neoliberista la panacea contro tutti i mali.
Nel complesso, tuttavia, resta ancora molta cieca ideologia se Jim Wong Kim, presidente della Banca mondiale, coglie l’occasione per sottolineare nelle stesse ore che «la globalizzazione è anche una questione di giustizia sociale: ha tirato fuori milioni di persone dalla povertà». Delle disuguaglianze, in fondo, che importa? Se un sistema riesce a farti uscire dalla povertà assoluta, che male c’è se al contempo ti deruba di parte della ricchezza che produci per arricchire chi possiede già la ricchezza di centinaia di milioni di persone? Il neoliberismo, e il capitalismo in generale, neanche intravedono alcunché di immorale in questo. Come chi, a suo tempo, non vedeva alcunché di immorale nello schiavismo, che in fondo tirò fuori milioni di persone dalla morte per fame.
Si parta da una constatazione: da anni non si assisteva ad una giornata di repressione preventiva tanto massiccia come quella di ieri in occasione delle proteste per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma. Dopo settimane di allarmismo e montature ad arte, in cui è stato alimentato un clima di tensione ingiustificato portando una buona parte dell’opinione pubblica a indignarsi per fatti mai accaduti e del tutto ipotetici (come sa chi si è arrischiato a fare un giro della rete trovandola piena di insulti ai «black bloc figli di papà»), accostando i movimenti sociali al terrorismo e adottando una retorica apocalittica secondo cui Roma sarebbe stata colpita da attentati e devastata nella sua interezza, né gli attentati né gli scontri auspicati dalla stampa hanno avuto luogo (e notizia è diventata la loro assenza). Con la diffusione di notizie infondate, la stampa ha contribuito a costruire una verità sociale che non corrisponde alla verità fattuale, in barba alla tanto decantata guerra dei mezzi d’informazione ufficiali alle fake news e a quella che chiamano post verità, a loro dire responsabile della crescita dei movimenti di estrema destra, del populismo euroscettico, dell’elezione di Trump e dell’esito del referendum britannico sulla permanenza nell’Unione Europea.
Secondo La Repubblica «i timori della vigilia per la presenza di black bloc si sono fortunatamente rivelati infondati». Forse sarebbe il caso di interrogarsi sull’affidabilità delle fonti? Se i timori che la stampa, con scarsissima þrofessionalità e mancanza di correttezza, ha alimentato, si sono rivelati infondati non sarebbe un’occasione per rivedere e mettere in discussione i propri sistemi di raccolta e valutazione delle fonti? Se giornali come il Corriere della Sera e La Repubblica avessero a cuore, come sostengono, la questione della correttezza dell’informazione e della lotta alle bufale e alle narrazioni basate su fonti inattendibili, se si stracciano le vesti in nome del buon giornalismo, potrebbero almeno dire per trasparenza su quali fonti infondate avevano costruito le proprie congetture?
Sembra impossibile che ancora nessun giornalista stia incalzando e bastonando il ministro Minniti per la gestione dell’ordine pubblico di ieri a Roma, eppure si respira una certa compiacenza. Il Corriere della Sera descrive la giornata di ieri come «una giornata allegra». Forse si riferisce all’allegria di centinaia di fermi tra manifestanti pacifici e una pioggia di fogli di via di durata pluriennale motivati da ragioni pretestuose come l’essere in possesso di un sospetto capo di abbigliamento nero? Certo, i precedenti dello hijab islamico ma soprattutto del burkini la scorsa estate avevano già mostrato che anche nel cuore dell’Europa, i cui miti fondanti sono la libertà di espressione e la società aperta, possono essere vietati degli indumenti perché contrari ai valori morali socialmente accettati, ma il fermo con conseguente foglio di via per il possesso di felpe a causa del colore nero di queste ultime non erano ancora mai stati applicati a tappeto come procedura repressiva, come è successo ieri a Roma. Questo denota un inquietante abbassamento della soglia di tolleranza dei meccanismi repressivi: se una volta era vietato manifestare armati, l’interpretazione pratica di questa norma si è estesa passando a considerare come armi gli scudi e i caschi, arrivando oggi a considerare arma una sciarpa o un indumento nero. Ripetiamo che ci troviamo di fronte a casi di totale assenza di reato.
Nella notte precedente la giornata di mobilitazione, le forze di polizia hanno fermato e identificato non meno di 1500 persone che in moltissimi casi sono state trattenute in questura anche il giorno successivo “per accertamenti”, in assenza di reato e senza che venisse fornita alcuna giustificazione, come se gli arresti di massa fossero una cosa normale in uno Stato di diritto. La stampa ha riportato la notizia di centinaia di arresti arbitrari preventivi senza batter ciglio. Nel corso della mattinata del 25 marzo, sono stati segnalati decine di casi di fermi senza valido motivo, di perquisizioni da parte della polizia degli autobus partiti per Roma dalle Marche, dalla Val Susa, dal Veneto, da Bologna, trattenuti per ore senza uno straccio di motivazione che potesse essere presa sul serio (per esempio, nel caso del bus dei valsusini il fermo dell’intero autobus e dei suoi passeggeri è stato ordinato dopo aver trovato un sessantenne in possesso di un pericolosissimo coltellino da formaggio) e scortati fino a centri d’identificazione (e di espulsione, se vogliamo; o pensavamo che la libertà di movimento fosse solo un problema dei migranti?) a Tor Cervara, all’ingresso della città, pare allestiti per l’occasione, impedendo a centinaia di persone di prendere parte alle manifestazioni. Anche questo non dovrebbe stupire: per celebrare l’Unione Europea senza alcuno spirito critico si affermano i valori europei, cioè anche quelle procedure politiche e sociali che si sono configurate come tali nella gestione dei flussi migratori: la limitazione della libertà di movimento e il reato di solidarietà. E anche il fatto che, come qualcuno ha fatto notare, il Questore di una città possa decidere a propria discrezione chi può entrare e chi meno, senza fornire motivazioni plausibili, sa più di Far West che di Stato di diritto, non dovrebbe stupire: i valori che si celebravano sono parole vuote.
In questo clima che sarà onere del lettore definire, mentre i giornali riportavano acriticamente i declami deliranti delle forze dell’ordine che affermava di aver rinvenuto un gran numero di «sassi abbandonati» lungo il percorso previsto dei cortei e la polizia tentava di spezzare in maniera violenta e del tutto gratuita e provocatoria la coda del corteo pacifico e autorizzato, che saggiamente non ha reagito come avrebbero forse sperato gli agenti accecati dall’adrenalina o bavosi in preda ad un istinto primitivo, alcuni hanno cominciato a complimentarsi con il ministero dell’Interno per i metodi utilizzati per prevenire i disordini previsti (che erano previsti, tuttavia, solo nella testa dei giornalisti e della polizia), dunque a giustificare gli arresti di massa preventivi, i fermi e i fogli di via, tutto in assenza di reato e a discrezione ed arbitrio esclusivo del Questore di Roma.
Il quale Questore ha rassicurato, in conferenza stampa trasmessa in diretta su RaiNews24: «Abbiamo verificato l’orientamento ideologico delle persone fermate». Rileggete questa frase. Ancora. Ancora. Sì, l’ha detto. Bravo il questore di Roma, difende i nostri valori™ europei™ reprimendo libertà di pensiero e limitando libertà di movimento e di espressione. Se non fosse chiaro: l’Italia è un paese in cui la polizia può trattenere migliaia di persone a caso per accertarne l’orientamento ideologico e provvedere a piogge di fermi e fogli di via se l’orientamento ideologico in questione non è gradito (se individuale o collettivo non è dato sapere, né è dato sapere come effettivamente si possa accertare o cosa non sia ammesso come orientamento). Bisognerebbe ricordare che l’unico orientamento ideologico che è costituzionalmente possibile discriminare è quello fascista, che la libertà di espressione è formalmente garantita e che uno dei ruoli della polizia in uno Stato di diritto sarebbe quello di assicurarla. Eppure l’apparato repressivo, tanto democratico con i razzisti che «hanno anche loro diritto di parola», non accetta nessun tipo di orientamento che sia difforme dalla norma politicamente definita (a quanto pare i razzisti sono conformi e possono parlare, manifestare, lasciare dichiarazioni alla stampa, partecipare a dibattiti televisivi, avere spazio e agibilità politica). La concezione di ordine pubblico del ministro Minniti non ha niente di diverso dall’ordine pubblico della Lega. A Bologna, come a Roma, come ovunque.
Come scrive Rita Cantalino, la cosa più preoccupante è la generale noncuranza per una tale gestione dell’ordine pubblico, che si configura come una violazione del diritto a manifestare, una limitazione della libertà di espressione e di movimento. La gravissima frase del Questore di Roma sulla discriminazione su base squisitamente ideologica è passata piuttosto inosservata. Gli arresti di massa in assenza di reato sono il dovere della polizia di uno stato dittatoriale, non di diritto. Davvero in così pochi percepiscono quanto sia pericoloso farsi scivolare addosso giornate come questa?
Agosto. I raggi del sole picchiano sulla folla e spaccano le pietre. Sotto gli ombrelloni, genitori parzialmente denudati chiamano i bambini per accordar loro panini e frutta, come premio per l’incessante impegno nei giochi in acqua e nei castelli di sabbia. Qualcuno prova a leggere un libro, sdraiato in posizione innaturale su un telo dai colori vivaci, ma si gira e si rigira senza riuscire ad accomodarsi sulle irregolarità della sabbia. Qualcuno lo legge davvero, piegato sulle pagine e seduto su una seggiola, alcuni vestiti di tutto punto altri praticamente nudi senza curarsi troppo degli sguardi indiscreti. Un vecchio tutto curvo ha l’aria di essere sceso in spiaggia solo per fare un piacere a qualcuno di esigente e premuroso, e porta con scomodità e leggero imbarazzo un cappellino con la visiera, pantaloncini corti e una camicia consunta e irrigidita dall’aria salata. Una signora si protegge dalla radiazione di mezzogiorno cospargendosi abbondantemente di crema solare su tutto il corpo. Molte donne hanno il seno scoperto, a garanzia di un’abbronzatura uniforme, per fastidio nei confronti di quell’odioso tessuto sintetico di cui sono fatti i reggiseni, per stenderlo e asciugarlo dopo aver fatto il bagno, per altri motivi che di certo esistono ma nessuno si sente ancora in dovere d’indagare. Una ragazza, scesa in spiaggia per abbronzarsi senza compagnia, è intenta ad allacciarsi da sola il pezzo di sopra del costume, con le braccia alzate e le mani dietri la nuca in quel gesto che si fa quando si indossa una collana.
Nessuno li aveva visti, ma nel quadretto marittimo stridono con prepotenza tre poliziotti, subito riconoscibili dalla divisa scura con pantaloni lunghi e spessi, una maglia a mezze maniche e cinture, fondina, stivali in cuoio che i bagnanti notano chiedendosi come si fa a lavorare con questo caldo. I tre si avvicinano alla ragazza che si allaccia il costume.
«Buongiorno» si fa avanti il primo poliziotto con tono affabile ma l’aria di chi potrebbe smettere di esserlo da un momento all’altro «lei è appena arrivata, sì?»
La ragazza, sospendendo l’operazione con le braccia a mezz’aria e lasciando il costume troppo allentato per i suoi gusti, inarca per un istante le sopracciglia prima di rispondere con un timido sorriso.
«Sì, perché?»
«Quindi questo costume se lo sta togliendo, sì?»
La ragazza, le braccia ancora sollevate e col dubbio se completare il nodo o meno, decide infine di aver già passato troppo tempo in quella posizione scomoda e di rinviare. Cerca con lo sguardo un segno che le assicuri che la domanda le sia stata rivolta seriamente.
«Veramente no» risponde con imbarazzo.
«E allora le dovrò fare una multa» dice mentre il collega comincia a rovistare in una tasca della divisa.
«Come sarebbe? Per quale motivo?»
«Perché… abbigliamento non conforme ai valori morali» e poi, come per impegnare il tempo finché il collega non abbia staccato la multa dal libretto, domanda «Lei è credente?»
«Io…» risponde lei confusa «non capisco perché me lo chiede»
«Sa, coi credenti capita più spesso, ma vede… non è quello il problema. Coprire il corpo può offendere le convinzioni degli altri bagnanti»
«Ma io non ho offeso nessuno!» protesta la ragazza
«Guardi, io faccio il mio lavoro, non l’ho deciso io ma mi tocca farle una multa per abbigliamento poco rispettoso della laicità»
«Non ho offeso nessuno» si ostina la ragazza, mentre un capannello di curiosi prende forma intorno alla sua stuoietta da mare.
«Allora, glielo spiego meglio» interviene il terzo poliziotto in soccorso della poco efficace ripetitività del primo collega. «Siamo nel 2016, signorina. Il Sessantotto, che a lei piaccia o meno, ce l’abbiamo avuto come abbiamo avuto la liberazione dei costumi. Non c’è nulla di male a scoprire il seno, si guardi intorno, lo vede quanta gente c’è che lo fa? Non c’è niente di male, siamo d’accordo che è una parte del corpo come un’altra, mi segue?»
«Non ho nulla in contrario, io» sbotta la ragazza «vogliono stare in topless? E io che c’entro?»
«Sei una bigotta, ecco cosa sei!» comincia a urlare uno dei curiosi, mentre la folla converge e spinge sempre più stretta.
«Non sono una bigotta» risponde lei, sempre più sulla difensiva «non mi interessa cosa fanno le altre, perché dovrei scoprirmi? Solo perché ci sono altre che lo fanno?»
«Vede» continua il poliziotto paziente esegeta della rivoluzione sessuale «è una questione di laicità. Glielo chiedo io, lei è credente?»
«Sì, ma che c’entra questo? Io non voglio scoprire il seno»
«Allora lo vede anche lei che è un problema di laicità? Lei è credente, lei non vuole scoprire il seno. Ma cosa vuole che sia? Lo sa quante donne hanno lottato per questa libertà? E lei la rifiuta così?»
«Ingrata! Bigotta! Arretrata!» inveisce la folla, che ormai non avanza ancora solo perché trattenuta dagli sforzi degli agenti.
«Andiamo» continua affabile il poliziotto, ignorando le urla dietro di sé, poi sospira prima di aggiungere: «si scopra»
«No» la ragazza è sull’orlo del pianto, umiliata davanti a tutta quella gente. Cosa vogliono?
«Stiamo parlando di libertà, capisce? Noi adesso rappresentiamo lo Stato, e lo Stato non può chiudere un occhio di fronte alla negazione della libertà delle donne come lei»
«Che libertà?» nella ragazza è ormai inibito per la vergogna anche l’uso della parola, ridotto al minimo indispensabile.
«Quella di scoprire il corpo, ovvio. Il suo senso del pudore è un’imposizione, coprire il corpo della donna è un segno di oppressione e sottomissione, lei capisce che noi questo non possiamo tollerarlo.»
«Decido io» sibila la ragazza, con un filo di voce.
«Vede, gliel’ho già detto. Lei crede di scegliere, ma non è così. Lei è condizionata, altrimenti capirebbe benissimo che non c’è nulla di male nel mostrare un seno, una natica…» e così dicendo, il poliziotto fa cenno agli altri due di slacciare quel nodo che la ragazza aveva lasciato allentato all’inizio della discussione. La folla applaude, alcuni esultano per l’emancipazione e la rinnovata libertà delle donne.
«Ha visto?» fa il primo poliziotto «Ora sì che ha deciso lei». E, soddisfatto, sospira stanco.
«La cultura araba non rispetta le donne», «la cultura araba è bigotta», «la cultura araba è teocratica». Sono tutte frasi che è facile sentire pronunciare e che sono sempre più comuni e socialmente accettate. Simili generalizzazioni riguardo ad altri gruppi umani sono appannaggio di una relativamente ristretta cerchia di razzisti dichiarati e militanti xenofobi, mentre opinioni dello stesso tipo rivolte agli arabi (o ai musulmani, giusto per intorbidare le acque visto che non è la stessa cosa) sono ormai non più prerogativa di pochi ma fanno parte del senso comune, di quelle verità socialmente costruite che si danno per scontate nel dibattito pubblico e nell’informazione di massa.
Con spirito critico, intendo ragionare sulla logica fallace che sottende l’utilizzo di categorizzazioni come “cultura araba”, che possono essere efficaci nell’immediata comunicazione quotidiana ma hanno pesanti ripercussioni sul senso politico esplicito ed implicito dei discorsi che ne fanno usi poco attenti e circostanziati.
Per parlare di categorizzazioni, iniziamo trattandone una particolare, che nel mondo contemporaneo storicamente è stata la categorizzazione per eccellenza: la razza. Il razzismo biologico come ipotesi scientifica, nonostante sia passato di moda, è duro a morire ed esistono ancora oggi suoi sostenitori nella comunità scientifica. Nella logica del metodo scientifico è legittimo chiedersi se le razze esistano e provare a dimostrarlo. Come spiegato impeccabilmente dal genetista Guido Barbujani in L’invenzione delle razze, la teoria che propone la divisione della specie umana in razze, nelle sue varie formulazioni e nelle diverse modellizzazioni che sono state proposte, è stata sottoposta ad analisi scientifica a più riprese, con tecnologie sempre più precise e sofisticate, ed è emerso che tale teoria semplicemente non funziona: non permette di produrre modelli che descrivano adeguatamente la realtà, dunque il suo valore scientifico è nullo e chiunque sostenga di poter dimostrare scientificamente il contrario lo fa in cattiva fede. Come riporta l’Enciclopedia Treccani (qui), «il concetto di razza umana è considerato destituito di validità scientifica, dacché l’antropologia fisica e l’evoluzionismo hanno dimostrato che non esistono gruppi razziali fissi o discontinui».
Per una spiegazione esaustiva di come si è giunti a questa conclusione rimando al saggio di Barbujani, ma il principio è piuttosto semplice e si può riassumere facilmente. Per descrivere una razza, si dovrà elencare un insieme di caratteristiche condivise da tutti gli individui che la compongono e che permettano di dire con certezza di ogni individuo se è di quella razza oppure non lo è. Esiste nelle popolazioni una variabilità genetica data dalla presenza, in individui diversi, di versioni diverse dello stesso gene: tali differenze sono misurabili e si possono utilizzare per provare ad operare una categorizzazione su base genetica.
Gli studi di genetica umana dicono che se si considerano singoli caratteri, o meglio singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. Nessun gene può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra. Le popolazioni umane sono geneticamente molto simili le une alle altre, c’è invece una grande variabilità genetica tra gli individui. La variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni, per esempio tra gli europei o gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni, tra gli italiani e gli etiopi, per esempio, sono modeste e pressocché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni. Questa differenza si può quantificare e il risultato è che, come misurato a partire dal 1970, l’85% della variabilità genetica umana è presente all’interno delle singole popolazioni, il 5% tra popolazioni del medesimo continente e il 10% tra popolazioni di diversi continenti. C’è maggiore differenza tra due italiani posti all’estremo di un profilo genetico, che non tra un italiano e un etiope posti al centro dei profili delle rispettive popolazioni. Insomma, definire le razze umane non è utile neanche al fine pratico di descrivere le differenze presenti nella specie umana. Anzi, sostiene Barbujani: «più si studiano nuovi geni, più si fa esile la speranza di trovare chiari confini fra gruppi umani a cui possiamo dare il nome di razze».
Occorredunque tenere a mente queste tre importanti conclusioni interconnesse, che inficiano ogni fondamento del razzismo biologico:
Assenza di geni assolutamente caratteristici di una particolare popolazione
Grande variabilità genetica tra gli individui
Variabilità interna alle popolazioni maggiore della variabilità tra le popolazioni
Per dare un’idea più chiara ed intuitiva, se non bastassero i numeri, ricorrerò ad un banale esempio pratico. Prendiamo una popolazione qualunque, e supponiamo di voler descrivere la razza a cui appartengono gli individui di tale popolazione. Supponiamo di scegliere come primo criterio il colore dei capelli: ovviamente non è sufficiente, perché nella razza sarebbero inclusi tutti gli individui che hanno i capelli di quel colore, anche quelli che non appartengono a quella popolazione. Si deve dunque affinare la descrizione aggiungendo un’altra caratteristica, per esempio considerando la forma del naso. Non è sufficiente, perché innumerevoli individui nel mondo avranno sia i capelli di quel colore sia il naso di quella forma. Dunque è necessario affinare ancora la descrizione con altre caratteristiche, per escludere gli individui “presi nel mucchio”, cioè individui che, per come è definita la razza in questione, saranno casualmente inclusi anche se non c’entrano niente. Questi individui intrusi, qualunque sia la descrizione della razza, saranno sempre troppo numerosi, renderanno il modello inaccettabilmente poco preciso e costringeranno ad aggiungere ulteriori caratteristiche per affinare la descrizione. Finché, a un certo punto, l’elenco è talmente lungo e la descrizione talmente specifica che ad ogni caratteristica aggiunta cominciano ad essere esclusi individui che dovrebbero essere inclusi, perché insomma, si tratta di una popolazione che vogliamo descrivere come razza, ma non si può certo pretendere che gli individui che la compongono condividano veramente tutte quelle caratteristiche, neanche fossero fatti con lo stampino. Il numero di inclusi che dovrebbero essere esclusi è sempre troppo grande, il numero di esclusi che dovrebbero essere inclusi è sempre troppo piccolo. Questo rende conto della particolare configurazione della diversità umana, che si rifiuta di essere categorizzata in razze. L’unica soluzione scientifica è considerare la specie umana divisa in tante razze quanti sono gli individui.
Tornando ora alla questione iniziale, dovrebbe esser chiaro il senso di questa lunga premessa: lo stesso identico ragionamento si può fare riguardo al concetto di cultura. Per definizione (qui) con “cultura” si intende «il complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico». Ogni società nasce dall’incontro di interessi particolari, e in una visione di sinistra (in una qualunque visione di sinistra, dato che si tratta del minimo sindacale per poter sperare di essere considerata tale, come detto qui) non può che essere vista come campo di forze in cui si articola il conflitto tra innumerevoli interessi contrapposti. Se la cultura è il complesso di tutti quei comportamenti che caratterizzano la vita di una società, è espressione di tanta diversità quanto diversi sono gli interessi e i conflitti che la percorrono, con buona pace di chi sostiene che le culture siano monolitiche peccando di ingenuità o ignorando un fatto che si può riassumere con estrema facilità: la realtà è complessa, molto complessa. In ogni gruppo umano esistono interessi contrapposti, e che non sono mai solo bianco e nero. Ci sono progressisti e conservatori, ma tra i progressisti ci sono i riformisti e i rivoluzionari e tra i conservatori ci sono i moderati e i reazionari, poi tra i reazionari ci sono gli estremisti violenti armati e i reazionari istituzionali, e tra questi quelli più aperti su alcune questioni e quelli che lo sono meno, e tra quelli aperti ce ne sono che lo fanno per motivi di convenienza politica e compromesso e altri che lo fanno per sincera convinzione personale, mentre tra i rivoluzionari ci sono quelli disposti ad allearsi con altre forze popolari e quelli intransigenti, e tra gli intransigenti quelli che vogliono far subito la rivoluzione e quelli che vogliono preparare il terreno in attesa di tempi migliori… inutile continuare; questo esempio, che pure si limita esclusivamente alle posizioni politiche che si possono assumere all’interno di una stessa società, rende conto della straordinaria varietà possibile.
Si possono prendere in prestito gli argomenti contro il razzismo biologico, riformulandoli per mettere alla prova la convinzione che la varietà del comportamento umano in società sia effettivamente organizzata in culture ben definite (in maniera oggettiva, aldilà delle impressioni e delle autorappresentazioni).
Il primo argomento è che la descrizione generale di una cultura difficilmente può adattarsi bene a tutti i comportamenti individuali. Come nel caso delle razze, non esiste elenco di caratteristiche culturali che funzioni per tutti, senza essere violato dall’interno di quella specifica cultura da parte di individui che staranno pure agli estremi dello spettro di convinzioni, pratiche, modelli e valori, ma che di quella cultura fanno comunque innegabilmente parte. D’altra parte, non esistono elementi di una cultura che assolutamente non esistono nelle altre culture.
Esiste invece una grande variabilità “culturale” tra gli individui in termini di credenze, modelli e valori, e in tutte le culture è rappresentato largamente lo spettro delle possibilità, in proporzioni che dipendono dal contesto storico entro cui la cultura si articola e si esprime.
Nel caso della “cultura araba” o musulmana, come probabilmente in tutte le culture umane esistenti ed esistite, è possibile riscontrare la validità di queste osservazioni. Se «la cultura araba è teocratica», a che cultura appartengono tutti i musulmani laici che hanno preso parte ai processi di riappropriazione democratica e alle rivolte del 2011 e che combattono oggi contro il tentativo di gruppi come Daesh di imporre un ordine teocratico? E i tanti arabi atei che lottano per il riconoscimento sostanziale della libertà di non credere? Se «la cultura araba è violenta», che dire dei milioni di arabi a cui piacerebbe vivere senza alcuna violenza, come alla maggior parte degli esseri umani sulla faccia del pianeta? Se «la cultura araba non rispetta le donne», a che cultura appartengono le sempre più rumorose femministe arabe? E gli autonomisti curdi che con l’esperimento sociale del Rojava hanno invidiabilmente costruito una sostanziale parità di genere? E a che cultura appartenevano quei paesi mediorientali in cui negli anni Sessanta non esistevano limitazioni religiose alla libertà delle donne?
Cosa significa questo? Che si deve accettare un fatto: la varietà esiste, anche nella “cultura araba”, ed esiste sempre una complessità irriducibile a semplificazioni con l’accetta. C’è maggiore differenza tra due individui di “cultura occidentale” posti all’estremo dello spettro di credenze e valori, che non tra un individuo medio di “cultura occidentale” e un individuo medio di “cultura araba”. Per esempio, io mi sento (e spero di essere) molto più simile a un non credente di sinistra tunisino che non a un cattolico conservatore siciliano; così come mi sento molto più vicino ad un anarchico inglese che non ad un fascista italiano. Come le presunte razze, le presunte culture presentano limiti ontologici e implicano un salto logico che non è razionalmente giustificabile.
(Il fatto che confutando chi sostiene la superiorità di alcune culture si finisca facilmente per utilizzare gli stessi argomenti adatti a confutare chi sostiene la superiorità di alcune razze dovrebbe suggerire qualcosa sulla funzione sociale e politica assunta dal razzismo culturale. Ontologicamente ed eticamente, non c’è nulla di diverso tra credere che esistano razze superiori e credere che esistano culture superiori. Se la prima opzione è meno socialmente accettabile è più per una ragione storica che intellettuale: in generale, il razzismo biologico disgusta perché innesca un meccanismo riflesso che richiama la memoria condivisa del Demonio nazista, non perché è stato dimostrato che è scientificamente infondato. Diversamente, sostenere l’inferiorità di certe culture è considerato socialmente accettabile. Per capire cosa intendo dire, provate a sostituire la parola «arabi» con la parola «ebrei» in tutti i luoghi comuni che si dicono sugli arabi. Converrete con me che molta meno gente sarebbe disposta ad ascoltarvi senza storcere il naso.)
Qualcuno potrà legittimamente chiedersi se non sia questa un’opera di sapiente mistificazione della realtà ordita dai buonisti apologeti in difesa del politicamente corretto volta a nascondere l’evidenza che le società del mondo arabo qualche problema in materia di diritti delle donne innegabilmente ce l’hanno, così come qualche problema con la laicità dello Stato e le libertà individuali e sociali. Osservazione sensata, se non fosse che qui nessuno sta negando che questi problemi esistano, bensì che siano dovuti alla “cultura araba”. Non serve a molto affidarsi alla mera evidenza empirica senza un’elaborazione intellettuale, perché altrimenti dovremmo credere che un legnetto dritto immerso nell’acqua si spezza e diventa più corto. Se ogni cultura comprende una diversità che spazia tra gli estremi dello spettro di credenze, convinzioni, modelli e valori, il prevalere di certe credenze, convinzioni, modelli e valori nell’articolarsi della vita sociale è da attribuirsi allo sviluppo storico, al contesto sociopolitico, piuttosto che alla cultura in sé (che invece contiene tutte le sfumature possibili, dominanti e non).
I fascismi novecenteschi europei non erano dovuti alla cultura occidentale più di quanto i movimenti socialisti fossero dovuti alla stessa cultura: se negli anni Trenta i fascismi trionfarono fu per cause materiali ben individuabili, per i rapporti sociali di forza, non certo per un’impalpabile e astratta ineluttabilità intrinseca alla cultura occidentale. Analogamente, lo stesso vale per l’attuale mondo arabo: se, per esempio, esiste una creatura mostruosa come l’ISIS, è perché le condizioni politiche, economiche e militari lo hanno permesso. La “cultura araba” non spiega l’esistenza dell’ISIS, ma solo le forme della sua esistenza. Se l’ISIS fosse sorto in una cultura diversa, non sarebbe stato meno mostruoso e non avrebbe avuto meno difficoltà ad affermarsi (l’esempio dei fascismi europei è calzante). Ancora, il peso del contesto storico è esemplificato dalla condizione delle donne in Afghanistan, che negli anni Sessanta potevano uscire di casa, guidare, iscriversi all’università ed è ovvio che queste libertà sono state perse a causa degli avvicendamenti squisitamente geopolitici che hanno segnato la storia del paese, mentre il popolo è in maggioranza musulmano dagli inizi dell’Islam e l’occupazione sovietica non ha certo annullato secoli di cultura musulmana popolare.
Due studentesse di medicina afgane discutono di anatomia umana con la loro professoressa, a Kabul nel 1962
Quello che avviene quando si attribuiscono alla cultura gli eventi sociali politici economici è uno scambio dialettico tra struttura e sovrastruttura, che porta a non riconoscere che la cultura non è causa dei comportamenti, ma è i comportamenti (le cui cause sono squisitamente materiali e risiedono nei rapporti forza, produzione e dominio esistenti nelle società).
Insomma, nessuno nega l’esistenza e la gravità dei problemi che affliggono purtroppo buona parte del mondo arabo. Si tratta di contestualizzare e di analizzare la complessità del reale, senza sostenere l’esistenza di culture monolitiche, in cui la diversità e i conflitti sono neutralizzati. Non si tratta di politicamente corretto: ciò che opprime, reprime, soffoca e limita le libertà individuali e sociali va combattuto, sempre, in quanto tale, in ogni cultura. Per questo motivo, si deve lottare contro tutto ciò che nella “cultura araba” è autoritario, violento e repressivo e per farlo occorre non neutralizzare i conflitti, ma anzi riconoscerli per sostenere ciò che al contrario è liberante ed emancipatore. Se di una cultura si considera arbitrariamente solo ciò che non piace e se ne fa una questione di cultura, allora tutte le culture sono conservatrici (se arbitrariamente si è scelto di vederne solo la componente conservatrice) o progressiste (se arbitrariamentre si è scelto di vederne solo la componente progressista). Chi invece riconosce il conflitto con le sue contraddizioni e ambiguità, riconosce che la cultura protestante ha prodotto le chiese strutturate autoritarie e istituzionali dei luterani ma anche i movimenti zwingliani e anabattisti; la cultura cattolica ha prodotto la Santa Inquisizione ma anche frati francescani che difendevano i diritti dei popoli colonizzati e la teologia della liberazione; la cultura marxista ha prodotto lo stalinismo ma anche il socialismo libertario; la cultura francese moderna ha prodotto l’assolutismo ma anche l’età dei lumi; la cultura illuminista ha prodotto la democrazia ma anche il capitalismo; la Rivoluzione francese ha prodotto i giacobini ma anche Napoleone; e così via.
Ecco perché, anche se il nazismo è nato ed cresciuto nella “cultura occidentale”, non viene detto che la “cultura occidentale” sia nazista. Anzi, oggi viviamo nella stessa cultura ma non ci sono nazisti al potere: non è cambiata la cultura, ma il contesto sociopolitico entro cui tale cultura è espressa. Non si capisce per quale motivo lo stesso non debba valere per la “cultura araba” quando si dice che è teocratica o che non rispetta i diritti delle donne. Ecco perché non esiste nessuno scontro di civiltà.
Infine, soprattutto, chi da questa sponda critica la “cultura araba” perché teocratica, bigotta, intollerante, discriminatoria, sessista, dovrebbe prima di tutto guardarsi in casa (anche se mi rendo conto che avere i fascisti in giardino non è assolutamente un buon motivo per astenersi dal criticarli quando sono nel giardino del vicino); inoltre rendersi conto che il modo migliore per combattere quanto di teocratico, bigotto, intollerante, discriminatorio, sessista esiste nella “cultura araba” è proprio evitare di immaginare una “cultura araba” in quanto tale. Per esempio, attualmente la concreta opposizione agli autoritarismi nel mondo arabo è quasi interamente composta da musulmani o gruppi in tutto e per tutto interni al mondo arabo. Parlando di “cultura araba” si comprendono nello stesso campo semantico, mentale e di riflesso anche politico, tanto l’autoritarismo quanto la maggioranza di coloro che lo stanno combattendo. Se l’obiettivo è sconfiggere l’estremismo autoritario, a che serve un concetto di “cultura” così definito, che traccia una immaginaria linea di confine in base alla quale l’autoritarismo e chi lo combatte stanno sullo stesso lato? Se si vuole migliorare le condizioni di vita del genere umano, le linee di divisione non vanno tracciate tra le culture, ma tra oppressi o oppressori.
Chi è amante del viaggio lento avrà avuto occasione di notare che ultimamente in Italia è possibile trovare in vendita intere collane dedicate al turismo a piedi o in bicicletta: sono guide che forniscono una serie di consigli pratici su come affrontare il viaggio, organizzano le tappe secondo uno schema predefinito, contengono le relative carte con il tracciato del percorso da seguire e informazioni di natura storico-culturale.
Esistono guide per percorsi di fama mondiale come il cammino di Santiago de Compostela o la Via Francigena, ma anche per tratte meno conosciute e meno trafficate. Di recente ho avuto l’occasione di conoscere, usandola per organizzare un viaggio, una di queste ultime, una guida che a cominciare dal titolo si presenta con un nome molto retorico e poco convincente: Con le ali ai piedi, della camminatrice pellegrina Angela Maria Seracchioli, 2011, edizioni Terre di mezzo. Il percorso si propone di accompagnare il viaggiatore, come da sottotitolo «nei luoghi di San Francesco e dell’Arcangelo Michele», per circa 500 km dal Lazio fino in Puglia.
Prima di recensire e commentare il percorso, una premessa è fondamentale: il motivo per cui sono a favore del viaggio lento è che lo ritengo carico di un senso profondamente politico. Come mi è altre volte capitato di scrivere, chi viaggia lentamente a piedi abbandona l’eteronomia per trovare l’autonomia. Quando cammini non dipendi da nessuno se non dai tuoi piedi e dalla tua volontà: non devi sottostare a tempi, orari e percorsi e coincidenze imposte o stabilite più o meno esplicitamente da altri, lo spostamento da un punto all’altro non dipende dalla quantità di denaro che hai in tasca né da «un traffico alimentato da armi di distruzione di massa [che] tradisce l’esistenza di un più letale sistema plasmato dall’irrazionalità capitalistica» (citazione dalla chiamata ufficiale della Ciemmona 2016, visto che lo stesso discorso si può fare per la bicicletta). O ancora, parafrasando l’Ivan Illich di Elogio della bicicletta, solo a piedi (lui dice in bicicletta) c’è vera eguaglianza e giustizia sociale negli spostamenti. Insomma, in ogni momento, sei libero di fermarti, di fare una pausa o cambiare direzione. Ciascuno scopre un ritmo di vita proprio, non imposto dalla standardizzazione e potenzialmente scevro da scadenze e impegni, in cui è la libertà di scelta che misura concretamente il valore del tempo. Camminando fuori dal contesto urbano, anche nell’alimentazione si impara ad essere autonomi, almeno parzialmente, ed automaticamente rispettosi dell’ambiente e dei suoi cicli naturali. Si è anche a stretto contatto con il territorio, i suoi sentieri e le sue strade, le piccole località secondarie ignorate nei viaggi d’altro tipo, i loro prodotti tipici, le loro usanze e tradizioni e i loro abitanti spesso molto più gentili e disponibili di quanto ci si aspetti: così si crea e si espande una rete sociale nonché una rete di saperi condivisi dalla comunità, che fa apprezzare le altrimenti impercettibili differenze tra un paesino e quello successivo, o tra una valle e quella successiva, e che resiste alla paradossale coesistenza nel modello neoliberista tra omologazione sociale e individualismo corrosivo.
Purtroppo, non ho trovato tutto questo nella porzione del cammino che ho percorso seguendo Con le ali ai piedi, e non per sfortuna ma per il taglio che tale guida ha, per la struttura intrinseca del percorso e per l’impalcatura ideologica contraddittoria da cui tale struttura prende le mosse (e non sto parlando dello spirito religioso che anima il pellegrinaggio in luoghi legati alle agiografie di San Francesco o di Celestino V).
Andiamo con ordine. Prima di tutto, le indicazioni sulle carte del percorso (come in tutte le guide della stessa collana) sono troppo stringate: non sono indicati i nomi di molte strade e sentieri e soprattutto l’intera cartografia è incentrata sul percorso di interesse, con uno zoom selettivo che impedisce di spaziare oltre. Tale mancanza nasce probabilmente dalla fiducia che la guida ripone nel viaggiatore, presumendolo sempre dedito e attento a non uscire fuori dal tracciato suggerito dalla guida. Non occorre chiarire che si tratta di una mancanza che crea una dipendenza del viaggiatore dalla guida in questione, se questi non è sufficientemente attrezzato con altro (spesso costoso) materiale cartografico. Per fare un viaggio lento occorre tuttavia avere strumenti di orientamento per conoscere il territorio in cui ci si trova, e conoscere veramente la geografia del territorio significa averne una chiara idea del contesto, anche cartografico. La conoscenza del territorio garantisce autonomia di scelta e consapevolezza nell’organizzazione del viaggio, sia prima della partenza sia tra una tappa e l’altra: per questo, una cartografia completa e il più possibile ampia e dettagliata sarebbe necessaria per intraprendere un cammino che realmente garantisca a ciascuno il massimo dell’autonomia riducendo per quanto possibile le costrizioni organizzative.
In secondo luogo, un elemento di cui si accorge subito anche il camminatore meno esperto è la natura del tracciato: una lunga, troppo lunga, porzione del percorso è asfaltata. Nella premessa, l’autrice mette le mani avanti: «l’asfalto pare essere lo spauracchio dei camminatori ma può non esserlo se lo si affronta con spirito pellegrino, la cui qualità è anche l’accettazione e la trasformazione al positivo di tutto ciò che si incontra». Seguendolo, viene quasi da chiedersi se gli autori l’hanno percorso veramente (come sarebbe che l’asfalto pare essere lo spauracchio dei camminatori?) o soltanto progettato il tracciato a tavolino su una carta, perché la sovrabbondanza di asfalto rende tutto il percorso poco “vissuto”. Seguendolo, non ci si sente parte di una comunità di camminatori, non viene da pensare a quanti hanno percorso gli stessi passi prima di te; al contrario, ci si sente intrusi, perché su quelle strade le automobili magari saranno poche e dunque il traffico poco inquinante, ma l’asfalto è stato concepito per loro, e non certo per gli spostamenti a piedi. L’impressione che se ne ricava, per quanto il paesaggio circostante sia di inestimabile bellezza e permeato di un’estetica piacevolmente rurale o montana, è di essere non inclusi nel territorio, ma respinti da esso. Inoltre, ed è ciò che più di tutto porta a chiedersi se il percorso, come vorrebbe l’etimologia della parola, sia effettivamente stato percorso, camminare sull’asfalto fa male ai piedi, li affatica e aumenta notevolmente il rischio che si formino vesciche, cosa che ogni buon camminatore impara molto presto e che in questo caso rende meno piacevole il paradiso dei sensi dato dal bel paesaggio (perché la vista è solo uno dei sensi, ma c’è anche il tatto).
Che per alcuni spostamenti sia impossibile evitare strade asfaltate è un’amara verità che deriva dai fattori economici, sociali, politici e culturali che hanno storicamente determinato le modalità di circolazione di persone e merci, dunque che parte dei cammini abbiano finito per essere inglobati o sostituiti da colate di asfalto è del tutto comprensibile. L’assenza di sentieri alternativi potrebbe giustificare l’eccessiva presenza di strade asfaltate lungo il tracciato in questione, ma a questo punto si apre un’altra critica: i sentieri alternativi ci sono. Dai sentieri mantenuti dalla sezione CAI de L’Aquila (purtroppo piuttosto disastrata dal terremoto del 2009) ai cammini celestiniani passando per i tratturi usati per secoli nella pratica della transumanza, esistono innumerevoli percorsi alternativi. Di queste alternative la guida fa cenno come curiosità intellettuali più che come importante conoscenza per vivere il territorio, anche se solo di passaggio. Ovvero, non solo indirettamente nasconde conoscenze utili, ma anche si rivolge al lettore considerandolo più un turista che un viaggiatore (sottigliezza non irrilevante).
Ora, c’è da fare una precisazione per evitare fastidiosi fraintendimenti. Qualcuno potrebbe legittimamente osservare che se intendo fare un certo tipo di viaggio e invece mi sono andato a scegliere una guida che non mi consente di fare quel tipo di viaggio la colpa è solo mia e non mi posso lamentare: la prossima volta scelgo meglio, problema risolto. Resta però un fatto su cui riflettere. Non sono certo il primo a dare un significato politico al viaggio, anzi esiste una nutrita schiera di enti e associazioni che si occupano di “turismo responsabile” sotto l’ombrello dell’Associazione Italiana Turismo Responsabile (AITR), a cui tra l’altro aderisce anche Terre di mezzo Editore, la casa editrice della collana di Con le ali ai piedi. Così come accade in certi movimenti per il “cibo responsabile” analizzati dall’indagine del bolognese Wolf Bukowski (in La danza delle mozzarelle), anche nel movimento per il “turismo responsabile” la narrazione e la struttura nascondono una profonda contraddizione.
il turismo responsabile è il turismo attuato secondo principi di giustizia sociale ed economica e nel pieno rispetto dell’ambiente e delle culture. Il turismo responsabile riconosce la centralità della comunità locale ospitante e il suo diritto ad essere protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio. Opera favorendo la positiva interazione tra industria del turismo, comunità locali e viaggiatori.
Tale attenzione può essere declinata e intesa in parecchi modi, come si evince dal numero di denominazioni alternative e parziali, di significato qualitativamente differente usate per riferirvisi: “turismo consapevole”, “ecoturismo”, “turismo culturale”, “turismo comunitario”, “turismo sostenibile”, “turismo equo-solidale”. L’AITR stessa si premura di specificare che ciò che promuove è una somma di tutte queste accezioni parziali, qualcosa di potenzialmente radicale (pur non mettendo in discussione il concetto stesso di “turismo”).
Certamente le collane commerciali che propongono i viaggi a piedi rientrano nella categoria di turismo responsabile, per il basso impatto ambientale e per il tipo di viaggio che si discosta dalla consuetudine del turismo di massa, ma in base alle osservazioni formulate sopra si rischia di ritrovare riprodotti nel turismo responsabile gli stessi principi di alienazione, mercificazione e privatizzazione dei saperi che si osserva nel turismo di massa.
In particolare, è interessante pensare all’omissione di conoscenze relative ai secolari o millenari percorsi alternativi come esempio di «nuova accumulazione originaria», per usare un’espressione di Francesco Raparelli in Rivolta o barbarie, mutuata dal classico concetto marxista di «accumulazione originaria». Secondo Karl Marx,
«Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro… Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione» (Il Capitale, libro I)
Storicamente tale processo si è manifestato sotto forma di recinzioni che cominciarono a comparire in Inghilterra alla fine del XV secolo che separavano materialmente i lavoratori dai mezzi di produzione, espropriando i contadini, i produttori immediati. Soltanto con la privazione dei propri mezzi di produzione è stato possibile che i produttori diventassero dipendenti da un nuovo bisogno, quello cioè di vendere la propria forza-lavoro ai nuovi proprietari capitalisti in cambio di un salario. Ovvero, il rapporto di subordinazione e di sfruttamento, l’intera natura gerarchica dei rapporti di produzione nel capitalismo deriva dalla separazione tra i produttori e i mezzi di produzione, da un processo che rende impossibile per i produttori l’utilizzo immediato dei mezzi di produzione.
In analogia con questo concetto, in molti hanno esteso la nozione di «accumulazione originaria» ad altri aspetti della della vita economica e sociale che hanno interessato e interessano non soltanto il periodo di formazione del sistema capitalistico ma anche il presente, ipotizzando che l’«accumulazione originaria» non si limiti ad essere una condizione iniziale del capitalismo, ma anche una vera e propria condizione strutturale, per cui continuamente, per esistere e svilupparsi, il capitale produce “recinzioni” che separano i produttori dai mezzi instaurando rapporti gerarchici di sfruttamento. Per Raparelli, è la vita stessa il mezzo di produzione post-fordista su cui si esercita la nuova accumulazione «originaria», ma un discorso analogo può farsi riguardo alla privatizzazione delle conoscenze della comunità open source o alla valorizzazione capitalistica dei dati digitali da parte di grosse multinazionali come Facebook o Google. Più banalmente, si è di fronte allo stesso fenomeno ogniqualvolta si convincano individui di non possedere adeguate conoscenze, in modo da potergliele vendere ad hoc, come quando si convincono le mamme di non saper allattare per potergli rifilare fior di riviste sull’argomento.
Tornando al turismo responsabile, l’omissione di informazioni utili sui percorsi alternativi a quello principale può essere visto come una forma di “recinzione” che rende impossibile al camminatore l’utilizzo immediato dei percorsi e genera un rapporto di subordinazione, come già spiegato in precedenza. Questo rapporto è capace di generare un profitto, perché saperi e nozioni storicamente tramandate dalla comunità diventano una merce che può essere inserita in una guida e venduta sotto una forma poco riconoscibile.
La scarsa riconoscibilità dei saperi originari è legata ad un altro fatto interessante, che riguarda la presunta continuità con la storia del territorio: il percorso proposto dalla guida Con le ali ai piedi ricalca in parecchi punti alcuni dei percorsi alternativi, a cui dunque deve molto. A questi fa solo qualche cenno (o addirittura li ignora, a cominciare dal titolo, che per questo motivo all’inizio di questo articolo è stato definito “molto retorico e poco convincente”), nella premessa l’autrice scrive: «Questo […] è un Cammino nuovo, non particolarmente difficile. […] Il percorso è stato parzialmente segnato da me e da volontari. […] un nuovo Cammino su tracce antiche che ripercorre, in parte, i tratturi della transumanza». Eppure, a parte il rapido riferimento nella premessa e una pagina informativa sui tratturi qualche tappa dopo, sparisce dalla guida ogni riferimento pratico all’esistenza degli stessi, ogni reale legame con la storia del territorio che sia diverso da “i luoghi di San Francesco”.
Per spiegare questo fatto, può essere utile il concetto di “invenzione della tradizione”. Secondo Eric Hobsbawm, che introdusse il concetto in un omonimo saggio storico nel 1983,
per «tradizione inventata» s’intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato. Di fatto, laddove è possibile, tentano in genere di affermare la propria continuità con un passato storico opportunamente selezionato.
Inutile dire che il passato storico opportunamente selezionato è in questo caso costituito in primo luogo dalle porzioni dei percorsi alternativi sovrapposti al, e in parte rimossi dal, “nuovo” percorso; in secondo luogo dai luoghi di importanza religiosa che finiscono con l’apparire l’unica motivazione per incamminarsi in un territorio come quello dell’Abruzzo che, al contrario, di altre motivazioni sarebbe generoso. Tutto ciò cozza contro i principi del turismo responsabile, ma non c’è da stupirsi, perché stiamo parlando di un fenomeno contraddittorio. In Viaggiare, conoscere e rispettare l’ambiente, un saggio sul turismo pubblicato nel 2003, Osvaldo Pieroni al capitolo Le contraddizioni dell’ecoturismo scrive l’ovvia conclusione che
[…] il turismo rappresenta un fatto sociale totale, che porta con sé le contraddizioni e le ambiguità che sono caratteristiche di ogni società, né più e né meno di ciò che accade con ogni altro fenomeno caratteristico dell’organizzazione sociale in genere.
Ancora una volta, non esiste un aspetto della vita umana che non dipenda dalla natura sociale della vita umana stessa. Anche quando si cammina, da soli, in mezzo alle montagne.
Nessun mezzo di informazione ha dato peso all’amara verità venuta a galla negli ultimi giorni, nel corso delle indagini sugli attentati di Bruxelles, né si è aperto alcun dibattito politico sulla spinosa questione. Si tratta di una verità che in troppi preferiscono non vedere, arroccandosi sulle proprie posizioni ideologiche anche quando risultano tristemente smentite dai fatti, affrettandosi anzi a negare sempre, anche di fronte all’evidenza.
Najim Laachraoui, il terrorista che si è fatto saltare in aria all’aeroporto di Bruxelles causando la morte di 11 persone, aveva studiato in una scuola superiore cattolica di Schaerbeek. Il fatto che la scuola in cui il futuro terrorista si è formato fosse cattolica sembra non interessare agli attenti analisti, ai commentatori politici, ai sostenitori del multiculturalismo nel nome di un frainteso rispetto per i “diritti umani” o di una sempre più rischiosa “libertà religiosa”.
Alla fine è venuta fuori la verità, quella da cui in troppi distolgono lo sguardo preferendo voltarsi dall’altra parte: nel cuore dell’Europa, in quello che storicamente si è sempre configurato come il baluardo dei diritti fondamentali, della tolleranza e della libertà, esistono scuole che formano futuri terroristi. Questo dato è innegabile, anche da chi sostiene ingenuamente che si tratti di una coincidenza. Come si può pensare che una scuola cattolica non impartisca un certo tipo di disciplina? Coloro che sostengono si tratti di mera coincidenza, sono al corrente dell’insegnamento di queste scuole? Hanno prestato attenzione ai precetti di quella religione? Hanno letto costoro i contenuti delle loro Sacre Scritture, le parti in cui si parla di condizione della donna o quelle in cui si giustifica la guerra, il genocidio, lo stupro, la schiavitù e la pena di morte? Sulla base di questi principi, seppure in una loro versione più blanda, sobria e misurata, è condotta una sapiente opera di indottrinamento. Come si può, con un minimo di onestà intellettuale, pensare che non esista, almeno in una parte di quegli studenti, il rischio reale di una involuzione verso la radicalizzazione e di una degenerazione verso il fondamentalismo e l’estremismo?
Un altro elemento preoccupante costituisce una verità che in troppi si ostinano ad ignorare o a negare contro l’evidenza: non si tratta di casi isolati. Forse che i cattolici moderati hanno preso le distanze da questo tipo di insegnamenti? Hanno rifiutato i contenuti più violenti ed estremi delle Sacre Scritture, hanno ripudiato i principi del fondamentalismo? Una scuola cattolica ha formato un pericoloso terrorista. Se è solo una coincidenza, se l’appartenenza (attuale o passata) alla comunità cattolica non c’entra, perché i cattolici non condannano il suo gesto efferato? Così facendo, dipanerebbero ogni possibile dubbio sulla loro buona fede, dimostrerebbero di non essere potenziali simpatizzanti di chi organizza gli attentati. Eppure non ci sono state decise prese di distanza, se non un timidissimo imbarazzo manifestato da una sottilissima fetta della comunità cattolica europea e mondiale. Perché non condannano? Chi si nasconde tra le loro fila? Potrebbe non nascondersi nessuno, ma allora perché non condannano, non isolano, non ripudiano?
La società, nella sua interezza, deve prendere atto che esiste questo rischio: non sappiamo quanti Najim Laachraoui potrebbero ancora sfornare gli istituti e le scuole cattoliche che, è opportuno ricordarlo, sono disseminate ovunque non solo in Belgio ma nella maggioranza dei paesi europei (l’Italia in primis), con una organizzazione efficientissima e capillare che gode, preoccupantemente, di ingenti risorse economiche (e anche in questo, il nostro paese gode addirittura del primato).
Non nascondiamoci dietro un dito, bisogna avere il coraggio di dirlo: la religione cattolica è una religione strutturalmente violenta. Bisogna avere il coraggio di alzare la voce contro il buonismo di chi difende a spada tratta il multiculturalismo con il rischio di giustificare le sue degenerazioni estremiste e fondamentaliste. Non possiamo permetterci altri attentati, non possiamo aspettare che emergano altri Najim Laachraoui: è arrivato il momento di riconoscere la conclamata pericolosità di certe “organizzazioni religiose” e di ammettere che è necessario imporre delle limitazioni.