Month: February 2013

  • Emilio non era convinto

    Emilio fu uno dei pochi seriamente preoccupati fin dal principio.

    «Basta con le parole» dicevano. «Bisogna passare ai fatti. Viva la rivoluzione!»
    «Quale rivoluzione?» chiedeva lui.
    «La rivoluzione: dateci una rivoluzione e noi vi seguiremo».

    Ma su che presupposti di base? Perseguendo quali principî, quali ideali, quale idea di società da costruire? Questo interrogativo Emilio si poneva in quei primi anni, ma alla domanda non c’era risposta, come si evinceva da dichiarazioni come quella fatta dal capo ispiratore di questa decantata rivoluzione: «Tutte le altre associazioni, tutti gli altri partiti, ragionano in base a dei dogmi, in base a dei preconcetti assoluti, a degli ideali infallibili, ragionano sotto la specie della eternità per partito preso. Noi, essendo un antipartito, non abbiamo partito preso».
    Qualche anno più tardi lo stesso ribadirà: «Il programma non è una teoria di dogmi sui quali non è più tollerata discussione alcuna. Il nostro programma è in elaborazione e trasformazione continua; è sottoposto ad un travaglio di revisione incessante, unico mezzo per farne una cosa viva, non un rudere morto».
    Tali esternazioni chiarivano fin da subito che la grandezza di quella particolare rivoluzione, secondo i suoi sostenitori, consisteva proprio nell’assenza di ideologie, considerate astratte e inadatte a produrre una qualunque risposta adeguata alla situazione esistente e da contrapporsi all’azione, la quale invece è in grado di risolvere concretamente i problemi reali, attraverso la dedizione, l’impegno, l’entusiasmo che prende l’animo e permette all’essere umano di imbarcarsi in grandi eventi, in imprese di importanza storica: il primo programma si definiva solennemente «rivoluzionario perché antidogmatico».

    Emilio non era convinto. Questi pretendevano il raggiungimento di un insieme di obiettivi senza collocarli in una visione coerente: in virtù della sfoggiata mancanza di dogmi a influenzarne l’azione politica, perseguivano tutto ma anche il suo contrario. O almeno, questo davano a intendere.

    L’incredulità di Emilio cresceva col tempo di fronte alle disarmanti giustificazioni di suoi amici ed compagni di partito che, uno dopo l’altro, passavano a sostenere questa nuova forza, più o meno apertamente. Chi perché tutti vi potevano trovar casa, purché disprezzassero la politica tradizionale e adorassero il nuovo («Voi siete democratici? E io non sono forse democratico? Voi siete autonomisti e repubblicani? Ebbene continuate ad esserlo, nessuno ve lo impedisce. Noi siamo un mosaico in cui la diversità dei colori e il multiforme aspetto dei dettagli danno maggiore splendore all’insieme»); chi perché così doveva andare, per forza di cose, perché «di questo passo non si può andare innanzi», perché «i tempi sono difficili».
    Non diversamente accadeva dentro le istituzioni, nelle grandi città, nelle campagne, in tutto il paese: chi in tempo di guerra era sembrato non avere alcuna voglia di morire, ora si dichiarava pronto alla morte; chi diceva «se quelli trionfano, la civiltà del nostro paese rincula di venti secoli», pochi giorni dopo prendeva incarichi con orgoglio da quelli che intanto avevano trionfato; chi era un sincero radicale oppositore, adesso si convertiva alla causa, motivandola con abbondanti ragioni ideali.

    Emilio Lussu scrisse Marcia su Roma e dintorni nel 1931, dopo il confino a Lipari per la sua opposizione al fascismo. Attraverso la sua narrazione, con cui intendeva «fissare gli avvenimenti politici del mio paese, così personalmente li ho vissuti in questi ultimi anni», egli si proponeva di raccontare i meccanismi alla base della nascita del fascismo, soprattutto per scongiurare il rischio che simili fenomeni si riproducessero altrove.
    La scelta di rivolgersi a lettori stranieri è significativa: nella prefazione, Lussu dedica il libro esplicitamente a un pubblico di non italiani e le prime edizioni non furono in lingua italiana: tutte erano precedute da una ragionata premessa da cui si evinceva lo scopo originario del libro, cioè illustrare la genesi del fascismo. Infatti, con quale illusione, e addirittura con quale utilità, raccontare il fascismo agli italiani? Questi già conoscevano bene, in cuor loro, i motivi che li avevano spinti in massa a rifugiarsi sotto le ali del fascio littorio, da sinistra e da destra. Gli abitanti di altri paesi invece no, perciò aveva senso stilare un’opera con funzione di prevenzione, di difesa immunologica, di sviluppo degli anticorpi culturali e degli strumenti necessari a sventare l’affermazione di fascismi simili.
    Oggi più che mai, Marcia su Roma e dintorni deve essere letto dagli italiani: dopo decenni di rimozioni, mistificazioni, falsificazioni, revisioni, abbiamo dimenticato, come popolo, di averlo vissuto in prima persona, il racconto di Emilio Lussu. Noi, oggi, siamo come coloro ai quali era dedicato il libro: siamo come degli stranieri, siamo estranei alla nostra storia e straniati dal presente che è ancora storia. Oggi, questo libro è dedicato a noi.

     

    Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l’autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, dovrebbe essere guardata e guidata con qualche precauzione.
    Piero Gobetti, Elogio della ghigliottina

  • VOTA DADA

    «Dada non significa nulla»
    Tristan Tzara, Manifesto Dada

    Alla fine della settimana corrente, gli italiani saranno chiamati, nella maniera più colorata, gioiosa, pacifica e civile possibile, a festeggiare il compleanno di mio fratello. Nell’attesa, molti amici, ritenendomi chissà quale esperto di compleanni, chiedono indicazioni di voto.

    A me non è mai piaciuto dare questo tipo di suggerimenti per poi dichiararmi sistematicamente deluso e gridare al tradimento dello spirito originario, ed è per questo che rispondo a tutti di essere ben disposto a dar piuttosto indicazioni di non voto: non nel senso di promuovere attivamente l’astensione, ma in quello di fornire elementi per costruire una visione critica, attività più comunemente nota come “rompere i coglioni” oppure, con una variante cara soprattutto agli elettori di centro-sinistra, “fare polemica”.

    Non è mia intenzione intavolare di seguito la solita «sterile polemica» sul fatto che il Movimento Cinque Stelle ricalchi le stesse pulsioni psicologiche e antropologiche sottese al primo fascismo degli anni Venti, che Rivoluzione Civile non sia affatto un partito rivoluzionario bensì uno schieramento socialdemocratico, seppur l’unico probabilmente presente nel prossimo Parlamento, che il Partito Democratico sia un partito di destra liberale moderata, che Giannino esattamente come il PD non possa essere considerato opzione votabile da una persona di sinistra (e sono ancora turbato dalla scoperta che queste persone effettivamente esistono). Propongo di dare per scontati tutti i contenuti di queste fastidiosissime polemiche.

    Invece, ci si potrebbe chiedere se i principali problemi che ci troviamo a fronteggiare, e che condannano la nostra società alla genuflessione innanzi agli eterei, universali, assoluti, divini e impalpabili valori del mercato e della concorrenza, siano in qualche modo risolvibili dall’interno del Parlamento, o perlomeno dall’interno del prossimo, quello votato tra fiumi di spumante stappato in occasione del natale di mio fratello. A ben vedere, la risposta è “no”, giacché qualunque voto, direttamente o indirettamente, sarà un voto per il sobrio professore, per il tecnico disinteressato, per il servitore dello Stato (leggi qui per saperne di più).

    Come fare dunque? Essendo io, come dicevo prima, poco esperto in compleanni, mi rivolgo a un amico che sembra sapere il fatto suo:

    «Non rimane», risponde dopo aver scolato il suo boccale di birra scura «che seguire le regole dell’attuale democrazia e, in mancanza di un partito che mi rappresenti fra i due schieramenti che possono davvero decidere qualcosa, votare. Ma non un partito qualsiasi, quello è qualunquismo ed è pericoloso: bisogna avere dei criteri ben definiti, ed io condivido ora i miei, che possono essere riassunti in ciò che chiamo voto DADA.

    «Il punto principale è quello estetico: devi trarre soddisfazione dall’avere tracciato una “X” su quel simbolo e non su di un altro. Secondariamente, va considerato l’impatto del voto: idealmente il partito che stai votando non deve poter usufruire del tuo voto esattamente come i big che non hai votato, vale a dire che più è lontano dalla soglia di sbarramento meglio è. Meno importante ma non banale è il fattore random: non fissarti su di un solo partito, selezionane due o tre (fino a sei per gli estimatori del dado) e lascia che sia il caso a decidere».

    Insomma, vota dada. Tanto, questa volta, davvero ogni voto è inutile.

    Dada non significa nulla. Il voto è dada. Il voto non significa nulla.

  • Disinformazione civile

    Ieri è comparso, sul sito di Rivoluzione Civile, un articolo di Valentina Stefutti, candidata alla Camera dei Deputati, che chiarisce la posizione programmatica della sua lista rispetto alla questione della sperimentazione animale. L’analisi che viene proposta è purtroppo infarcita di inesattezze quando non di affermazioni false, che rinnovano il clima di disinformazione e distorsione della realtà molto diffuso sul tema grazie a una cattiva divulgazione e ad una scarsa educazione scientifica. Sono di seguito riportate le parzialità e le inesattezze presenti nell’articolo.

    «La sperimentazione sugli animali è un metodo basato sull’assunto, totalmente sbagliato, che i risultati ottenuti sugli esemplari in laboratorio possano essere utili per gli esseri umani»

    Questa affermazione è falsa: i risultati ottenuti su modelli animali in laboratorio sono di fatto stati utili nella ricerca e nella realizzazione di metodi di cura di una grande quantità di malattie, congenite e non; inoltre nessun ricercatore pretende che la sperimentazione animale sia di per sé sufficiente a dimostrare l’efficacia di una cura e la sua applicabilità su un essere umano, a causa della intrinseca diversità degli esseri viventi e delle loro risposte fisiologiche. I modelli animali costituiscono tuttavia un buon filtro tra le possibili vie da adottare nella ricerca, sia pura sia applicata, in quanto i risultati concernenti i meccanismi di base sono spesso generalizzabili, seppur con eventuali correzioni, a tutto il mondo animale.

    «Utilizzata come modello per lo studio delle malattie e per la sperimentazione di farmaci e sostanze chimiche, questa branca definita non a caso “cattiva scienza” dalla prestigiosa rivista scientifica internazionale “Nature” (novembre 2005), cela in realtà ingenti interessi economici»

    Questa affermazione è volutamente inesatta: Nature è una rivista molto prestigiosa e pubblica centinaia di migliaia di articoli. Ogni tanto, com’è normale nella prassi scientifica, dà spazio a legittime critiche su specifici modelli o applicazioni di tecniche che rientrano nell’ambito della sperimentazione animale: per esempio, il caso citato, del novembre 2005 (qui), metteva in discussione l’affidabilità di un particolare esperimento condotto su un particolare oggetto di studio, i test tossicologici, in particolari modelli murini. Non si tratta quindi di una critica ragionata della ricerca su animali in generale, ma di un dubbio legittimo che concorre allo sviluppo del dibattito intorno a risultati specifici.
    Inoltre, anche se l’articolo in questione avesse espresso forti critiche sulla sperimentazione animale in toto (cosa del resto piuttosto improbabile, dato che la ricerca scientifica non può fare a meno del suo oggetto di studio, per definizione stessa di scienza), dire che Nature avrebbe definito «cattiva scienza» la sperimentazione animale sarebbe comunque stato un ignobile tirare per la giacchetta una delle più prestigiose riviste scientifiche nel mondo: se in uno o più articoli sono comparse opinioni, pur suffragate da dati sperimentali o da analisi di altro tipo, contrarie all’efficacia della sperimentazione animale, ciò non fa di queste posizioni la posizione ufficiale di Nature.
    Questa posizione semplicemente non esiste: una rivista pubblica risultati, non esprime opinioni.
    Tra l’altro, è interessante citare un articolo su Nature contrario alla sperimentazione animale, viste le centinaia di migliaia di articoli che invece si basano proprio su questa e hanno quasi sempre mostrato coerenza e affidabilità nel tempo, confutando così l’idea che questa sia inutile e allo stesso tempo l’idea che Nature consideri la sperimentazione animale «cattiva scienza».

    «La logica che sta alle spalle della sperimentazione animale, lungi dal perseguire il miglioramento della salute umana, è piuttosto da identificarsi in un interesse economico. L’universo di aziende e risorse destinate all’allevamento di animali da laboratorio è grandissimo e per questo non si intende utilizzare metodi diversi e meno costosi dal punto di vista economico e delle vite animali sacrificate»

    Questa affermazione è parziale. Non è da escludere che le aziende ricerchino inevitabilmente il profitto privato, pure operando nel settore della ricerca, giacché il capitale ambisce a rigenerarsi e ad accrescersi, a prescindere dal mezzo, sia esso costituito da farmaci, beni di consumo, giocattoli o navi da guerra. Il difetto della frase riportata è che evita di citare i tanti casi in cui un miglioramento della salute umana c’è stato e omette il reale motivo dell’utilizzo di animali nella ricerca, che risiede nella definizione stessa di ricerca e di scienza: la scienza è, per definizione, sperimentale. La sperimentazione animale è semplicemente un’esigenza delle scienze biologiche, che per studiare l’essere vivente devono disporre dell’essere vivente: questo è nella natura del metodo scientifico.
    Inoltre, dipingere il mondo della ricerca come totalmente subordinato agli interessi delle grandi aziende significa insinuare che gli scienziati non siano dotati di indipendenza nelle proprie scelte professionali, ovvero che si rifiutino di adottare certi metodi sperimentali anziché altri con lo scopo esclusivo di garantire la tutela di interessi diversi da quelli scientifici; questo, effettivamente, può accadere, ma pensare che tutti gli scienziati che conducono esperimenti sugli animali, ovvero pressoché tutti gli scienziati del settore biologico, lo facciano con questo scopo, è puro complottismo.

    «Le reazioni avverse ai farmaci sono la quarta causa di morte nei Paesi industrializzati. Nella sola Europa sono circa 200mila le persone decedute a causa degli effetti collaterali»

    Questa affermazione è fuorviante: anche se la stima fosse affidabile (ma non me ne sono sincerato), il fatto che i farmaci manifestino effetti collaterali non è necessariamente correlato alla sperimentazione animale. Se questi effetti esistono è piuttosto dovuto alla natura stessa del farmaco: tutti i farmaci sono molecole tossiche e, nel somministrarle, si spera sempre che gli effetti positivi siano maggiori di quelli negativi per la salute. Si sono verificati casi, in passato, di farmaci ritirati dal mercato in quanto ne è stata scoperto un grado di tossicità non compensato dai loro effetti benefici. In ogni caso, gli effetti collaterali non possono di certo essere attribuiti alla sperimentazione animale.

    «D’altronde sono numerosi e ben più scientificamente accurati i metodi alternativi alla sperimentazione animale»

    Questa affermazione è incompleta. Esistono moltissimi metodi alternativi, come le colture cellulari, le simulazioni al computer, gli studi clinici ed altri, che di norma non usano animali vivi, ma morti, perché i materiali utilizzati da qualche parte devono pur venire. Anche i metodi alternativi, quindi, fanno uso degli animali, e non c’è da stupirsi: non si può studiare un animale senza animale.
    Questi metodi, inoltre, sono comunemente utilizzati in qualunque laboratorio di biologia nel mondo: far passare l’idea che siano pratiche poco diffuse e ostacolate dagli istituti di ricerca o dalle aziende farmaceutiche significa divulgare il falso.

    «Uno fra tutti, la tossicogenomica: un metodo che prevede di mettere in contatto il DNA della cellula umana con le sostanze delle quali intendiamo verificare l’effetto tossico o dannoso»

    L’esistenza di un metodo in grado raggiungere buoni risultati evitando di usare animali non dimostra che si possa farne a meno in generale: ad oggi, la maggior parte delle risposte fisiologiche non sono accuratamente prevedibili in assenza di un modello in vivo. Questo significa che in molti ambiti, per condurre una buona ricerca, non è sufficiente utilizzare metodi alternativi: per esempio, la tossicogenomica può servire a valutare gli effetti di una sostanza sul materiale genetico, ma non può prevedere gli effetti biologici cellulari, tissutali o sistemici dell’azione di una sostanza. Al momento, in nessun ambito della ricerca che coinvolge la biologia animale si può fare a meno degli animali.

    «Anche in tema di costi, abbandonare la sperimentazione animale sembra la soluzione migliore»

    È vero che la ricerca deve tener conto anche dei costi, ma non si può fare della riduzione dei costi della ricerca un cavallo di battaglia, soprattutto se il programma della lista con cui si è candidati propone un’inversione di tendenza rispetto ai tagli precedentemente apportati al settore.
    Si sta così facendo della questione scientifica un problema di carattere economico, come se lo sviluppo delle conoscenze e il progredire del sapere scientifico dovesse sottostare alle leggi di mercato, non diversamente dalle forze politiche dalle quali Rivoluzione Civile si vanta di distinguersi.

    Per concludere, c’è da fare una considerazione anche sulla competenza dell’autrice in materia di sperimentazione animale, ricerca scientifica, scienze della vita. Valentina Stefutti è un avvocato: è quindi competente in giurisdizione, ma non conosce il mondo della ricerca. Le opinioni espresse nel suo articolo sono frutto di un’ingannevole propaganda costituita da slogan forvianti che non esaminano come dovrebbero un argomento complesso, banalizzandolo e semplificandolo all’osso (e scusate se parlo di ossa), e propongono alle persone inesperte una visione parziale e insufficiente a una valutazione oggettiva; di un’informazione manipolata che cita, per esempio, l’aforisma di Einstein «nessuno scopo e tanto alto da giustificare metodi così indegni» che in verità non si riferiva alla sperimentazione animale, ma conferisce autorevolezza alla posizione contraria; dello sfruttamento, al pari di tanti movimenti politici, dell’impatto emotivo, che non invita a valutare razionalmente la realtà, ma a prendere posizioni identitarie che minano l’essenza stessa del pensiero critico.

    Fin dalla nascista di Rivoluzione Civile, li ho chiamati ironicamente «compagni che sbagliano». E purtroppo sbagliano sempre di più.