Appunti su un nuovo colore
Alla fine del 2018, in Francia è successo qualcosa. Improvvisamente, milioni di persone prima invisibili o raccontate con descrizioni astratte sono comparse in carne ed ossa, hanno occupato fisicamente e simbolicamente spazi in precedenza a loro negati, si sono reimpossessate di quelli in cui erano stati relegati e ne hanno ridefinito funzioni e significati, creando nuovi modi di vivere, nuove relazioni, ma soprattutto hanno voluto parlare, ricordando al mondo di essere dotati di parola, e hanno voluto dire la loro.
Con il movimento dei Gilets Jaunes, si è prodotta una rottura nella normalità: cose che non erano normali prima, lo sono diventate, e vice versa. Si è quindi espressa una tensione costituente, un insieme di eventi che ha interrotto il normale corso dei flussi per generarne altri qualitativamente diversi. Più banalmente, un esempio di “normalità” a cui ci si era grosso modo abituati sul continente europeo era l’irrilevanza politica dei movimenti, la loro incapacità di produrre nella società cambiamenti reali che mettano in discussione lo stato di cose presente a livello generale. A parte poche eccezioni, i movimenti sono stati additati per decenni come inconcludenti, minoritari, inefficaci, mera testimonianza sulla scena politica pure quando capaci di entrare sotto i riflettori del teatrino istituzionale. Dalla fine del 2018 non è più così. Le masse sono rientrate in scena, prepotenti, e senza alcuna intenzione di compiacere gli sguardi degli spettatori né le loro aspettative, ma per dire: non siete spettatori, siete attori. L’appello è stato recepito e le masse, da attrici, per definizione hanno agito, abbandonando almeno momentaneamente la passività e la rassegnazione e rispondendo alla domanda che da ormai troppo tempo circolava negli ambienti di critica sociale radicale europea: «c’è vita in Europa?».
A livello simbolico, tutto questo rappresenta qualcosa di difficilmente esprimibile con linguaggi e sistemi di riferimento tradizionali, fuorché quelli appunto della rottura. Certo, ne hanno parlato sociologi, antropologi, politici, pure artisti, per trovare le parole: di tutto questo in Francia si è parlato ampiamente, e non se ne sarà mai parlato abbastanza.
All’estero, fatta eccezione per la sua passeggera mediatizzazione spicciola con annessa inevitabile distorsione, il movimento dei gilet gialli ha suscitato relativamente scarsa attenzione. I pochi che ne hanno parlato in italiano lo hanno fatto con intenti confusionisti e populisti, come gli inviati dei maggiori quotidiani, qualche politico con le idee poco chiare sulla situazione, certi profili online caratterizzati da prospettive tendenzialmente vicine alla destra sociale e all’area che si definisce sovranista. I giornalisti dei maggiori quotidiani hanno parlato di questo movimento senza comprenderlo (o senza volerlo comprendere), e si sarebbe detto che in barba all’etica giornalistica non fossero mai scesi in piazza per parlare direttamente con chi era protagonista degli eventi: piuttosto, hanno svuotato il movimento per riempirlo di contenuti e attribuirgli significati funzionali alla linea editoriale e agli interessi politici da difendere in patria, a prescindere dalla realtà dei fatti. Così, hanno raccontato di come i gilet gialli fossero un movimento di destra, perché protestavano contro Macron, acclamato come «ultimo argine contro l’estrema destra in Europa», simbolo dunque di una «sinistra moderna», e nella logica estremamente provinciale dei giornali italiani per protestare contro un personaggio simile non si può che essere di estrema destra. Non esiste alternativa, ancora una volta there is no alternative: o il neoliberismo dell’estremo centro, chiamato «sinistra», o il fascismo dell’estrema destra, la scelta è tra due opzioni falsamente alternative. Che non venga in mente a nessuno di immaginare qualcosa di diverso da queste due possibilità, entrambe feroci e totalitarie! Ovvio che dopo aver stabilito il parallelo Macron-Renzi per pompare Renzi e dopo aver definito le loro politiche come «sinistra», i giornali del progressismo liberale come La Repubblica abbiano interpretato il movimento dei gilet gialli in questa prospettiva, raccontandolo come pericoloso esempio di destra. Sono arrivati al punto di scendere finalmente in piazza, ma mettendosi d’accordo in anticipo con un militante neofascista di CasaPound in trasferta a Parigi, per intervistarlo come «gilet giallo italiano a Parigi» in una ridicola messa in scena, dandogli la parola e offrendo gratuitamente visibilità a un fascista dichiarato.
Dei politici con le idee poco chiare sulla situazione, basti un esempio: quello di Luigi Di Maio, che mesi dopo l’inizio del movimento è andato a stringere la mano a persone che nessuno aveva mai sentito nominare, autoproclamatesi rappresentanti in occasione delle elezioni (e i concetti di elezioni e di rappresentanti sono entrambi distanti anni luce dal movimento dei gilet gialli, come sa chiunque vi abbia partecipato). Anche in quell’occasione, i giornali italiani ne hanno approfittato per rafforzare indignati la narrazione di un movimento di estrema destra, dando prova della loro miseria professionale e offendendo il mestiere di giornalista.
Per quanto riguarda i sovranisti italiani, il loro interesse per il movimento è stato da una parte il riflesso dell’iniziale ambiguità, presto risoltasi con la cacciata dei fascisti a suon di mazzate da tutte le manifestazioni di protesta, dall’altra un effetto della narrazione creata ad arte che voleva a tutti i costi ridurre i gilet gialli ad un movimento di estrema destra, alimentando così le simpatie di chi, da casa, le mazzate non se le era prese e anzi non era neppure stato informato che ci fossero mai state.
Una meritevole minoranza di fonti indipendenti si è fatta carico di sopperire alle mancanze del sistema mediatico italiano riportando testimonianze che smentiscono le narrazioni tossiche (qui) e dando voce alle istanze di giustizia sociale (qui, qui le prime giornate di lotta seguite da InfoAut), smontando criticamente l’ambiguità dei giornali (qui, e vale pure per quelli più insospettabili), traducendo le analisi pubblicate da siti indipendenti (per esempio InfoAut ha riportato qui una traduzione da Paris-Luttes) e prodotte da strutture militanti francesi (come la Plateforme d’Enquetes Militantes tradotta a più riprese da DinamoPress) o intellettuali e studiosi quali Gérard Noiriel, Pierre Dardot, Christian Laval ed Edouard Louis (qui e qui, qui) in cui si coglie lo spirito profondamente democratico del movimento, producendo o diffondendo analisi dettagliate e puntuali (qui, qui, qui, qui, qui), provando a dare risonanza a momenti che male si inseriscono nella cornice reazionaria costruita dal sistema informativo italiano, come quando il comitato antirazzista Vérité et Justice pour Adama e parte del movimento femminista e LGBTQ hanno prontamente e giustamente lanciato l’appello ad unirsi alla mobilitazione in corso (qui), o quando sono nati i Gilets Noirs nel tentativo (molto ben riuscito ed efficace) di organizzare le lotte dei migranti con rivendicazioni specifiche (qui e qui). A questi esempi di spicco non allineati, si aggiunga Giap e il lavoro di riflessione collettiva e pedagogia popolare che il collettivo Wu Ming ha intrapreso con solerzia sui social network per diversi mesi ricevendo con infinita pazienza insulti da destra e sinistra, e restano veramente pochi singoli preziosi attivisti che si sono impegnati nella diffusione di notizie di prima mano, e più raramente nella condivisione di alcune importanti riflessioni, come Mattia (autore di questa e di questa) che, posso assicurare, dal movimento dei gilet gialli è rimasto profondamente segnato, come dopo un’illuminazione, e da allora ha presenziato svariati dibattiti in diverse città italiane, convinto della necessità di spiegare cosa effettivamente fosse successo nei primi dodici mesi di movimento, perché «in Italia non lo stanno capendo».
A queste analisi fuori dal coro accompagnate o supportate da materiale di prima mano, si è aggiunto di recente un opuscolo pubblicato in italiano da Enzo Names e Nicolò Molinari intitolato On est là, scaricabile da un apposito sito, che senza pretese di scientificità racconta le impressioni suscitate dal movimento, riferendosi soprattutto agli eventi avvenuti a Bordeaux. L’obiettivo dichiarato dell’opuscolo è stimolare il dibattito, per elaborare informazioni altrimenti poco accessibili, che non hanno circolato abbastanza in italiano, o perlomeno in Italia, neanche negli ambienti che dovrebbero essere i più naturalmente recettivi all’analisi sociale e ai movimenti popolari.
Come ben descritto nei paragrafi introduttivi di On est là, «i Gilets Jaunes hanno aperto uno squarcio nella sensazione d’immobilità, di depressione e di impossibilità che spesso ci portiamo dentro nel guardare le situazioni attuali». Penso che il portato maggiore di questo movimento, la scintilla che ha scosso profondamente le coscienze politiche in senso lato di letteralmente milioni di persone, sia esattamente questo: lo squarcio nella sensazione di immobilità.
Chi scrive ha avuto l’occasione di assistere e spesso partecipare alla costruzione e lo sviluppo di questo movimento nella città di Lione. Leggere On est là ha permesso ad alcuni scritti, all’epoca messi da parte, di uscire dai cassetti in cui erano rinchiusi e prendere vita.
Scrivevo già l’8 dicembre 2018: «I gilets jaunes ci rappresentano tutti: sono l’immagine di ciò che saranno i prossimi anni, quelli della transizione ecologica capitalista. Un pugno di enormi aziende multinazionali sempre più ricche, sempre più grosse e incontrastate sul mercato, è responsabile della maggior parte delle emissioni di gas serra e delle devastazioni ambientali sempre più gravi sulla superficie del pianeta. Eppure, in perfetta continuità con la logica economica dominante che privatizza il profitto e socializza le perdite, il costo di questa crisi ecologica planetaria in un contesto di transizione in regime capitalistico sarebbe fatto pagare alle masse. Le quali, in un contesto di guerra sociale a intensità variabile, si ribellerebbero all’imposizione di tali costi sulle proprie spalle. Non perché ne rifiutino il principio ultimo (la salvaguardia dell’ecosistema), ma la logica entro cui tale principio è imbrigliato traducendosi in un’ulteriore aggravamento delle disuguaglianze».
All’inizio del 2019 scrivevo di «un movimento sociale inedito, quello dei gilets jaunes, incompresi da quasi tutti, incomprensibili da tutti i punti di vista già rodati, politicamente codificati, socialmente accettati, sfuggevoli nella loro determinazione inspiegabile, qualcosa dunque che esce dalle interpretazioni convenzionali, dalle certezze del noto che nutre e accarezza la mente a volte addormentandola». Per poterlo comprendere, continuavo nei miei appunti, sarebbe stato necessario sbarazzarsi di una sorta di cordone ombelicale: «Il nostro cordone ombelicale. Quello che mi lega a codici di lettura della realtà che possono fallire, o risultare inutili. O il cordone ombelicale fatto della “nostra storia”, di come in modo distorto la concepiamo e la raccontiamo, del “nostro stile di vita”, del “nostro linguaggio” e dei “nostri valori” costruiti sul e col sangue di genocidi, stermini, atrocità di ogni tipo, oppressione coloniale, campi di concentramento, sfruttamento letteralmente oltre ogni limite sostenibile. Un cordone ombelicale che spaccia tutta questa merda per il prezzo da pagare per permettersi il privilegio di qualche lusso piuttosto vacillante e spesso di dubbia utilità e non riuscire poi neanche a decifrare la voce di qualcuno che in perfetto francese dica di aver fame e che non è giusto. Un cordone ombelicale che ci limita nella possibilità di capire chi usa parole e forme di espressione non convenzionali, ciononostante stereotipate e cariche del peso di una storia che non vuole mostrarsi, un cordone ombelicale che ci impedisce di muoverci al di là della comprensione di questi oggetti sociali e di queste categorie, perché nostro malgrado non possiamo che vederle e viverli dall’interno, per quanto l’Europa sia da provincializzare molto più di quanto immaginiamo, e a ragione, una ragione storica e morale se esiste la morale».
Questo per annunciare che comincia qui di seguito, con ritardo stratosferico, una serie di riflessioni sul movimento dei gilet gialli, che saranno pubblicate prossimamente in post separati.
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